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La grande abbuffata: dall’Ultima cena al food porn (#artissimalive)
Magazine, PEOPLE - Part I - Luglio 2018
Tempo di lettura: 9 min
Simona Squadrito

La grande abbuffata: dall’Ultima cena al food porn (#artissimalive)

The Edit Dinner Prize: il rapporto tra arte e cibo tra storia dell'arte e ossessioni culinarie contemporanee.

#foodporn, Instagram.

 

The EDIT Dinner Prize è il nuovo premio nato dalla collaborazione tra Artissima ed EDIT, un nuovo polo gastronomico torinese. Il premio va ad aggiungersi agli altri sei organizzati durante la fiera e vedrà in questa prima edizione l’artista Massimo Bartolini e lo chef stellato Costardi Bros impegnati nella realizzazione di due “particolari cene performative”.

Il premio, suggeriscono gli organizzatori, si ispira alla consolidata relazione tra arte e cibo e verrà assegnato da una giuria «con competenze artistiche e di food innovation a un artista rappresentato in fiera» concretizzandosi di fatto «in un riconoscimento in denaro e nella produzione e direzione artistica di una cena da realizzare presso EDIT» (dal comunicato stampa ufficiale). Il premio è aperto a ciascuna delle otto sezioni e a tutti gli artisti in gara ad Artissima. Il vincitore avrà la possibilità di organizzare una cena definita dagli organizzatori come “un’esperienza multidisciplinare, performativa e personale”. A questo punto vale forse la pena approfondire, attraverso un breve excursus, la natura di una specifica relazione, quella tra arte e cibo, su cui indubbiamente sono stati versati fiumi di inchiostro. Basta sfogliare uno qualsiasi tra i manuali di storia dell’arte per accorgersene.


Natura morta con cesto di vetro e frutta. Affresco romano trovato in casa di Giulia Felice, Pompei.

È Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis historia, a raccontarci per primo di quel grappolo d’uva dipinto da Zeusi durante la sfida contro Parrasio. Scrive Plinio: «Si racconta che Parrasio venne a gara con Zeusi; mentre questi presentò dell’uva dipinta così bene che gli uccelli si misero a svolazzare sul quadro». Sebbene questa, in realtà, più che la storia del rapporto tra arte e cibo, sia quella della nascita del trompe-l’oeil, è innegabile che di fatto raffigurazioni di frutta, cacciagione, pesci e ortaggi di vario genere furono sempre presenti all’interno della storia dell’arte di ogni epoca.

Nelle tombe etrusche, tali elementi intendevano ricordare ciò di cui in vita amava nutrirsi il defunto, mentre negli affreschi delle case patrizie frutti e ortaggi erano, accanto a fiori e ghirlande, complessi e raffinati motivi decorativi.

La rappresentazione del cibo diviene qualcosa di più che un grazioso ornamento attraverso la mediazione dell’arte sacra, che trasforma il cibo in un simbolo del divino, un vero e proprio segno di devozione. Si moltiplica così in pittura la presenza di cibo trattato e sapientemente raffigurato nelle sue proprietà simboliche: pane e pesce come corpo di Cristo, boccali di vino come il suo sangue.

A moltiplicarsi, all’interno delle opere pittoriche del passato, sono anche tavole riccamente imbandite e lussuosi banchetti per testimoniare e simboleggiare la convivialità dei commensali. Per esempio, il noto dipinto del Veronese, Le Nozze di Cana (1562), racconta l’episodio evangelico della tramutazione dell’acqua in vino, così come nelle innumerevoli versioni dell’Ultima Cena il pane diviene elemento portante dell’intera narrazione.

Caravaggio, La canestra di frutta, olio su tela, 1594/1598.

Un caso a sé è rappresentato da Giuseppe Arcimboldo, pittore manierista noto soprattutto per le sue “teste composte”, complessi ritratti eseguiti combinando tra loro frutta, ortaggi, pesci e fiori. Tuttavia, più di ogni altro, si deve forse a Caravaggio la realizzazione della prima natura morta italiana, quel genere pittorico apprezzato soprattutto dai pittori olandesi e tedeschi. È infatti la Canestra di frutta, realizzata tra 1594 e 1598, a rinnovare in pittura l’utilizzo del cibo: in questo dipinto, Caravaggio eleva il genere a una dignità pari a quella di cui godono all’epoca la ritrattistica, la pittura di scene e di passaggio.

Ma la storia delle nature morte non è legata solo a deliziosi cestini di frutta: esiste infatti una lunga tradizione iconografica che, con vivezza di particolari, si annida nei retrobottega dei macellai, facendo sfoggio di manzi, buoi, agnelli e maiali appesi e squartati. A spianare la strada di questo filone è la Bottega del macellaio di Annibale Carracci, eseguita nel 1585. A seguire vedremo pittori del calibro di Rembrandt, con il suo Bue macellato (1655) e di Chaïm Soutine, con i suoi corpi straziati di lepri e buoi. Proprio Soutine era noto, in vita, per il nauseabondo odore di carne putrida emanato dalle sue vesti e dal suo studio. La lista attraverso i secoli potrebbe arricchirsi sempre di più, ma basta approdare al XX secolo per dimostrare come questo rapporto e questa tendenza, lungi dall’essersi esaurite, si siano piuttosto fortificate. A metà ’900 assistiamo a quarti di bue su tela, appena visibili in mezzo all’oscurità che li avvolge, dipinti come capezzale di Papa Innocenzo X, nel quadro Figure with Meat (1954) di Francis Bacon.

Annibale Carracci, Bottega del macellaio, intorno al 1585.

Oltre a abbellire case e palazzi, il cibo ha da sempre veicolato significati ulteriori. In arte è persino stato utilizzato come elemento concettuale: il cibo come corpo, il cibo come il divino, il cibo come simbolo della morte o come momento di festa. E non può sorprendere che una simile attitudine nei confronti del cibo, all’interno dell’ambiente artistico, a un certo punto non suscitasse un cambiamento nel suo medesimo utilizzo: da soggetto di una rappresentazione, il cibo passa presto a trasformarsi in medium stesso.

Quel cumulo di caramelle, offerte ai visitatori da Felix Gonzales-Torres nel 1991 in Untitled (Placebo), rappresentano un dono drammatico, quello del corpo di Ross, compagno dell’artista precedentemente morto di AIDS, qui ricontestualizzato all’interno di una vera e propria rappresentazione laica dell’Ultima Cena, attraverso la transustanziazione dello spirito nella materia. Del corpo di Ross quel cumulo di caramelle ne condivide il peso: esse sono il corpo (e il ricordo) di un uomo che a poco a poco viene portato via dal visitatore. A proposito di quest’opera, in Estetica relazionale Nicolas Bourriaud sostiene: «Contiene altresì un’etica dell’osservatore. In questo senso partecipa a una storia specifica, quella delle opere che portano lo spettatore a essere consapevole del contesto nel quale si trova. […] Durante una mostra di Gonzales-Torres ho visto gli spettatori accumulare tante caramelle quante ne potevano contenere le loro mani e le loro tasche: eccoli rinviati al loro comportamento sociale, al loro feticismo, alla loro concezione accumulativa del mondo».

Felix Gonzales Torres, Untitled (Placebo), installazione, 1991

Se Gonzales-Torres, attraverso un’offerta di cibo, condivide pubblicamente un evento intimo e drammatico della propria vita, l’artista Rirkrit Tiravanija genera invece momenti di pura convivialità trasformando musei e gallerie d’arte in veri e propri ristoranti: cucinando e offrendo cibo ai visitatori, l’artista mette in scena un gesto di cura e amicizia nei confronti dello spettatore/partecipante. Sempre Bourriaud sostiene che proprio Tiravanija sia uno dei principali esponenti dell’arte relazionale. Nella ricerca dell’artista a prevalere è infatti l’aspetto ludico e ricreativo del cibo. Riguardo a Tiravanija, in Il Bonami dell’arte. Incontri ravvicinati della giungla contemporanea scrive Francesco Bonami: «Non si può definire che “il migliore”, Rirkrit Tiravanija. Thailandese, ma nato in Argentina e cresciuto artisticamente a New York, è stato tra i primi a trasformare il cibo, o gli avanzi di questo, in arte. Come il cibo macrobiotico, non importa quello che fa perché qualunque cosa faccia fa bene e ci fa stare contenti. L’ho conosciuto a New York agli inizi degli anni novanta, quando alla 303 Gallery, che a quei tempi era a Soho, trasformò lo spazio in un ristorante da campo dove lui cucinava il pad see ew, gli spaghetti thailandesi. Si andava alla mostra e, non avendo il becco di un quattrino, si mangiava gratis. Ma non solo. S’incontravano altri amici, altri artisti, altri curatori. L’arte di Rirkrit era, ed è ancora, un pretesto per stare insieme».

Rirkrit Tiravanija, Do we dream under the same sky, ArtBasel 2015. Tommaso Marinetti e Fillia, Manifesto della cucina Futurista, 1931.

Ma molto prima di Tiravanija, a deliziare le papille gustative del pubblico dell’arte ci avevano già pensato, con assurdi precetti, gli artisti futuristi. Nel 1930 la «Gazzetta del Popolo di Torino» pubblicò il Manifesto della cucina futurista, firmato da Filippo Tommaso Marinetti e dal poeta e pittore Fillia. Nel Manifesto, Marinetti vietava agli italiani il consumo di pasta asciutta, nonché l’uso del coltello e della forchetta, invitando i lettori a impegnarsi in creazioni di piatti dai colori cangianti e suggerendo, insieme alla degustazione di deliziosi manicaretti, di ascoltare musica, di circondarsi di aromi e profumi nonché persino di leggere poesie: «L’abolizione della forchetta e del coltello per i complessi plastici che possono dare un piacere tattile prelabiale. […] L’uso dell’arte dei profumi per favorire la degustazione. Ogni vivanda deve essere preceduta da un profumo che verrà cancellato dalla tavola mediante ventilatori. […] L’uso della musica limitato negli intervalli tra vivanda e vivanda perché non distragga la sensibilità». Non limitandosi a redigere un’oziosa lista di precetti da seguire, Marinetti stesso mise in atto le sue convinzioni e fondò a Parigi il primo ristorante futurista.

Tutt’altra storia, invece, quella che vide il pittore statunitense Mark Rothko alle prese con il suo complesso rapporto con il cibo. È infatti noto l’episodio in cui nel 1958 un ristorante newyorchese esclusivo, il Four Season, gli commissionò una serie di grandi tele. All’inizio l’artista accettò di buon grado l’offerta e cominciò a lavorare al progetto per più di un anno. Tuttavia, quando finì i lavori, all’improvviso cambiò radicalmente idea rifiutandosi di vendere al ristorante le proprie opere e rinunciando così al lauto compenso promesso. Questo netto e improvviso rifiuto scaturì in Rothko dallo sdegno di consegnare la propria arte al servizio di un fine e di un contesto esclusivamente commerciali, circoscrivendo così le proprie opere a meri oggetti di arredo e consumo.

Cucine da Incubo, versione italiana.

Ma se Maometto rifiuta di recarsi alla montagna, è la montagna che, prima o poi, va da Maometto. Ed ecco che la montagna arriva, nel sistema artistico torinese, proprio grazie all’EDIT Dinner Prize, che trasforma un ristorante in un luogo esclusivo dell’arte: esclusivo, perché solo sessanta persone potranno assaporare questa cena gourmet con la guida di un artista che le condurrà in tutte le fasi di questo appuntamento performativo. Sia l’artista, Massimo Bertolini, sia lo chef, Costardi Bros, ribadiscono infatti che la cena in oggetto si configurerà come “un’esperienza a 360 gradi”.

Alla luce di quanto finora osservato, dall’esterno sembrerebbe che l’EDIT Dinner Prize intenda posizionarsi in assoluta continuità con la storia dell’arte, i suoi vezzi e le sue raffinate abitudini. Anzi, viene quasi da chiedersi: “Perché non ci abbiamo pensato prima?”.

Ma al breve excursus delineato, abbiamo finora volontariamente tralasciato le peculiarità che caratterizzano, oggi più che in passato, il complesso e per certi versi ossessivo rapporto tra società e cibo, per cui forse vale la pena aggiungere qualcosa per completare il quadro: negli ultimi anni, il cibo sta vivendo infatti una vera e propria sovraesposizione mediatica, tra programmi, gare e talent show culinari, in cui critici, opinionisti del palato e chef stellati si contendono i palinsesti televisivi grazie alla rapida affermazione di un trend, per certi versi richiesto dal pubblico, per altri imposto dal mercato. Il cibo si configura come una delle nuove ossessioni dell’uomo contemporaneo: le dashboard di Instagram proliferano di immagini di piatti prelibati e il nostro modo di autorappresentarci passa anche e soprattutto, oltre che dai selfie, dalle prelibatezze che siamo in procinto di mangiare. Tutto ciò contraddistingue il cosiddetto food porn, un recente neologismo che descrive il bombardamento continuo di immagini, gare culinarie e format televisivi dedicati al cibo, alla sua spettacolarizzazione ed erotizzazione.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Simona Squadrito
  • Simona Squadrito è curatrice e critica d'arte, vive e lavora a Milano. Dopo il conseguimento della laurea magistrale in Filosofia e Storia delle Idee all'Università degli Studi di Torino ha intrapreso un percorso lavorativo e formativo nelle arti visive, conseguendo nel 2020 il master di secondo livello in Museologia Museografia e Management dei Beni Culturali. Presidente dell'Associazione culturale Casagialla, è stata dal 2015 al 2020 direttore di Villa Vertua Masolo. È cofondatrice di "REPLICA. L'archivio italiano del libro d'artista" e cofondatrice dell'associazione culturale KABUL magazine. Dal 2014 scrive e collabora per diverse testate e piattaforme digitali.