Mary Maggic, fotogramma da Housewives Making Drugs, 2017.
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Il Numogramma Decimale

H.P. Lovercraft, Arthur Conan Doyle, millenarismo cibernetico, accelerazionismo, Deleuze & Guattari, stregoneria e tradizioni occultiste. Come sono riusciti i membri della Cybernetic Culture Research Unit a unire questi elementi nella formulazione di un «Labirinto decimale», simile alla qabbaláh, volto alla decodificazione di eventi del passato e accadimenti culturali che si auto-realizzano grazie a un fenomeno di “intensificazione temporale”?

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Hypernature. Tecnoetica e tecnoutopie dal presente

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Biopatchwork. Achiropita: genderless ed ecologia anarchica nell’arte contemporanea
Project, 29 September 2025
Intervista

Biopatchwork. Achiropita: genderless ed ecologia anarchica nell’arte contemporanea

Intervista a Marzia Avallone

CGI di Achiropita, fotogramma da video, Tetraktys Studio.

Davi Kopenawa, sciamano della comunità Yanomami, ha affermato che urihi a, la terra-foresta, «non è affatto un regno esterno alla società, scenario muto e inerte delle attività umane e semplice campo di risorse di cui occorre assicurarsi il dominio. Si tratta piuttosto di una vasta entità vivente […]» (Albert e Kopenawa 2023, p. 47) che non può essere intesa come una superficie delimitata da frontiere chiuse e caratterizzata da logiche identitarie, quanto piuttosto come un «sistema di valori di suolo» in costante e permanente ricomposizione rizomatica (cf. Albert e Kopenawa 2023, p. 54). La biodiversità della foresta è il risultato della sociodiversità che la caratterizza, «[…] le interazioni tra gli umani propriamente detti e le altre specie animali è, dal punto di vista indigeno, una relazione sociale, cioè, una relazione tra soggetti» (Viveiros de Castro 2013, p. 38) in cui anche le pietre hanno un ruolo sociale: «La logica nativa riconosce alle pietre un’intenzionalità che permette di annoverarle tra i viventi, e questo consente alle formazioni rocciose di relazionarsi con gli umani innescando comportamenti di risposta visibili e documentabili» (Borgnino 2022, pp. 56-57). Infatti, come ha osservato Eduardo Kohn in una ricerca sul campo presso i Runa di Ávila in Ecuador, le foreste «ospitano altri loci emergenti di intenzioni-significati che non ruotano necessariamente intorno agli umani e che non provengono da essi» (Kohn 2021, p. 155). Come sostiene l’artista Daiara Tukano, nel vocabolario del suo popolo il termine mahsã («gente») è utilizzato per riferirsi anche alle specie non umane: wai mahsã la gente delle acque, i pesci; yunku mahsã la gente della foresta, i boschi; nohkoa mahsã la gente delle stelle. Pertanto, come afferma lo stesso Kohn, tali rapporti «arrivano a condividere con intensità sempre maggiore una sorta di habitus trans-specie che non osserva le distinzioni che di solito faremmo tra natura e cultura […]» (Ivi, p. 236). Dunque, in tali contesti l’ecologia – le cui parole e i cui discorsi, per Kopenawa, sono sempre esistiti all’interno delle cosmopolitiche del suo popolo – andrebbe intesa a partire dal senso della «casa» che essa ingloba al suo interno (il termine ecologia nasce dalla combinazione di oikos e logos, casa e discorso). La foresta – per estensione l’habitat – impone un reticolo di ecorelazioni, di interazioni essenzialmente domestiche, le quali non vanno intese nel senso dispregiativo di sottomissione e gerarchizzazione, quanto piuttosto nel senso di familiarità, di creazione di reti in cui uno è il prolungamento dell’altro. Intendere lo spazio abitativo in questo senso significa costruire un’ecologia anarchica. 

È in questo contesto che si inserisce il progetto di Marzia Avallone. Achiropita (termine di origine greca che si riferisce a manufatti non realizzati da mano umana e apparsi inaspettatamente quasi per miracolo) sembra essere una dea contemporanea il cui messaggio ricorda non solo la vita tentacolare di Donna Haraway, ma anche l’avvertimento di Eduardo Viveiros de Castro: «Quando si umanizza tutto, diventa tutto pericoloso». L’oggetto realizzato dall’artista, che prende spunto dalla Madonna della Salute di Venezia, è una candela, in quanto tale, forse solo nel suo consumarsi essa rivela il suo significato più proprio. La dea, infatti, si presenta come un assemblaggio di elementi umani, oltre-che-umani e meccanici che, attraverso il lento consumarsi della cera, si fondono insieme in un’unica materia che, come l’argilla di Simondon, ha già una sua forma. Questo semplice processo rivela tre prospettive fondamentali. La prima corrisponde a ciò che possiamo provvisoriamente nominare biopatchwork. La sopravvivenza degli esseri viventi non può più essere pensata a partire dalle singole caratteristiche e specificità che definiscono un singolo essere vivente, ma per abitare le rovine del presente è necessario acquisire e sviluppare capacità apparentemente proprie di altri animali o vegetali (nei lunghi viaggi di caccia, gli Yanomami mettono in atto sistemi di mimetismo sonoro che consentono loro di individuare le prede). Il secondo punto è quello legato al genere. Non si tratta soltanto di abbandonare il binarismo, il quale riconfermerebbe le sue strategie nella creazione di nuove identità diverse ma complementari alle precedenti, quanto piuttosto, come avevano notato Deleuze e Guattari, di creare dei divenire, siano essi animali, vegetali o non-umani, per tracciare linee di fuga. In alcune popolazioni indigene, infatti, il concetto di «persona» così come lo intende l’occidente non esiste, esso è piuttosto una possibilità tra tante altre. Ad esempio, nella danza tradizionale mapuche Choique Purrún il danzatore non imita un animale, ma si converte in esso. Come afferma Antonio Catrileo: «Siamo la molteplicità di verdi in un bosco mai monocoltura. Ci apriamo al tempo vegetale, alla grammatica della clorofilla per fare fotosintesi con il sole» (Catrileo 2019, p. 107). Infine, un ultimo punto corrisponde a ciò che possiamo chiamare biofania. L’opera d’arte che vuole aderire al presente, che vuole confrontarsi con le problematiche relative al collasso ecologico risultato delle politiche espansioniste, appropriazioniste ed estrattiviste delle politiche occidentali, deve necessariamente mostrare la complementarietà di umani e oltre-che-umani. La candela si consuma, e nel suo consumarsi fonde insieme elementi animali, umani, vegetali, meccanici. Rimane un accumulo di cera che ci ricorda qualcosa che altre culture conoscono bene, non siamo altro che forze o intensità che giocano nel teatro planetario della cosmopolitica.


LM: Cara Marzia, il tuo lavoro sembrerebbe essere quasi la trasposizione visiva del pensiero di Donna Haraway. Come ha influito il pensiero della studiosa nel tuo lavoro? 

MA: Il pensiero di Donna Haraway attraversa il mio lavoro, ma non in modo derivativo o didascalico. Non mi interessa trasporre visivamente la sua teoria quanto, piuttosto, operare nel suo stesso campo di tensione: quello in cui l’ontologia si fa impura, situata, performativa. La sua figura del cyborg – più che come icona postumana – mi ha influenzato come struttura narrativa e ontologica, capace di disinnescare dicotomie epistemologiche: soggetto/oggetto, natura/cultura, artificio/origine. In particolare, ho trovato essenziale il suo appello a “stare con il problema” (staying with the trouble), che ho interiorizzato come metodo e postura critica. L’arte oggettuale impegnata che sto sviluppando all’interno di Achiropita non è la visualizzazione di una teoria, ma una forma di pensiero materiale. In questo senso, il mio rapporto con Haraway è più simile a un’alleanza epistemica che a una citazione. I miei oggetti non vogliono illustrare Haraway: vogliono dialogare con lei. Forse anche contraddirla, quando necessario. Non vogliono risolvere, spiegare o rappresentare, ma generare coesistenze problematiche, inquietudini materiali, zone liminali. Un riferimento particolarmente significativo per me è The Companion Species Manifesto, in cui Haraway sposta l’attenzione dall’ibridazione tecnologica a quella affettiva e interspecifica. Questo ha aperto per me una riflessione sugli oggetti non più come strumenti, ma come compagni epistemici – agenti con cui si co-pensa, si convive, si costruisce una storia condivisa di ambivalenze. I miei oggetti non “parlano” per me: mi mettono in questione.

Infine, trovo affinità anche con la scrittura stessa di Haraway, che è sempre tentacolare, obliqua, contaminata. Questo ha avuto un’influenza sulla struttura del progetto Achiropita nel suo insieme, che rifiuta l’autorialità chiusa e propone invece un’ecologia transdiscorsiva, dove ogni sfumatura del progetto è un’interfaccia instabile tra materia, voce e concetto.

LM: La candela sembrerebbe evocare l’idea di un biopatchwork, un essere vivente risultato dall’assemblaggio di parti umane e non-umane. Puoi parlarcene? Credi che debba essere questa la direzione da prendere per affrontare le catastrofi eco-politiche delle società contemporanee? Credi che, in tal senso, sia possibile parlare di una anarchia biologica ed ecologica?

MA: La candela è per me un organismo ibrido. Un biopatchwork, come suggerisci, ma non nel senso di un essere composto da frammenti assemblati – quanto piuttosto come un corpo in continua dissolvenza, dove le parti non stabilizzano un’identità, ma ne testimoniano la transitorietà. È un oggetto vivo perché si consuma. Perché espone il tempo. La cera che cola è la sua memoria liquida. È un oggetto che muore, lentamente, in pubblico. In questo senso, è anche un dispositivo vulnerabile, che mette in scena la crisi dell’integrità – corporea, politica, ecologica. Non credo che l’assemblaggio umano/non-umano debba essere letto come un destino da accettare o da rifiutare. Piuttosto, lo vedo come una condizione già attiva, già reale, che la pratica artistica può far emergere con lucidità e senza retorica. La candela, nella sua materialità porosa, è già un soggetto contaminato: animale, vegetale, minerale, culturale. È carne e combustione. È insieme rito e rovina. Rispetto alla tua domanda sulla risposta alle catastrofi eco-politiche: non credo ci sia “una” direzione. Ma credo che l’abbandono dell’idea di purezza – biologica, identitaria, epistemologica – sia una condizione necessaria per cominciare a pensare altro. In questo senso, sì: parlo volentieri di anarchia biologica ed ecologica, se per anarchia intendiamo non caos, ma una coesistenza non gerarchica di forme di vita, di materiali, di agenti. Un ecosistema che non si fonda sull’ordine, ma sulla complessità relazionale, sul mutualismo improprio, sull’eccesso rispetto alla funzione. La candela non rappresenta questa anarchia: la pratica. E nel farlo, ne mostra anche il dolore, la perdita, l’impermanenza. Ma forse è proprio in questa instabilità – in questa combustione lenta – che possiamo immaginare forme radicali di responsabilità condivisa.

LM: Parte del ricavato sarà devoluto a Survival Italia per la campagna a sostegno dei popoli incontattati. In generale, come sappiamo dagli studi di antropologia, la questione delle relazioni antigerarchiche tra umani e non-umani e la funzione sociale che questi ultimi hanno all’interno delle strutturazioni organizzative delle comunità e delle loro cosmopolitiche, è qualcosa di fondamentale nelle logiche indigene. Perché la scelta di appoggiare questa causa? C’è una relazione tra i modi in cui i popoli indigeni riflettono sulle relazioni tra umani e non-umani e il tuo lavoro?

MA: La scelta di devolvere parte del ricavato a Survival Italia, in particolare per la campagna a sostegno dei popoli incontattati, nasce da un’urgenza politica ma anche epistemica: la necessità di difendere la possibilità che esistano mondi altri, radicalmente differenti dal nostro, che non possono essere assimilati, narrati, rappresentati secondo le nostre categorie. Nel mio lavoro, la relazione tra umano e non-umano non è mai neutra né decorativa. È una relazione che mette in crisi la centralità dell’umano come soggetto conoscente e agente. In questo senso, i sistemi cosmologici e organizzativi delle comunità indigene – dove spesso gli animali, gli oggetti, le piante, i fiumi sono portatori di intenzionalità e valore sociale – mi interrogano profondamente. Non per essere adottati, ma per riconoscere che esistono altri modi di pensare la coesistenza. Sostenere questi popoli significa anche sostenere una diversità ontologica: non solo culturale, ma cosmopolitica. È l’idea, formulata da pensatori come Eduardo Viveiros de Castro, che i popoli indigeni non abitino semplicemente altre culture, ma altri mondi, altre strutture del reale, in cui le relazioni tra umani-non umani non sono separate da gerarchie ma vissute come alleanze, parentela, co-appartenenza. Questa visione, che rifiuta l’universalismo occidentale e apre alla possibilità di multinaturalismi, risuona con la mia pratica artistica: non voglio rappresentare l’alterità, ma aprire spazi in cui il pensiero dominante possa essere sospeso, spostato, anche ferito – se necessario – per lasciar emergere altre logiche, altri ordini, altre possibilità. Ed è proprio questo che mi interessa: non rappresentare l’alterità, ma lasciare spazio alla sua inassimilabilità. In questo senso, sì, esiste una relazione profonda tra la mia pratica e le cosmologie indigene: non nell’imitazione, ma nel desiderio di disattivare le gerarchie tra vivente e non-vivente, tra natura e cultura, tra occidente e oriente, tra corpo e oggetto. Anche solo per un attimo, anche solo attraverso un gesto formale, un materiale inappropriato, una presenza che resiste alla permanenza. Non è un’appropriazione: è un allearsi con ciò che ci eccede e che non vuole essere tradotto.

LM: Cosa pensi rispetto a ciò che rimarrà della candela una volta consumatasi? La cera si scioglie, parti umane e non-umane cadono insieme. Che cosa rimane? Possiamo ipotizzare che in quel cumulo di cera apparentemente informe sia racchiusa, in qualche modo, la reale potenza dell’opera? In quella cera sciolta in cui umano e non-umano si confondono, non pensi sia racchiusa la possibilità di una vita genderless, nel senso di priva di attributi, inqualificabile? E non credi che sia proprio questo il messaggio dell’opera?

MA: Quello che rimane della candela dopo la combustione è, per me, il corpo residuo dell’opera, la sua parte non negoziabile, non spettacolare, improduttiva ma carica di senso. È ciò che sopravvive al dispositivo espositivo, al tempo lineare, alla funzione. Un deposito informe, sì – ma non casuale. È la geologia del gesto, il luogo dove materia e intenzione si sono incontrate e poi sciolte insieme. La cera colata – quel cumulo che sembra scarto – è in realtà il punto di massima densità dell’opera. Non perché contenga un messaggio nascosto, ma perché mostra ciò che accade quando l’identità dell’oggetto implode: quando l’umano e il non-umano non si rappresentano più, ma collassano insieme in una materia che non può più essere interpretata secondo codici precostituiti. In quella massa fusa non c’è neutralità, ma eccedenza. Non c’è assenza di forma, ma forma senza modello. E forse sì: proprio in quel punto, dove tutto si confonde e nulla può più essere ricondotto a un nome, emerge la possibilità di un’esistenza inqualificabile. Non come mancanza di genere o significato, ma come eccedenza che sfugge a ogni attribuzione. Se c’è un messaggio – o meglio, una vibrazione – dell’opera, è proprio questo: un’eccedenza semiotica, un’area di indistinzione dove la materia non risponde più alla logica della rappresentazione ma si fa pura relazione ontologica. È in quella cera – caduta, confusa, non più funzionale – che il residuo non significa, ma insiste.

Pack gadget, Lorenzo Romano.

LM: Il tuo progetto prende spunto dalla figura della Madonna della Salute, puoi parlarci del perché di questa scelta e della sua genealogia? La scelta della candela sembrerebbe richiamare l’idea dell’effimero, qualcosa che è destinato a consumarsi e di cui non rimarrà altro che un cumulo di cera informe. Puoi parlarci del perché hai scelto di tradurre e materializzare il progetto in questo oggetto? 

MA: Il progetto trae spunto dalla figura della Madonna della Salute perché è un’immagine che mi accompagna sin dall’infanzia, ma che non ho mai vissuto in termini strettamente religiosi. Mi ha sempre colpita come dispositivo collettivo di invocazione, come gesto rituale carico di precarietà e reciprocità. Ogni 21 novembre, da sud come a Venezia, si accendono candele, si fanno promesse, si affidano i propri corpi – e quelli degli altri – a un’icona che è al tempo stesso presenza e soglia, figura e rifugio. Questa figura ha una genealogia che si intreccia con la storia delle epidemie, della cura e della vulnerabilità condivisa. La Madonna della Salute non è una santa gloriosa o vittoriosa: è un’immagine di sopravvivenza collettiva, di residuo, di negoziazione tra il vivente e l’invisibile. È da lì che nasce Achiropita: non come opera devota, ma come tentativo di interrogare la materia della protezione – ciò che rimane, ciò che arde, ciò che non si può toccare ma si deve attraversare. La scelta della candela come oggetto non è casuale. È un corpo che si consuma per essere, che non lascia un monumento ma un residuo. Mi interessava questo paradosso: un oggetto che vive nel suo stesso morire, che non si conserva ma si offre, che non afferma ma accompagna. La cera che cola, che si deforma, che si confonde con elementi umani e non-umani, diventa così una soglia tra il gesto rituale e la materia eccedente, tra il sacro e il relazionale. Tradurre il progetto in una candela è stato, per me, un modo di materializzare l’atto della fiducia: nella combustione, nel tempo, nella trasformazione. Non è un oggetto che vuole durare, ma un oggetto che vuole stare – finché può. E nel suo stare, diventare luogo di contatto, di fragilità condivisa, di memoria non fissata, ma accaduta.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Leonardo Mastromauro
  • Leonardo Mastromauro (1988) è Dottore di ricerca alla Pontificia Universidad Católica de Chile, visiting fellow della Euskal Herriko Unibertsitatea. Le sue ricerche indagano le articolazioni tra biopolitica, ecologia, indigenismi e pratiche artistiche. Ha collaborato con istituzioni quali: UNIDEE, Fondazione Bevilacqua La Masa, VIAFARINI e Museo de la Solidaridad Salvador Allende. È stato docente della UNAB (Chile) e nel direttivo della sede latinoamericana del Global Center for Advanced Studies. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Che cos’è il Sud? (Meltemi, 2024)