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La cura del morto. Il tanatoprattore all’opera
Magazine, MORIRE – Part II - Marzo 2018
Tempo di lettura: 19 min
Stefano Menichini

La cura del morto. Il tanatoprattore all’opera

Imbalsamazione e restorative art. L’American way of death dalla guerra di secessione ai giorni nostri.

Miriam Burbank (New Orleans), morta a 53 anni l’1 giugno 2014, posa al suo stesso funerale seduta a una sedia, durante il funeral party a lei dedicato, come se fosse ancora viva.

Nell’articolo precedente abbiamo compreso come il corpo in preda alla tanato-morfosi ripiombi dalla cultura che l’aveva forgiato nella vita brulicante della putrefazione e come, in America, le reazioni di funeral director e tanatoprattori di fronte al corpo decomposto siano culturalmente e professionalmente determinate. È ora giunto il tempo di varcare la soglia della mortuary room per spiare le fasi tecnico-operative cui il cadavere va incontro, ovvero la preparazione utile all’esposizione pubblica della bella salma così ottenuta durante la veglia a bara aperta. Tra le modalità principali, indicate da Adriano Favole,11Cf. A. Favole, Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte, Laterza, Roma Bari 2008, p. 39.
con cui le varie società reagiscono alla putrefazione, le funeral home degli Stati Uniti d’America praticano quella del suo rallentamento, comprendente l’imbalsamazione temporanea, il restauro e l’imbellettamento del cadavere. Questo articolo ricostruisce l’evoluzione, presenta le tecniche e spiega le finalità di tali operazioni, chiarendo i nessi economici, sociologici e psicologici andati intrecciandosi nel contesto del capitalismo funebre occidentale avanzato.

 

Macaulay Culkin in My Girl (1991), diretto da Howard Zieff.

L’emergere della death industry. L’imbalsamazione dalla guerra di secessione alla mortuary education

Durante il XIX secolo, la maggior parte delle comunità americane accoglieva in casa degli undertaker disposti a occuparsi da soli di un intero assortimento di servizi: «Costruire una bara, avvertire parenti e amici, organizzare il funerale, contattare il sacerdote della religione appropriata, coordinare il seppellimento con il cimitero locale e preparare il cadavere».22G. Laderman, Rest in peace. A cultural history of death and the funeral home in twentieth-century America, Oxford University Press, New York 2003, p. 5.
Viste le aspirazioni lavorative, in questo periodo i becchini cominciarono a formare associazioni, a pubblicare riviste e a fondare scuole professionali, in modo da rinsaldare la propria credibilità come fidati professionisti. Ciò si espresse in un’innovazione linguistica: l’espressione funeral director, coniata nel 1882 in occasione del primo meeting nazionale degli “undertaker”.33Ibid. La National Funeral Directors Association (NFDA), nata in quell’occasione, è ancora esistente. Essa rappresenta legalmente decine di migliaia di individui e funeral home iscritti in 43 stati, pubblica una rivista mensile, organizza conferenze e meeting e sovvenziona la ricerca sui temi dell’American way of death. Il suo potere è quello di una lobby con interessi etici e politici. Il sito internet è consultabile all’indirizzo http://nfda.org.
Essa rifletteva la nuova coscienza di classe di un agguerrito gruppo di «tanatocrati»,44L’espressione è di Ziegler, continuamente usata in I vivi e la morte (1975), tr. it. di L. Krasnik, Mondadori, Milano 1978.
da tempo alla ricerca di un riconoscimento sociale che permettesse loro di ottenere una retribuzione adatta a così speciali servigi. Le famiglie accolsero il nuovo funeral director con più benevolenza del sinistro becchino, soprattutto quando si trattò di riporvi la fiducia necessaria a far uscire i defunti dalla comunità dei vivi: «La maggior parte degli americani semplicemente non voleva prendersi cura del cadavere, ma continuava a desiderarne disperatamente la presenza durante i rituali funebri».55G. Laderman, cit., p. 5.
Siamo agli albori della «morte capovolta» di Ariès.

American way of death.

Lo scarso desiderio di tenere un morto in casa si accompagnava, in America, non solo alla morte ospedaliera, ma anche al cambiamento delle strutture abitative stesse di molte famiglie, che influì sulla disponibilità di uno spazio domestico adatto al defunto. Nel XIX secolo, le abitazioni delle classi medio-alte includevano un funeral parlor che esibiva l’identità domestica e serviva a ospitare significativi rituali, inclusi la veglia funebre e il funerale. Questo spazio sparì all’alba del XX secolo: il cambiamento del gusto in fatto di home design portò a un’estetica pratica di organizzazione dello spazio e il funeral parlor divenne obsoleto e ingombrante.66Cf. Ibid.
Ma «un altro fattore nel processo di dislocamento del cadavere dall’abitazione è probabilmente il più critico: la standardizzazione dell’imbalsamazione in preparazione dell’esposizione del morto. Come fondamento dell’emergente industria funebre, l’imbalsamazione richiese conoscenze specializzate, formazione tecnica e un servizio professionale […]. L’affidamento alla pratica dell’imbalsamazione, da parte sia dei funeral director che dei loro clienti, portò all’istituzione di una nuova tradizione americana che trasformò il rituale dell’esposizione e lo spazio architettonico destinato alla morte, così come le esperienze visuali, tattili e olfattive in presenza del corpo morto».77Ivi, p. 6.

L’imbalsamazione a scopo funerario fu impiegata in America a partire dalla guerra di secessione; infatti «entro l’anno 1861 […] il trasferimento della cultura dell’imbalsamazione dall’Europa agli Stati Uniti fu praticamente compiuto».88R. G. Mayer, Embalming. History, theory and practice – 2nd ed., Appleton & Lange, Stamford 1996, p. 439. Il testo è scritto da funeral director, esperti imbalsamatori, professori di chimica e di mortuary science. È attualmente il più completo e aggiornato lavoro sul tema dell’imbalsamazione e della restorative art.
Questa conoscenza si basava sul primo brevetto di imbalsamazione arteriosa attraverso l’incisione carotidea da parte del francese Jean Nicolas Gannal, che la inventò nel 1837 per scopi anatomici. Essa permetteva di evitare l’eviscerazione del cadavere, prima indispensabile essendo «il contenuto intestinale […] il punto di origine della decomposizione cadaverica»,99P. Larribe, La tanatoprassi. Manuale descrittivo della pratica di tanatoprassi secondo la tradizione francese, a c. di L. Rovina, Progetto Caronte, Firenze 2004, p. 11. Il libro è il primo e unico testo di tanatoprassi in lingua italiana; il suo scopo è principalmente quello di istruire il tanatoprattore.
ricorrendo all’iniezione di una soluzione conservativa composta da acetato e cloruro di allumina, senza drenaggio del sangue.1010Cf. ivi, p. 19, e R. G. Mayer, cit., p. 437. Tale metodo, benché innovativo, non ebbe successo in Francia: Gannal fu accusato di utilizzare sali di arsenico o mercurio, ritenuti dannosi per la salute pubblica, e di non poter praticare l’imbalsamazione non essendo un dottore, ma un chimico. Ciononostante, riuscì a vendere i diritti della sua soluzione in America.
Gli scritti di Gannal furono tradotti in inglese dall’anatomista di Philadelphia Richard Harlan1111Il testo di Gannal e Harlan, History of Embalming, and of Preparation in Anatomy, Pathology and Natural History, Judah Dobson, Philadelphia 1840, «divenne il primo libro interamente dedicato alle procedure di imbalsamazione a essere pubblicato in inglese negli Stati Uniti» (R. G. Mayer, cit., p. 438).
e istruirono un ristretto gruppo di medici americani spinti da curiosità scientifica. Nessuno di questi embalming surgeon (come furono chiamati al tempo) fu assunto dal servizio militare in qualità di imbalsamatore e praticò esperimenti durante il periodo di addestramento. L’occasione per la messa in pratica di questa tecnica all’interno di un contesto funerario si profilò con lo scoppio della guerra: «All’inizio della guerra di secessione, così come in tutte le guerre combattute precedentemente dagli Stati Uniti, si prevedeva che non ci sarebbe stato alcun rimpatrio dei cadaveri dei soldati, [che] venivano seppelliti nel campo in cui erano caduti in battaglia […]. Durante i primi giorni della guerra, e sempre meno frequentemente man mano che il conflitto si protraeva, alcuni membri delle famiglie dei deceduti si recarono personalmente presso gli ospedali e i campi di battaglia per cercare il loro morto, al fine di portarlo a casa e seppellirlo».1212R. G. Mayer, cit., p. 440.

American way of death.

Le famiglie agiate dei nordisti non ammettevano più la sepoltura nelle fosse comuni dei campi di battaglia e l’imbalsamazione arteriosa divenne utile a riportare in patria i soldati uccisi,1313Cf. Ph. Ariès, cit., p. 706. Significativamente, l’unica fonte usata da Ariès sull’origine dell’imbalsamazione in America è il best seller di Jessica Mitford.
garantendone una sepoltura adeguata. Campione di questa pratica nel tempo di guerra fu Thomas Holmes, che la imparò da un allievo diretto di Gannal1414Cf. P. Larribe, cit., p. 19.
e la praticò su 4028 soldati, compresi otto generali,1515All’imbalsamazione arteriosa si alternavano metodi più rudimentali: «Quando l’imbalsamazione arteriosa fu ritenuta impossibile a causa della natura delle ferite o dell’avanzata decomposizione, si fece ricorso ad altri metodi di trattamento del corpo. In alcuni casi, il torace veniva svuotato delle viscere e riempito con segatura, polvere da sparo o calce» (R. G. Mayer, cit., p. 440).
alla tariffa di cento dollari per cadavere. Una volta terminato l’incarico per l’esercito, Holmes aprì una drogheria per vendere il proprio liquido di imbalsamazione a basso costo, favorendone grandemente la diffusione, e iniziò a lavorare come imbalsamatore privato per alcune famiglie1717Cf. P. Larribe, cit., p. 19.
pervenendo a un progresso della disciplina stessa. Di lì a qualche anno, i corpi imbalsamati di alcuni soldati non identificati vennero esposti nelle vetrine degli imbalsamatori, che andavano aumentando e diffondendosi sul territorio,1818Cf. ivi, p. 20.
e la resistenza all’imbalsamazione da parte della popolazione, dovuta alla «persistente paura che la procedura comportasse mutilazione del corpo e agghiaccianti modalità chirurgiche»,1919G. Laderman, cit., p. 6.
venne progressivamente meno.

Fondamentale per la legittimazione dell’imbalsamazione davanti all’opinione pubblica fu la decisione del presidente Lincoln di imbalsamare suo figlio Willie e di disporre la propria imbalsamazione all’atto del testamento,2020A trattare i corpi di Willie e Abraham Lincoln fu George Da Costa Brown, imbalsamatore di guerra. Terminato il suo compito, Brown divenne dentista a New York e membro tra i più attivi della Loggia Massonica (Cfrì. R. G. Mayer, cit., p. 441).
ritenendo gli imbalsamatori di guerra degli eroi della patria. Il presidente fu assassinato da un simpatizzante sudista nel 1865 e la sua salma imbalsamata fu trasportata tramite uno speciale treno funebre2121Furono due i treni di Lincoln: uno inaugurale, da Springfield a Washington, in occasione della sua elezione nel 1861, e l’altro funebre, dal tragitto opposto. Entrambi i treni hanno un sito internet che ne ricostruisce la storia e le tappe.
da Washington a Springfield, dove fu approntata la sua sepoltura. Durante il viaggio, particolarmente lungo, furono celebrati funerali di stato nelle stazioni più importanti, mentre nelle stazioni minori le folle si accalcavano per salutare il treno; così «milioni di cittadini […] poterono osservare direttamente i benefici effetti dell’imbalsamazione»2222P. Larribe, cit., p. 20. Robert Todd Lincoln, temendo per i tentativi di profanazione della tomba del padre, decise la riesumazione della salma e la sua collocazione in una nuova e più sicura cripta. All’apertura della bara, i presenti furono meravigliati dallo stato di conservazione del corpo, perfettamente riconoscibile a più di trent’anni dal decesso. Un intero sito dedicato all’assassinio e alla salma di Lincoln, inteso all’uso di studenti e professori di ogni categoria, è continuamente aggiornato da un professore di storia americana.
e ritenerla parte integrante di un funerale di successo.

A questo punto, i funeral director cominciarono a giustificare l’imbalsamazione non solo come metodo che permettesse un ultimo sguardo al defunto: «L’aspettativa che i sopravvissuti avrebbero dato un ultimo sguardo al defunto prima o durante il servizio funebre, un atto rituale così significativo nel dilemma del dare un senso alla morte, ebbe un peso simbolico notevole nell’immaginario americano prima che l’imbalsamazione comparisse sulla scena. Indubbiamente, l’imbalsamazione ebbe importanza sempre maggiore non solo a causa di questo persistente desiderio di osservare il cadavere, ma anche perché le condizioni moderne sembravano richiederla. I becchini giustificarono la conservazione del corpo con altre ragioni, importanti per quell’epoca, che avevano a che fare con le preoccupazioni igieniche per la salute pubblica e con l’alta mobilità delle relazioni sociali – i corpi imbalsamati permisero agli invitati di affrontare grandi distanze per partecipare al funerale».2323G. Laderman, cit., p. 6.

La ragione sanitaria legata al contagio da parte di corpi in putrefazione fu presto pienamente soddisfatta dall’impiego della formaldeide: scoperta nel 1868 da Wilhelm von Hofman, questa molecola possiede elevate proprietà disinfettanti e fissative evidenziatesi solo durante il 1888. Una volta riusciti ad abbassarne il costo di produzione, divenne il principale ingrediente del liquido di conservazione,2424Cf. P. Larribe, cit., p. 20.
trovando il favore dell’igienismo borghese di fine secolo.

Rosalia Lombardo (1920) – Catacombe dei Cappuccini.

A tali progressi non poteva che corrispondere un sempre più grande divario tra gli aggiornati funeral director e i vecchi undertaker di campagna. A ciò posero rimedio le scuole per imbalsamatori, comparse attorno al 1880 e sponsorizzate dalle ditte produttrici di fluidi chimici che intendevano espandere il proprio mercato.2525Cf. G. R. Mayer, cit., p. 451.
Gli iniziali corsi per corrispondenza divennero presto lezioni vere e proprie, con una durata dapprima di cinque giorni e poi di sei settimane, nelle quali si insegnavano i rudimenti di anatomia, fisiologia e conservazione del corpo.2626Cf. G. Laderman, cit., p. 7.
Quando «la specializzazione divenne più rigorosa, le commissioni statali iniziarono a esaminare e fornire una licenza ai futuri imbalsamatori e funeral director, sicché l’immagine di un insegnamento autorevole divenne decisiva al fine di una legittimazione professionale e la lunghezza di ciascun corso aumentò […]. Dal 1934, all’incirca il periodo in cui queste scuole presero il più professionale titolo di college of mortuary science, i corsi assunsero una durata di nove mesi».2727Ibid.

Oggi la mortuary education rientra nel novero dell’insegnamento universitario e riguarda l’istruzione sia dell’imbalsamatore che del funeral director, tramite l’introduzione di corsi di business management e funeral service marketing. L’ottenimento della licenza richiede due anni di frequenza ai corsi, almeno un anno di apprendistato presso una funeral home e un esame di stato finale.2828In realtà i requisiti cambiano da stato a stato e i corsi possono essere seguiti anche online. Il sito di riferimento per la mortuary education in America è http://www.morticianguide.com.
In un periodo relativamente ridotto di tempo «l’imbalsamazione divenne la firma durevole della nascente industria funeraria, una pratica al centro dell’universo economico, culturale e religioso che stava prendendo forma. L’apparire [appearance] del corpo morto nella bara aperta, un elemento dei rituali mortuari dell’America del XIX secolo, venne giudicato in relazione a criteri nuovi, profondamente moderni, sia dagli imbalsamatori che dal pubblico. La maggior parte delle riviste commerciali che proliferarono nei primi decenni del secolo, supportate da industrie così integralmente connesse come quella della manifattura delle bare e quella della produzione di nuovi e migliori fluidi di imbalsamazione, elevarono il corpo esponibile [displayable] a fattore cruciale per determinare il successo o il fallimento di un funeral director […]. L’aspetto del corpo cominciò a diventare profondamente rilevante per gli americani moderni e per un’industria che si amalgamava attorno alla pratica dell’imbalsamazione».2929G. Ladermancit., pp. 7-8.

Nell’embalming americana la conservazione non è giustificata da motivi religiosi, anzi: nata per garantire una dignitosa cerimonia ai soldati morti lontano da casa, vede i suoi procedimenti evolvere per garantire una sempre migliore qualità estetica del cadavere in seno alla sua esposizione in un contesto pubblico, indipendentemente dalla confessione religiosa specifica. Se a fine XIX secolo i funeral director dovettero imporre la propria professionalità calcando la mano soprattutto sul servizio igienico offerto dall’imbalsamazione,3030In realtà non c’è certezza che l’imbalsamazione tramite fluidi dall’azione disinfettante provveda davvero all’eliminazione dei batteri interni al cadavere ritenuti pericolosi per la salute pubblica. Questa tesi, sostenuta dalla totalità dei funeral director e degli imbalsamatori, è priva di una solida letteratura scientifica ed è messa in crisi a partire da alcune interviste di Jessica Mitford a medici e anatomisti: questi sostengono che i batteri continuino a proliferare negli organi, nelle viscere e nel sangue rimanenti all’interno nel cadavere. È significativo che i deathworker si siano rifiutati di lavorare con cadaveri di vittime morte di AIDS, scatenando numerose polemiche e la reazione, caduta nel vuoto, del governatore Mario Cuomo (Cf. J. Mitford, cit., pp. 54-68).
durante i primi decenni del XX secolo si cercò di ricondurre le crescenti pretese estetiche del cadavere a un più profondo scopo di grief therapy: vedere il bel morto aiuterebbe il luttuante a superare il dolore della perdita.3131Anche questa è una supposizione dei funeral director, confutata da numerose testimonianze di luttuanti (Cf. G. Howarth, Last rites: the work of the modern funeral director, Baywood Publishing Company, New York 2006, p. 149) e da interviste a psicologi (Cf. J. Mitford, cit., pp. 54-68).
Ricorriamo alla tagliente prosa di Jessica Mitford: «Per quanto tempo si conserva oggi un cadavere imbalsamato? La semplice verità è che un corpo può essere preservato per un lunghissimo lasso di tempo – probabilmente per anni, in base alla resistenza dei fluidi usati e alla temperatura e umidità dell’atmosfera circostante […]. Il problema è che quei corpi non risultano molto carini alla vista; infatti tendono a somigliare a vecchie ciabatte in pelle. Più diluito è il fluido di imbalsamazione, più morbido e naturale sarà l’ospite d’onore. Perciò, l’attuale procedimento prevede di imbalsamare con abbastanza conservante da garantire che il cadavere duri durante la veglia funebre – solitamente è questione di pochi giorni. Per l’imbalsamatore antico il mantenimento di un colore e di un’apparenza naturali erano problemi di minor importanza; per noi la somiglianza con un corpo vivente è l’obiettivo principale, e la conservazione post-inumazione è meramente accidentale. I soggetti imbalsamati dagli egizi sono rimasti conservati per migliaia di anni – quando il moderno imbalsamatore deve pregare per favorevoli condizioni climatiche che lo aiutino a mantenere soddisfacente la preservazione del corpo per uno o due giorni».3232J. Mitford, The American Way of Death Revisited (1998), Alfred A. Knopf, New York 2013, p. 55.

D’altronde, a che scopo conservare a lungo termine un cadavere comunque destinato, secondo la legge americana, all’inumazione o alla cremazione? Basandosi su un prodotto apprezzabile solo durante il breve periodo della veglia funebre, l’industria ha scelto di puntare sempre più sull’estetica, senza però rinunciare alle pretese di supposta utilità sociale avanzate dai suoi fondatori.

 

Yōjirō Takita – Departures – 2008.

Restorative art e toilette del morto. Il tanatoprattore come artista?

Restorative art e toilette del morto, pratiche che seguono quella dell’imbalsamazione nella sequenza della preparazione del cadavere, meritano un’attenzione speciale. La riflessione su questi aspetti specifici della tanatoprassi americana, sulle loro metodologie e sulle loro finalità, ci porterà a un nuovo livello di comprensione dell’intero fenomeno, verso l’enucleazione di un tema che ha interessato solo marginalmente le polemiche sull’American way of death.

La restorative art, nelle parole del suo fondatore Joel E. Crandall, è «l’arte di costruire o creare parti del corpo che sono state distrutte per incidente, malattia o decomposizione o hanno perduto il loro colore, al fine di rendere il cadavere perfettamente naturale e con l’apparenza della vita».3333R. G. Mayer, cit., p. 462.
Chiamata anche dermasurgery o demisurgery, essa svolge un ruolo fondamentale nella formazione del tanatoprattore3434Cf. Ibid.
, che, dopo aver acquisito le sufficienti conoscenze di anatomia e antropologia fisica, si allena a ricostruire parti sciupate o mancanti del cadavere tramite tecniche diverse. Queste comprendono materiali quali cera, gesso, lattice e pasta indurente, talvolta utilizzati in modo complementare, “armati” da fili di ferro e retti da un’armatura che sostituisca i tessuti o le ossa mancanti, oltre a peli sintetici o prelevati dal cadavere stesso.3535Cf. P. Larribe, cit., pp. 120-125.
La ricostruzione del volto è per il tanatoprattore il lavoro più complesso, sia per la difficoltà intrinseca alla riproduzione delle sue numerosi parti, aventi diverse texture e particolari simmetrie, sia perché esso è l’unica porzione del corpo completamente scoperta e visibile agli occhi dei luttuanti. Infatti, le mortuary school insistono affinché gli studenti imparino la modellazione del volto, fornendo loro un teschio di plastica dura3636Cf. R. G. Mayer, cit., p. 468. La ricostruzione del viso al di sopra di un teschio finto è invenzione di D. O. Dhonau, presentata per la prima volta nel 1915. I consigli forniti dal suo inventore, come quello di lavorare nelle stesse condizioni di luce e temperatura in cui il cadavere finito verrà esposto, sono seguiti ancora oggi. Prima di Dhonau, i tanatoprattori si impratichivano direttamente su teste umane decapitate, ottenute al termine dei corsi di anatomia.
su cui fare pratica e concentrando su di essa il proprio esame finale.

Adrian Stone, il funeral director intervistato da Glennys Howarth, ricorda il caso di una donna che ebbe un incidente con un autocarro. Una volta raggiunto l’ospedale, le ferite riportate, per quanto profonde, non furono giudicate potenzialmente fatali e furono fatte oggetto di semplici suture. Il cadavere della donna, morta qualche ora dopo a causa di alcune complicazioni, fu visitato dalla famiglia, che non poté non notare la terribile cicatrice che ne attraversava il viso. Giunto alla Stone’s funeral home, il cadavere fu restaurato: «Dopo l’imbalsamazione e l’asciugatura della pelle, ho riunito i lembi della ferita con della supercolla e estratto i punti di sutura. Poi ho accuratamente rimosso i residui di colla in eccesso e riempito le fessure con la cera. Spesi un paio d’ore per miscelare il colore e riallineare i pori e i tratti del viso. La nipote venne [a vedere il cadavere] e disse “Non è mia nonna, lei ha suture lungo tutta la faccia”. E la figlia rispose “Certo che è lei” — toccò il cielo con un dito!».3737G. Howarth, cit., pp. 159-60.

Abraham Lincoln, 16° Presidente degli Stati Uniti d’America.

Stone riporta con orgoglio anche il restauro del volto di una giovane ragazza suicida: «Una giovane ragazza di colore si era arrampicata fuori da una finestra del primo piano e, [cadendo] atterrò di faccia. Quando chiesi ai parenti circa la veglia a bara aperta questi risposero “Ci piacerebbe, ma l’abbiamo vista all’obitorio dell’ospedale e oooh!”. Così dissi loro “Beh, lasciate fare a me”. Ho ricostruito il lato danneggiato del suo viso – un giorno intero di lavoro […]. La madre non si contenne dalla felicità. Mi ripete spesso “L’hai fatta apparire bellissima”. Sapevano che [il restauro] era artificiale, ma riparò il danno e la rese di nuovo completa [ai loro occhi]».3838Ivi, p. 160.

Per quanto impressionanti, quelli di Adrian Stone non sembrano essere che casi di normale routine. Un restauratore particolarmente dotato potrà rendere presentabile persino un cadavere decapitato della testa, basandosi su fotografie del vivo e sui calchi del viso dei suoi parenti più prossimi,3939Secondo la family resemblance theory di Crandall (Cf. R. G. Mayer, cit., p. 465).
così come cadaveri sfigurati in modo orribile di cui nessuno mai avrebbe creduto possibile resuscitarne la dignità: si pone rimedio ad amputazioni multiple, giganteschi tumori facciali, ossa frantumate, ustioni estese, evisceramento, crivellamento da pallottole, attacco di bestie feroci e putrefazione avanzata.4040Cf. ivi, pp. 468-69. Noto è l’esempio dei famigerati criminali Bonnie e Clyde. Uccisi dalle forze di polizia durante una sparatoria, Bonnie fu colpita da oltre cinquanta proiettili di pistola e Clyde da più di cento proiettili tra pistola e fucile che gli mandarono completamente in frantumi il cranio. Entrambi i corpi furono restaurati ed esposti all’interno delle rispettive bare, visti da circa 50.000 persone.
Il confronto fotografico tra lo stato di alcune salme prima e dopo il trattamento può togliere la parola e far credere alle dichiarazioni di Crandall: ogni cadavere può essere restaurato.

La toilette del morto consiste in un particolare make up finalizzato a riequilibrare la colorazione dell’epidermide del defunto, mascherare ulteriormente gli interventi di restauro realizzati, riprodurre il trucco che il vivo era solito portare durante le proprie giornate e gli eventuali segni permanenti che la morte ha cancellato o compromesso, come i tatuaggi. A ciò si aggiunge la cura dei capelli, delle unghie, del pelo facciale. Howarth riporta la testimonianza di una donna, intervenuta a un talk show radiofonico per raccontare la toilette realizzata sul cadavere della suocera: «So che mia suocera è stata trattata bene dal becchino… Morì di attacco di cuore e quelli dell’obitorio la lavarono dalla testa ai piedi – non so il perché. Poi la portarono nella cappella delle visite e [quando vidi la salma] questa non somigliava affatto a mia suocera… I suoi capelli erano sciatti, tutto non andava bene. Il becchino fu un grande. Dissi “Vede… lei può fare qualcosa?”. Lui rispose “Noi non sappiamo come [la signora] apparisse in vita. Lei ci porti una fotografia, noi le troveremo qualcuno [un tanatoesteta] che se ne occupi”. Gli detti una fotografia e lui davvero trovò qualcuno che la rese bella, meglio di come l’obitorio l’aveva ridotta».4141G. Howarth, cit., p. 161.

Una scena tratta da My Girl (1991), diretto da Howard Zieff.

Quello del trucco e parrucco del morto è un fatto delicato. Solitamente schernito da chi lo crede indistinto dalle cure estetiche da beauty salon per signore, esso richiede un’abilità diversa oltre a una strumentazione più adeguata (pennelli, spatole, aerografo, coloranti chimici, fissativi e dispositivi per il posizionamento del cadavere durante il trattamento) e comporta un’azione che non è mai disgiunta dalle particolari scelte di imbalsamazione e restauro, così come dalla particolare causa del decesso. La toilette funebre si rende complessa anche per quanto riguarda la vestizione della salma: Adrian Stone spiega quanto tempo e fatica comporti vestire un cadavere che ha subìto certi trattamenti e il cui abito deve essere sartorialmente modificato per le più disparate ragioni, come quella del drastico dimagrimento in cui molte persone malate incorrono prima di morire,4242Cf. G. Howarth, cit., pp. 163-164. Nel caso in cui i congiunti non esprimano il desiderio che la salma indossi uno dei propri abiti, si fa ricorso a vestiti appositamente confezionati per il morto che rendono più facile la vestizione in quanto aperti sul retro.
che inficerebbero la sua piacevole presentazione.

La precisione e l’inventiva su cui si basano la restorative art e la toilette funebre non sembrano essere state fatte oggetto di esagerazione da parte dei funeral director; questi sembrano addirittura svalutare i progressi tecnici raggiunti da quest’arte rispetto alle indispensabili doti che il tanatoprattore deve dimostrare nel metterla in pratica: «I progressi compiuti negli anni dall’America sono stati significativi. Abbiamo ampliato la fornitura dei materiali e dell’attrezzatura, e dediti insegnanti insegnano le nuove metodologie all’interno di ottimi laboratori scolastici […]. Ora, così come all’origine dell’arte, è necessario che un singolo tanatoprattore, incaricato del caso, inizi il restauro di quel corpo e lo porti a una soddisfacente conclusione. Nessun materiale, attrezzo o corso di formazione può sostituire la forza di volontà e la determinazione individuale nel sopraffare il più sfortunato dei casi. La voglia di fare e l’abilità nell’improvvisare hanno spesso più valore di tutto il resto».4343R. G. Mayer, cit., p. 477.

Persino i loro acerrimi nemici riconoscono le insidie che si celano dietro tali trattamenti e l’impegno indefesso dei tanatoprattori per il raggiungimento di un risultato soddisfacente. Jessica Mitford è disposta a chiamare “artisti” i tanatoprattori, pur mettendo l’accento sulle raccapriccianti tecniche usate e sulla ridicolaggine dei nomi e delle pubblicità che riguardano gli accessori utilizzati; il confronto utilizzato dalla giornalista è quello con l’arte dello scultore,4444Cf. J. Mitford, cit., pp. 45-47.
ripreso a sua volta dalla letteratura funeraria di inizio Novecento celebrante le qualità degli scultori prestatisi all’insegnamento4545Cf. R. G. Mayer, cit., pp. 471-473.
della restorative art nelle prime mortuary school.

L’antropologia può soccorrerci nel tentativo di comprendere se c’è dell’arte nelle forme di tanato-metamorfosi. Riferendosi alla splendida disposizione delle reliquie dei Mountain-Ok, una popolazione delle montagne della Papua Nuova Guinea, Craig afferma che ciò che distingue l’arte dal semplice artigianato è il suo essere contemporaneamente «accessibile a un pubblico, aspecifica, sperimentale, modellizzante»:4646B. Craig, Relic and trophy arrays as art among the Mountain-Ok, Central New Guinea, in Art and identity in Oceania, a c. di A. e L. Hanson, University of Hawaii Press, Honululu 1990, pp. 196-210, qui p. 208.
tutte caratteristiche proprie dell’American way of death. Adriano Favole spiega come il concetto di «finzione», relazionato al mondo dell’arte, possa essere correlato al trattamento dei resti umani: «Com’è noto, il verbo latino fingere da cui deriva il sostantivo italiano “finzione” indica in primo luogo l’azione del “formare”, “plasmare”, “creare”, “fare”, “fabbricare”. In riferimento alle arti figurative può significare anche “scolpire”, “rappresentare”, “figurare” e non è raro il suo utilizzo in un dominio propriamente estetico (“acconciare”, “adornare”, “ornare”). Un secondo ambito di significati concerne invece l’“immaginare”, “sognare”, “supporre”, “inventare”, “ordire”, “simulare” e non ultimo il “falsare”».4747A. Favole, cit., p. 113.

Questi significati si adattano al trattamento di reliquie che sono in primo luogo «il frutto di un lavoro di modellamento, di figurazione da parte di mani esperte che mirano a ridare al cranio la forma di un volto, le sembianze di un corpo. Che si tratti di crani dipinti con l’ocra, di crani adornati o rimodellati fino a riprodurre in maniera realistica il volto del defunto, queste reliquie sembrano l’espressione di uno sforzo di ricostruzione del corpo (del volto per lo meno) a partire dai resti. L’artista appare impegnato a contrastare gli effetti disgreganti (anti-poietici) della morte, riproducendo un processo di ordine inverso, destinato a ridare consistenza e forma a un corpo di cui non rimangono che alcune tracce. A partire dai resti, l’artista ricostruisce forme di umanità dissolte dai processi di tanato-morfosi. [I crani rimodellati] mostrano la forza delle finzioni culturali, la loro capacità di affrontare persino l’abisso della morte, le potenzialità dell’immaginazione e della creatività umana, ma, nello stesso tempo, non possono mascherare il fallimento a cui in definitiva questi sforzi sono votati […]. Manifestano assieme la forza della presenza e il dramma dell’assenza, la concretezza della realtà biologica dell’essere umano e le capacità poietiche (creative, artistiche) di un essere che costruisce, immagina, finge la propria umanità».4848Ivi, pp. 113-15.

Le tesi di Favole ci sembrano appropriate per comprendere i casi della restorative art e della toilette funebre statunitensi e schiudono nuove interpretazioni a riguardo. L’idea che un «tanato-artista», tramite i suoi sforzi poietici, fabbrichi un’immagine del vivo basandosi sul suo cadavere è supportata dai propositi stessi dei funeral director e dalle modalità della veglia funebre da essi approntata, trovando ulteriore riscontro nella filosofia dell’immagine. Vedremo in che modo nel prossimo articolo.

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di Stefano Menichini
  • Stefano Menichini si è laureato in Storia e critica dell’arte all’Università degli Studi di Milano nel 2018, con specializzazione in arte contemporanea. Durante gli studi ha lavorato per il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano e la Galleria Daniele Agostini di Lugano, e ha scritto recensioni e articoli di approfondimento per d’Arte, KABUL Magazine e Flash Art web. È stato consulente di Google Arts&Culture per il Cinquecentenario della morte di Leonardo Da Vinci. Dal 2019 collabora con la Fondazione Giulio e Anna Paolini di Torino e si occupa di archivi di collezioni private. Attualmente è parte del team curatoriale di BUILDING, Milano.
Bibliography

B. Craig, Relic and trophy arrays as art among the Mountain-Ok, Central New Guinea, in Art and identity in Oceania, a c. di A. e L. Hanson, University of Hawaii Press, Honululu 1990.
A. Favole, Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte, Laterza, Roma Bari 2008.
G. Howarth, Last rites: the work of the modern funeral director, Baywood Publishing Company, New York 2006.
G. Laderman, Rest in peace. A cultural history of death and the funeral home in twentieth-century America, Oxford University Press, New York 2003.
P. Larribe, La tanatoprassi. Manuale descrittivo della pratica di tanatoprassi secondo la tradizione francese, a c. di L. Rovina, Progetto Caronte, Firenze 2004.
R. G. Mayer, Embalming. History, theory and practice – 2nd ed., Appleton & Lange, Stamford 1996.
J. Mitford, The American Way of Death Revisited (1998), Alfred A. Knopf, New York 2013.
F. Remotti, Morte e trasformazione dei corpi. Interventi di tanatometamòrfosi, Mondadori, Milano 2006.
J. Ziegler, I vivi e la morte (1975), tr. it. di L. Krasnik, Mondadori, Milano 1978.
SITOGRAFIA
National Funeral Directors Association (NFDA).
Lincoln Funeral Train website.
Sito dedicato all’assassinio e alla salma di Lincoln.
Mortician guide.