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Il Numogramma Decimale

H.P. Lovercraft, Arthur Conan Doyle, millenarismo cibernetico, accelerazionismo, Deleuze & Guattari, stregoneria e tradizioni occultiste. Come sono riusciti i membri della Cybernetic Culture Research Unit a unire questi elementi nella formulazione di un «Labirinto decimale», simile alla qabbaláh, volto alla decodificazione di eventi del passato e accadimenti culturali che si auto-realizzano grazie a un fenomeno di “intensificazione temporale”?

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Hypernature. Tecnoetica e tecnoutopie dal presente

Avery Dame-Griff, Barbara Mazzolai, Elias Capello, Emanuela Del Dottore, Hilary Malatino, Kerstin Denecke, Mark Jarzombek, Oliver L. Haimson, Shlomo Cohen, Zahari Richter
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Dinosauri riportati in vita, nanorobot in grado di ripristinare interi ecosistemi, esseri umani geneticamente potenziati. Ma anche intelligenze artificiali ispirate alle piante, sofisticati sistemi di tracciamento dati e tecnologie transessuali. Questi sono solo alcuni dei numerosi esempi dell’inarrestabile avanzata tecnologica che ha trasformato radicalmente le nostre società e il...

La politica degli highlights
Magazine, MITO – Part II - Giugno 2019
Tempo di lettura: 17 min
Graziano Meneghin

La politica degli highlights

Un cortocircuito linguistico-visuale: genesi ed evoluzione del montaggio degli highlights, il ritorno delle arti performative nel sistema delle arti visive.

Carolee Schneemann, Eye Body #11, 1963, The Estate of Carolee Schneemann; Galerie Lelong and Co.; Hales Gallery; P.P.O.W. Gallery, New York.

 

Lincoln Blake è un ragazzino tredicenne affetto da autismo. La sua unica passione è trascrivere e schematizzare su block notes qualsiasi pausa interna a un brano musicale. Un giorno, in un raro tentativo di raccontare il proprio mondo interiore, Lincoln spiega:

«La pausa ti fa pensare che la canzone sia finita. Invece scopri che non è finita, e per te è un sollievo. Poi però la canzone finisce davvero, perché tutte le canzoni finiscono ovviamente, ovviamente, e stavolta. La. Fine. È. Vera».11J. Egan, A Visit from the Goon Squad, 2010 (2011), p. 327.

Evidentemente, per Lincoln la pausa rappresenta il momento in cui è possibile soggettivare l’ascolto. Lincoln vive con il padre Drew, la madre Sasha e la sorella minore Alison. È quest’ultima a riportarci le parole del fratello in Le grandi pause del Rock, racconto scritto unicamente tramite Powerpoint che narra le vicende della famiglia Blake. Il racconto, in realtà, è un capitolo di A Visit from the Goon Squad, romanzo di Jennifer Egan pubblicato nel 2010; Lincoln e Alison sono solo alcuni degli innumerevoli personaggi fittizi narrati dall’autrice premio Pulitzer22A Visit from the Goon Squad (Il tempo è un bastardo nella traduzione italiana di Matteo Colombo) è una raccolta di 13 racconti che narrano episodi della vita di 13 diversi protagonisti. Tali episodi vengono raccontati talvolta utilizzando la prima persona singolare, rendendo il narratore fittizio, altre con l’utilizzo della terza persona singolare, rendendo così il narratore esterno. Le storie dei 13 protagonisti si intrecciano e in tal modo troviamo gli stessi personaggi in fasi diverse della loro vita. La raccolta copre un arco temporale narrativo di circa 50 anni, in cui appare evidente il tentativo di Egan di raccontare parte della storia americana. In particolare, qui, si fa riferimento al dodicesimo di questi racconti, ovvero Le grandi pause del rock (di Alison Blake). Attraverso l’utilizzo di soli Powerpoint, trascritti graficamente nelle pagine del libro, la dodicenne Alison Blake racconta i rapporti che intercorrono tra i vari membri della sua famiglia. In particolare emerge la figura del fratello tredicenne Lincoln, affetto da una lieve forma di autismo, il quale ama trascrivere su un quadernetto, in forma prossima all’archivio, qualsiasi tipo di pausa interna a un brano musicale.
in quello che può essere definito come un caposaldo assoluto della letteratura americana del primo decennio del XXI secolo.

Il personaggio di Lincoln può essere preso a buon diritto come caso emblematico della cultura contemporanea per almeno due motivi. Da una parte, l’autismo può essere considerato come deficit neurologico che più di ogni altro racconta il nostro tempo, laddove chi ne è affetto ha difficoltà a relazionarsi con un tempo passato e un tempo futuro33Cf. Wallace-Happé, 2008; Allman-Meck, 2012.
 un eterno presente che riporta alla mente la declinazione che dà al termine “presentismo” Francois Hartog44Storicamente il termine presentismo indica una tendenza a considerare solo il tempo presente come reale, mentre passato e futuro sono costrutti logici finzionali. In Regimi di storicità: presentismo ed esperienze del tempo (2003) Francois Hartog, partendo dal presupposto che ogni epoca storica comporta una diversa modalità di rappresentazione del tempo, dello spazio e del linguaggio, osserva come ci sia una tendenza storica progressiva nel considerare il tempo presente come unico tempo possibile, una tendenza in cui si cela «l’evidenza di un presente onnipresente, ciò che chiamo presentismo» (Hartog, 2003).
o, ancora, Frederic Jameson, quando quest’ultimo presenta la temporalità contemporanea come «la riduzione del corpo al tempo presente».55Cf. Jameson, 2003.
Dall’altra, la produzione culturale contemporanea sembra spingere sempre più verso la perdita di un qualsiasi intervallo tra uno stimolo e l’altro,66Cf. Dorfles, 1980.
 e la pausa musicale può essere considerata come intervallo per eccellenza, almeno da un punto di vista strettamente sonoro.

Ora, immaginiamo per un attimo Lincoln alle prese con Ezra, brano contenuto in Garden of Delete (2015), quinto album di Oneohtrix Point Never (al secolo Daniel Lopatin). Ezra inquadra una certa deriva della cultura visuale: è un insieme di highlights, brevi blocchi ritmico-musicali totalmente autosufficienti nel loro sembrare singoli brani in cui tutto il superfluo è stato depurato. A livello di editing a mancare è la funzione del “bridge”77In ambito musicale il bridge indica un passaggio di transizione formale. Nella musica pop, rock o jazz, il termine viene utilizzato per indicare una sezione strutturale che non presenta analogie con le sezioni che si susseguono nel brano, quali la strofa o il ritornello.
: l’intervallo qui non solo è perduto, a perdersi è la stessa possibilità per l’ascoltatore di intervenire direttamente sulla propria fruizione, attraverso un processo di soggettivazione del breve frammento temporale in cui, normalmente, due blocchi musicali vengono giustapposti.88Per Gillo Dorfles, uno degli sviluppi attraverso cui la cultura a lui contemporanea trova forma è l’assenza dell’intervallo, inteso come pausa all’interno di un’opera o lungo lo sviluppo di un’azione. Questo si traduce nell’impossibilità di circoscrivere una data opera al suo contesto. Nell’esistenza quotidiana ciò si ritrova nel veloce succedersi e sovrapporsi di eventi senza sospensione alcuna e senza nessun tempo o spazio di ricambio. Nello sviluppo di questo testo si cercherà di evidenziare come nella cultura visiva contemporanea è lo stesso contesto a determinare una qualsivoglia fruizione, impedendone tuttavia una possibile soggettivazione, dato che l’assoluta mancanza d’intervallo fa sì che un determinato blocco formale perda la sua capacità di rimandare a un precedente storico/culturale. In questo si evidenzia il maggior stacco e la maggior frattura rispetto all’utilizzo classico della citazione nell’estetica post-modernista.
 La collezione di spazi vuoti musicali che Lincoln amava cronometrare e accumulare è qui negata.

Jennifer Egan, A visit from the goon squad, 2010, pagina interna, edizione originale Knopf, New York.

Ezra inizia contrapponendo per quattro volte due differenti moduli dal sapore spiccatamente minimal. Il primo, un 6/8 in levare, appare come una rivisitazione post-industriale di certe derive compulsive delle prime composizioni pianistiche di Steve Reich. In conflitto con esso si pone il blocco successivo: un’elaborazione di contenuti musicali propri del mondo virtuale, il possibile suono d’avvio di un qualsivoglia software. A seguire troviamo un arpeggio per chitarra, connotato dal forte utilizzo di riverberi e chorus, sul quale, all’improvviso, irrompe una voce fortemente digitalizzata, con un significativo cambiamento del pitch originale, che ripete ossessivamente il titolo del brano. Una nuova voce, questa volta femminile, crea un successivo smarcamento, a cui segue una lunga coda dal carattere spiccatamente barocco: sorta di digitalizzazione di forme metalliche al confine tra musica industriale e musica progressiva, essa sembra rimandare al John Zorn del periodo Naked City. Il brano procede ripetendo questi blocchi, alterati nel loro succedersi, sia per disposizione, sia nei contenuti, sino all’epilogo finale: una nuova coda musicale dal sapore tipicamente orientaleggiante, release necessario ed essenziale per placare l’inevitabile irrequietudine a cui è sottoposto l’ascoltatore.

Jennifer Egan, A visit from the goon squad, 2010, pagina interna, edizione originale Knopf, New York.

Nonostante questa breve descrizione possa far intuire una similitudine con l’assemblaggio del pastiche postmodernista, qui l’intento intertestuale appare opposto, ovvero l’obiettivo non è porre come centrale il montaggio che lega i vari blocchi in una consequenzialità paratattica,99Il riferimento qui è alla nota tabella di Ihab Hassan contenuta in The dismemberment of Orpheus (cf. Hassan, 1971), in cui vengono presentate una serie di opposizioni formali attraverso elementi dicotomici che segnano le principali differenze tra una presunta estetica modernista e postmodernista. L’analisi della diversa struttura del montaggio modernista (ipotattico) e postmodernista (paratattico) emerge in Hassan anche nelle Cinque proposizioni paratattiche sulla cultura del postmodernismo (1981), tradotte in italiano nell’antologia Postmoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in America (1984), a cura di Peter Carravetta e Paolo Spedicato. Un buon compendio all’analisi dell’utilizzo del montaggio nel postmoderno, in cui vengono riassunte posizioni già note di Frederic Jameson, Jean-Francois Lyotard, David Harvey e dello stesso Hassan, è presente in due saggi critici del poeta genovese Edoardo Sanguineti, ovvero Per una teoria della citazione (2001, 2010) e Ritratto del Novecento (2009). Nel campo delle arti visive di cruciale importanza rimane il saggio di Benjamin Buchloh, Figures of Authority, Ciphers of Regression: Notes on the Return of Representation in European Painting (1981). Per Buchloh esistono due tendenze opposte nel montaggio citazionista postmodernista, una “neoconservatrice” e “reazionaria”, che ha maggior attinenza con la forma ipotattica del discorso e che trova figurazione nella transavanguardia e nel neoespressionismo tedesco, l’altra paratattica, che viene definita dal critico americano come “postmodernista poststrutturalista”, dove è chiaro il riferimento ad artisti come Barbara Kruger, Cindy Sherman, Richard Price e Sherrie Levine.
 piuttosto lo scopo è purificare ogni singola struttura di un qualsivoglia residuo che possa creare un collegamento logico con ciò che la precede o la segue. Per farlo è necessario che ogni blocco sia autosufficiente, e non nella misura in cui ogni forma musicale si presenti come compiuta – ciò riporterebbe tutto nel normale processo paratattico –, ma presentandone solo l’elemento caratterizzante, che la connota in quanto origine del proprio essere forma musicale, ovvero l’highlight.

l’highlight diviene forma attraverso cui si muove oggi la contemporaneità nella cultura visuale.

 

Se il termine highlight fornisce oggi una facile traduzione dei suoi principali significati – come verbo a indicare l’atto di evidenziare o enfatizzare, e come sostantivo a indicare le parti salienti di un dato evento –, il suo utilizzo è originariamente interno alla storia dell’arte. Non esiste un corrispettivo italiano che ne possa chiarire questo utilizzo primario, per tentarne la traduzione dobbiamo ricollegarci a forme più articolate. Da una parte esso indica la parte più luminosa di una superficie dipinta, dall’altra la zona più chiara in un chiaroscuro. Troviamo un primo utilizzo del termine1010In una ricerca condotta attraverso i database interuniversitari americani Galileo ed Ebsco e nel più generale database di Georgia State University, questa di Sanderson appare come la più antica attestazione dell’utilizzo del termine. Lo storico irlandese utilizza ancora spaziatura tra il sostantivo e la sua aggettivazione, tuttavia sembra già qui rimandare al significato successivo che avrà il sostantivo composto ‘highlight’.
in un testo del 1658 di Sir William Sanderson intitolato “Graphice. The use of the pen and pencil. Or, the most excellent art of painting: in two parts”.1111Sanderson, 1658.
Qui, lo storico irlandese utilizza il termine “high-light” per indicare la parte più luminosa di una veste dipinta, fornendo altresì suggerimento su come ottenere zone di luce e di ombra nell’atto di raffigurarla.1212Ivi, p. 66.

Oneohtrix Point Never, Garden of Delete, 2015, copertina di Daniel Lopatin per Warp Records contente frame del videogioco Dungeons of Daggorath (DynaMicro, 1982).

In età moderna la critica utilizza il termine riferendosi prevalentemente alla difformità luminosa presente in un dato dipinto, soprattutto riguardo alla pittura tardo-manierista e barocca, dove il soggetto principale dell’azione viene spesso rischiarato da uno o più fasci luminosi, in maniera non omogenea rispetto alla totalità del piano, in modo da produrre una sorta di cristallizzazione dell’azione. È questo, per esempio, l’utilizzo che ne fa Charles Robert Leslie, in un testo del 1848 pubblicato nel “The Athenaeum”,1313Cf. Leslie, 1848.
in cui il pittore inglese sottolinea come il mirabile uso degli “high-lights” in Raffaello vada ad anticipare la pittura di Tintoretto, Guercino, Jacopo da Bassano, Rembrandt e, infine, Caravaggio.1414Ivi, p. 222.

Proprio il Merisi appare come caso utile per chiarire lo sviluppo successivo del termine. Si prenda La Vocazione di San Matteo (1599) come efficace esemplificazione, data l’illuminazione proveniente dalla finestra, posta nell’angolo in alto a destra del quadro, che trasversalmente va a sottolineare il volto e il corpo di San Matteo, isolandolo dal resto della scena. Come sottolinea Roberto Longhi, «la luce che rade sotto il finestrone sospende nell’aria greve la mano di Cristo mentre l’ombra corrode il suo sguardo cavo».1515Longhi, 1952 (1973), p. 832.
 In questa sospensione spazio-temporale possiamo già rintracciare i significati successivi del termine. Gli “high-lights” vengono infatti utilizzati qui come medium per “evidenziare” il centro dell’azione, raccontarne il “momento saliente”, “enfatizzando” la drammaticità narrativa.

Successivamente il termine ha trovato ampio uso in ambito fotografico e nella stampa. In modo non letterale e per traslitterazione nel corso del secolo scorso, in particolare a partire dalla fine della Grande guerra,1616Il termine non trova spazio nell’edizione del 1895 del The Century Dictionary and Cyclopedia (The Century Company). Nel vasto archivio del «New York Times», che raccoglie tutti gli articoli apparsi nella testata newyorkese sin dalla sua prima uscita (18 settembre 1851), il termine inizia ad avere un vasto utilizzo a partire dal 1920.
il termine ha trovato il suo significato prevalente nella cultura sportiva, laddove indica una raccolta dei momenti più significativi di un dato evento. Qui, nella loro singolarità, gli highlights cercano di raccontare la totalità dell’avvenimento, una totalità privata di tutti quegli istanti in cui la fruizione potrebbe risultare esperienza sensoriale e intellettiva unica e soggettiva. È in questi termini che l’highlight diviene forma attraverso cui si muove oggi la contemporaneità nella cultura visuale.

Un dato particolarmente significativo e paradossale in cui questa formulazione trova esperienza oggi nel sistema delle arti visive è in uno specifico mezzo espressivo, ovvero la performance. Nella sua epoca definibile come “classica”, dopo le primordiali esperienze degli “happening” e del Fluxus, la Performance Art ha trovato, a partire dalla metà degli anni Sessanta dello scorso secolo, una sua specifica codificazione mediale.1717Nonostante RoseLee Goldberg nel suo seminale testo Performance live art, 1909 to the present (1979) riconduca lo sviluppo della Performance Art e, in particolare, della Body Art alle avanguardie di inizio Novecento, andrebbe sottolineato come queste forme primordiali appaiano come sporadiche, episodiche e tendenti al parossismo anti-sistematico. Da un punto di vista prettamente strutturale, esse prendono in prestito modelli esterni alle arti visive, specificamente teatrali, quali il cabaret, il varietà, il nonsense proto-surrealista di Jarry e la fascinazione per le forme performative dell’altro culturale, che a Parigi arrivano tramite gli Expo del 1889 e del 1900. Con la parziale esclusione del dadaismo, non sembra esserci da parte del teatro surrealista o futurista un tentativo di creare un atto performativo che si costituisca come mezzo espressivo con una valenza e delle caratteristiche proprie all’interno del sistema delle arti visive, piuttosto appare evidente come esso si sviluppi, in forma paradossale, come un rifiuto del teatro borghese all’interno delle regole imposte dallo stesso. Per quanto questi fenomeni siano parte fondamentale nello sviluppo di un atto performativo legato alle pratiche artistiche, il momento culminante nella codificazione mediale della Performance Art sembra indissolubilmente legato allo sviluppo di un’estetica post-minimal.

Per Amelia Jones, autrice fondamentale nel rintracciare lo sviluppo della Body Art come parallelo alla lotta per la parità di genere, la Performance Art si sviluppa dalla messa in discussione e dal rifiuto dell’interpretazione modernista della teoria estetica kantiana, riguardante una contemplazione disinteressata per cui l’interprete determina il significato intrinseco e il valore dell’opera attraverso criteri obbiettivi. In quanto tale, la Performance Art diventa mezzo privilegiato per descrivere l’estetica postmoderna“…la Performance Art diventa mezzo privilegiato per descrivere l’estetica postmoderna” laddove, attraverso azioni corporali che aprono a una diffusa intersoggettività – sia nei potenziali significati legati alla fruizione, sia nella messa in discussione della stessa autorialità generatrice di contenuti –, si rifiuta un modello critico e storico autoritario, spesso legato a un dominio di figure appartenenti al genere maschile e di etnia bianca.1818Cf. Jones 1998, pp. 3-19.

Nel tracciare il proprio percorso espositivo, l’autrice americana prende in esame, tra gli altri, i casi di performer quali Carolee Schneemann, Yayoi Kusama, Vito Acconci, Ana Mendieta e Hannah Wilke. Da un punto di vista interno alla filosofia dell’arte si potrebbe inoltre sottolineare come il motivo comune e principale nelle opere di questi artisti stia nella riduzione del triangolo “artista, opera d’arte, fruitore” a una questione dialettica e bivalente laddove autore e opera d’arte vanno a coincidere. L’artista e il suo corpo vanno a costituire un dialogo diretto con il fruitore, ed è in questa riduzione dei termini in cui si sviluppa normalmente la cultura visuale che la Performance Art trova la propria specificità mediale.

W. Sanderson, Graphice, the use of the pen and pensil, or, The most excellent art of painting : in two parts, 1658, copertina per l’edizione originale Robert Crofts.

Il Novecento può essere letto da un punto di vista estetico non solo come un tentativo di purificazione del singolo medium da parte modernista e una reazione antimodernista successiva, ma anche come epoca in cui la questione dialettica, intesa come relazione biunivoca, viene messa in discussione da prospettive altre. Si pensi per esempio a come nelle teorie freudiane le istanze intrapsichiche che dialogano nella costituzione di un soggetto siano sostanzialmente tre (Es, Io, Super-io); aspetto che vive di una sua specularità nella tripartizione tra reale, simbolico e immaginario nella teoria lacaniana, tra soggetto, oggetto e altro, come mediatore del desiderio, nella teoria mimetica di René Girard o, ancora, in linguistica, nel triangolo semiotico composto da significato, significante e referente. Il ritorno a una prospettiva di duplice rapporto dialogico, per quanto conflittuale e che vive del suo essere messo in discussione, sembra essere proprio di molte prospettive culturali interne agli anni Sessanta.

Il tentativo di depurare nella Performance Art e nella Body Art l’opera d’arte come mediatrice culturale nella relazione tra fruitore e autore, o quest’ultimo come soggettività demiurgica che opera come medium tra un’entità altra e lo spettatore, sembra rispondere a diversi impulsi culturali e sociali, solo parzialmente correlati tra loro. Da una parte è innegabile come, a partire dal termine della Seconda guerra mondiale, sia la stessa concezione di autorialità a entrare in crisi. Celebri rimangono le posizioni assunte da Roland Barthes e Michel Foucault, che sul finire degli anni Sessanta, partendo da diverse metodologie e campi d’indagine, giungono contemporaneamente a dichiarare la morte dell’autore. Il processo che porta a tali considerazioni viene influenzato da molteplici fattori precedenti. Il trauma bellico ha di certo un ruolo importante nel porre nuovamente al centro del dibattito culturale, attraverso l’esistenzialismo parigino prima e la Nietzsche Renaissance poi, la relazione tra soggetto e oggetto e la nozione husserliana di intenzionalità. La cultura pop, d’altro canto, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, esprime attraverso l’uso della citazione la difficoltà del soggetto come generatore culturale. Gli esempi qui possono essere svariati e vanno dal cinema di Godard all’architettura di Venturi, sino ad arrivare alle serigrafie di Warhol, in quello che potrebbe essere definito, con modalità poco eleganti, come “citazionismo protopostmodernista”.

Di fatto parliamo comunque di fenomeni che rispondono al Sessantotto, anticipandone talvolta la genesi, e come tali possono essere letti come momento di messa in discussione di una soggettività, anche politica, che cerca una sua nuova oggettivazione e una nuova possibilità d’espressione in cui i vincoli interpersonali e transculturali possano essere costantemente forzati.

Carolee Schneemann, Meat Joy, 1964, Carolee Schneemann; Black Dog Publishing, London; P.P.O.W. Gallery, New York.

Michel Foucault, spesso critico rispetto al Maggio parigino, visto come un momento di lotta in cui è mancata una visione d’insieme in grado di scardinare le strutture di linguaggio e di pensiero precedenti, trova involontariamente, in un tentativo di dare coerenza alla propria ricerca relativa agli studi sulla negazione del dato corporale nelle istituzioni totali, una brillante sintesi nel definire che cosa è stato il Sessantotto, o cosa è mancato al Sessantotto, come lotta al potere consolidato. In Potere-Corpo scrive infatti:

«Il potere, lungi dall’impedire il sapere, lo produce. Se si è potuto costituire un sapere sul corpo, è stato attraverso un insieme di discipline militari e scolastiche. È solo a partire da un potere sul corpo che un sapere fisiologico, organico era possibile».1919Foucault 1975 (1977), p. 141.

Se la relazione tra potere, che nel pensiero dell’intellettuale francese non è mai strutturale ma sempre relazione sociale, e sapere è ancora figlia di un tipico didascalismo postmarxista, è la dimensione del corpo, come mediatore finale della relazione tra potere e dato culturale, a diventare cruciale. Già in Hannah Arendt questo tipo di mediazione è presente, salvo che il corpo appare spesso come un semplice esserci del soggetto in un dato momento storico. Qui il rapporto invece si complica, lasciando alcune zone d’ombra che trovano risoluzione in uno splendido intervento radiofonico del 1966, in cui Foucault chiarisce come il corpo sia sempre da intendersi come un’entità materiale, costantemente compresente a un dato io, che imprigiona quest’ultimo in una “spietata topia”,2020Idem, 1966 (2009), p. 13.
laddove blocca il passaggio del soggetto “da un qui a un altrove”,2121Ibidem.
facendo diventare questo spazio negato luogo in cui trova forma il pensiero utopico.

Abbiamo quindi tali due istanze che agiscono parimenti e in contemporanea nel determinare il contesto culturale in cui la Performance Art trova codificazione. Da una parte la messa in crisi della soggettività generatrice di contenuti culturali, dall’altra una soggettività che sembra piegarsi al proprio corpo, ma che proprio in questo suo limite apre a dinamiche relazionali e utopiche.

Ogni opera d’arte importante può essere considerata come un avvenimento storico.

Se nel primo caso è possibile parlare di un’influenza formale, nel secondo essa diventa culturale; entrambi i rapporti che si innestano sono però apertamente politici. Nel primo è possibile constatare come la Perfomance-Art trovi codificazione laddove, al citazionismo come messa in crisi dell’io autoriale, subentra la coincidenza tra opera e autore, che diverrà coincidenza tra opera e fruitore nelle esperienze relazionali degli anni Settanta e Novanta. In tal modo il lavoro degli artisti citati in precedenza sembra rispondere a un preciso momento storico, cercando di contestare e capovolgere le sovrastrutture culturali derivanti dalla propria struttura di riferimento.

Chiaramente qui si dà adito a un’ipotesi che può essere suffragata solo considerando la produzione culturale come una sovrastruttura in termini prettamente “engelsiani”, nella misura in cui solo parzialmente e in termini molto circoscritti può andare a influenzare la struttura da cui trae origine. Attraverso modalità che possono essere descritte come “anacronistiche” rispetto alla stessa evoluzione del processo culturale, il singolo mezzo artistico è visto qui come un dispositivo unico, con proprie caratteristiche strutturali, che ha la capacità di generare specifici processi culturali di soggettivazione e di disoggettivazione. L’ipotesi che si sta percorrendo è che la reciproca interazione tra questi due processi porti a una fruizione che non è più in grado di generare contenuti propri. Il caso specifico della Performance Art diviene pertanto il caso più sintomatico di una condizione che dobbiamo considerare comunque come generale. Ne diviene rappresentativo in quanto è, insieme al video, mezzo artistico che tende più a forzare e plasmare i rapporti spazio-temporali, inserendo tuttavia una rappresentazione dell’hic et nunc che dovrebbe, per sua stessa natura, tendere a mettere in discussione la relazione tra bios e vita politico/sociale. Ciò appare palese se si considera la Performance Art come forma di mutazione ultima di un processo costitutivo dell’atto performativo che ha origine con il ditirambo greco, ipotesi per altro scevra di tutte quelle forme performative non prettamente occidentali e che buona parte hanno avuto in questa storia. Seguendo tuttavia questa tesi, per quanto volontariamente forzata, appare piuttosto agevole osservare come la messa in discussione dei rapporti di forza in cui normalmente agisce l’uomo come zoon politikon rispetto alla sua stessa rappresentazione sociale sia parte essenziale di un qualsiasi tentativo di definire l’oggetto del contendere.

Goksin Sipahioglu, Boulevard Saint-Germain, 6 mai 1968, 1968, Courtesy Goksin Sipahioglu.

È in particolare il corpo a farsi garante di questo processo nelle arti performative, e lo fa cercando di forzare il vincolo topico già individuato da Foucault, in continuità con un più generale tentativo, tipico delle contestazioni controculturali degli anni Sessanta e Settanta, di liberare il corpo dal suo essere identificativo di uno status sociale non mutevole, la cui identità, etnica o di genere, stabilisce a priori le relazioni di sfruttamento su cui si basa il vivere sociale nel capitalismo avanzato che in quel momento storico appare come in fieri. Vediamo quindi come il tentativo di rottura sia duplice: a essere messe in crisi non sono solo le strutturazioni sociali e le relative sovrastrutture culturali, in particolare le modalità in cui il potere si manifesta sul corpo, ma persino le forme dialettiche tramite cui si esprime tradizionalmente l’estetica nei suoi rapporti di forza interni.

Ana Mendieta, Untitled (from the Silueta series), 1973-77, Collection Museum of Contemporary Art Chicago.

Caso esemplificativo e noto è Imponderabilia, performance del 1977 del duo composto da Marina Abramović e Ulay (all’anagrafe Frank Uwe Laysiepen). Siamo a Bologna, è il giugno del 1977, sono passati un centinaio di giorni dalla morte del militante di Lotta Continua Francesco Lorusso, assassinato dalle forze dell’ordine durante gli scontri dell’11 marzo successivi a un’assemblea di Comunione e Liberazione. Si sta svolgendo La settimana internazionale della performance, a cura di Renato Barilli. Nell’ingresso principale di una delle sedi che ospita la manifestazione, “La galleria d’arte moderna”, Abramović e Ulay giacciono in piedi nudi e immobili, appoggiati ai due stipiti che delimitano la porta, in quel momento aperta. I loro corpi sono posti di profilo rispetto all’interno e all’esterno dell’edificio e si pongono, l’un l’altro, faccia a faccia. Lo spazio tra i due all’altezza di petto e ventre è inferiore ai 20 centimetri. Chiunque voglia entrare o uscire dall’edificio è costretto a farsi spazio tra i due artisti, strisciando sui loro corpi. Al di là delle implicazioni psicologiche relative alla fruizione, che qui poco interessano ma la cui analisi è basilare per una corretta analisi dell’opera, ciò che è importante sottolineare è come Imponderabilia, vista anche la datazione tarda rispetto a quanto analizzato sinora, appaia sintesi efficace per evidenziare le caratteristiche essenziali della Performance Art nella sua epoca classica; d’altro canto, come scrive lo storico dell’arte pre-colombiana George Kubler.

«Ogni opera d’arte importante può essere considerata come un avvenimento storico e allo stesso tempo come la soluzione faticosamente raggiunta di un certo problema. Che l’avvenimento sia stato originale o convenzionale, casuale o voluto, goffo o ben condotto è cosa ora irrilevante. Il fatto importante è che ogni soluzione indica che c’è stato un problema al quale erano già state date altre soluzioni e per il quale saranno probabilmente trovate ancora nuove soluzioni dopo quella ora offerta. Con l’accumularsi delle soluzioni, il problema cambia aspetto. Resta però il fatto che la catena di soluzioni mette in luce il problema».2222Kubler 1972 (1976), p. 43.

Imponderabilia sembra problematizzare e indicare le soluzioni sino a quel momento offerte in seno a una presunta strutturazione formale della Performance Art ed ergersi, allo stesso tempo, a ultimo anello possibile nella catena di soluzioni offerte. Abbiamo infatti un corpo che finisce fatalmente per evidenziare il suo essere luogo dove un altrove è negato, e che si erge a mediatore fisico e tangibile di una qualsivoglia relazione tra produzione culturale e rappresentazione del potere. D’altro canto la riduzione della zona di confine tra opera, autore e fruizione sembra essere portata qui al suo limite estremo.

Philip Grass, Au cœur de Mai 68, 1968, Courtesy Philippe Grass.

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di Graziano Meneghin
  • Graziano Meneghin è un artista e teorico italiano. Attualmente collabora con Ocean Space e TBA21–Academy, realtà che promuovono una comprensione più profonda degli oceani attraverso la lente dell'arte. La sua ricerca personale mira a far emergere punti di connessione e confluenza tra diversi fenomeni della storia dell'arte recente, con l'ausilio di strumenti teorici presi da altre disciplina quali la geocritica, l'estetica della ricezione, le neuroscienze e lo studio della cultura visuale e dei nuovi media.
Bibliography

G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza, 2014.
M. J. Allman & W. Meck, Pathological distortions in time perception and timed performance, in «Brain», Oxford University Press, Oxford (UK), settembre 2011, 135, pp. 656-677.
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