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Il potere del controllo sociale tra distopie e contro-azioni artistiche
Magazine, ANATOMIA – Part I - Ottobre 2020
Tempo di lettura: 21 min
Silvia Cegalin

Il potere del controllo sociale tra distopie e contro-azioni artistiche

Il corpo politico tra sorveglianza, paranoia e attivismo.

Jon Rafman, 9 eyes, 2008-ongoing.

 

«Quello che ci sembra la nostra libera volontà – cioè i nostri desideri, la coscienza di voler fare quel che facciamo – può benissimo essere un’illusione».
(Philip Dick, Se vi pare che questo mondo sia brutto)

 

Laura Poitras, Astro Noise, 2016.

Grande fratello & Stato di polizia: la sorveglianza come potere e fonte di paura

Siamo anche noi, dunque, come dichiara Philip Dick, esposti al rischio di vivere ripetute illusioni che ci ammaliano con versioni della realtà che non esistono? E il senso di libertà risulta essere più forte della libertà stessa? Per capire come si è giunti a questa indefinizione di ciò che ci circonda è necessario analizzare come il potere abbia agito sul substrato sociale odierno, forgiando le dinamiche in cui siamo inseriti e tessendo le chimere in cui crediamo.

Oggi il potere si muove in maniera subdola, adescandoci tramite ciò che Byung-Chul Han, in Che cos’è il potere?, definisce «la dittatura dell’ovvio», in quanto esso si incarna proprio in azioni e gesti di semplice quotidianità, attraverso abitudini che sono scontate e che, a causa della loro banalità, riescono a incorporare le costrizioni che sono vissute come libertà.

E la sorveglianza è uno tra gli aspetti centrali in cui le strategie di potere si realizzano, adottando pratiche mascherate e poco esplicite. In Servire e punire, Michel Foucault scrive che la sorveglianza è la caratteristica chiave per interpretare la modernità perché, attraverso l’equilibrio giocato tra il dominio e la violenza che genera norme e regole, le persone possono conformarsi al vivere sociale, atrofizzando così la loro parte irrazionale e istintuale, a favore di quella razionale; e nel caso contrario in cui non riescano a “controllarsi”, ecco che scatta l’esercizio punitivo, con la conseguente messa al bando in strutture di detenzione o ricovero.

Per descrivere tale sistema di forze agite e subite, Foucault fa esplicito riferimento al Panopticon, struttura carceraria ideata da Jeremy Bentham a fine ’700, in cui l’occhio centrale di un’unica guardia dovrebbe essere in grado di sorvegliare tutti i carcerati, inconsapevoli di quale sia il momento in cui vengono spiati né di dove si trovi effettivamente il controllore. La figura della guardia invisibile conduce direttamente all’idea di una sorveglianza che si nasconde e che “osserva senza essere osservata”.

Un impianto che, tuttavia, come suggerisce Lorna Rhodes,11L. Rhodes, Total Confinement: Madness and Reason in the Maximum Security Prison, University of California Press, Berkeley, 2004.
 può essere applicato esclusivamente in istituzioni quali caserme, prigioni e ospedali. Il concetto orwelliano del sorvegliante anonimo appare infatti come un’idea poco aderente al tessuto contemporaneo, soprattutto in considerazione del fatto che attualmente non si è più in presenza di una vigilanza diretta, unica, polifemica, ma di una sorveglianza multipla esercitata dalle macchine (si pensi per esempio alle telecamere o ai droni che più tardi analizzeremo).

Una sorveglianza che si è spostata dai luoghi recintati per invadere le strade e il suolo pubblico“…Una sorveglianza che si è spostata dai luoghi recintati per invadere le strade e il suolo pubblico”, in cui Didier Bigo, in linea con il pensiero di Rhodes, in una trasmutazione semiotica che vede il  Panopticon divenire “Ban-opticon”,22Termine usato per descrivere un tipo di sorveglianza effettuata tramite un’osservazione che si appoggia su database della popolazione e creazione di profili per determinare se a una determinata persona debba essere concesso o meno il diritto di circolare liberamente. Concetto contenuto in D. Bigo, Globalized (In)Security: The field and the Ban-Opticon in Terror, Insecurity and Liberty. Illiberal practices of liberal regimes after 9/11, Oxon and Routledge, New York, 2008.
 individua il chiaro intento da parte del potere non solo di disciplinare la popolazione, ma di monitorare i comportamenti dei singoli individui e al contempo di farli “sentire” sicuri. Tale propensione al controllo dei cittadini è sfociata a causa di un potere che, anziché accontentarsi di restare confinato all’interno di determinate zone, desiderava attingere alla sfera privata del soggetto.

L’invasione dell’occhio orwelliano nelle città ha causato due fenomeni socialmente rilevanti: da una parte ciò che Bigo ha definito come classificazione delle aree metropolitane, alimentando una stratificazione sociale che orienta la polizia e lo Stato a “tenere sott’occhio” determinati individui o gruppi/classi di popolazione, e che come vedremo tra poco ha nella paura il suo fulcro principale. E dall’altra la formazione di informational cities (Manuel Castells), in quanto il controllo potenziato dei sistemi di monitoraggio non serve soltanto a rilevare eventuali atti criminali o a supervisionare certe aree urbane considerate critiche, ma anche a comprendere, pianificare e anticipare le mosse del cittadino in veste di consumatore/lavoratore.

con l’affermarsi del capitalismo le informazioni catturate dalle pupille artificiali servono per studiarci in quanto consumatori.

Per quanto riguarda il primo caso la paura è stata sempre il sentimento preferito dal potere per realizzare i suoi obiettivi e – ricordando Bauman – si intuisce che in questa società liquida essa diviene una prerogativa. Nell’ambito della sorveglianza ciò è espresso attraverso l’uso ossessivo dei dispositivi tecnologici e tramite il messaggio reiterato della pericolosità di alcuni luoghi che il cittadino consapevole dovrebbe evitare di frequentare, e che hanno costruito – di fatto – una geometria della paura. Per comprendere ciò, Nan Ellin33N. Ellin, Architecture of Fear, Princeton Architectural Pr, New York, 1997.
 invita a osservare la trasformazione delle strutture architettoniche: progressivamente nelle agorà sono stati eretti muri e barriere, e tali sistemi di divisione, oltre che suscitare angoscia, hanno aumentato il sospetto verso gli estranei e spinto gli individui ad allontanarsi dai propri simili per rifugiarsi in una dimensione privata, dimensione tuttavia anch’essa intaccata dai sistemi di sorveglianza presenti, per esempio, nei nostri dispositivi elettronici.

Un isolamento, perciò, soltanto apparente, e che ha procurato una diffidenza verso l’altro  degenerata in una paranoia collettiva divenuta cronica dopo i fatti dell’11 settembre 2001, e che ha consentito l’instaurazione di uno Stato di Polizia, in quanto essendo cresciuta la percezione del pericolo i cittadini hanno ben accolto nella loro esistenza i sempre più intrusivi sistemi di controllo, subendo una violazione della privacy e delle libertà personali.

Il desiderio di quiete, per dirla con Freud, ha generato inquietudine, e in questa affermazione della cultura della paura le città sono diventate il simbolo di una struttura sociale devota alla separazione, piuttosto che al dialogo, e in cui i cittadini sono valutati anche in base allo spazio urbano fisico in cui risiedono e che frequentano.

Per la seconda conseguenza procurata da una sorveglianza opprimente, invece, chiamo in causa la nozione di luce. La luce svela, mostra e rivela anche ciò che in principio appare nascosto o inesistente: pensiamo per esempio alla Parigi del 1600 in cui, per contrastare le zone buie della città, furono posizionati lampioni e lanterne tanto da renderla una tra le città più illuminate di quel periodo. E ad oggi il paragone – se sostituiamo quei lumi con gli attuali sistemi di vigilanza – conferma che “siamo tutti illuminati” e che nessuna delle nostre azioni può venire oscurata. Ciò ci conduce al concetto di informational cities di Castells;44M. Castells, The Informational City: Information Technology, Economic Restructuring, and the Urban-Regional Process, Blackwell, Oxford, 1989.
 ossia, l’idea di città come veri e propri contenitori di informazioni con un continuo flusso di dati che servono al potere per raccogliere più notizie possibili sul cittadino, nel suo ruolo sia di lavoratore che di consumatore.

Se agli inizi la sorveglianza era utilizzata dall’apparato industriale per analizzare le prestazioni dei lavoratori e controllare che il loro rendimento non fosse mai inferiore ai ritmi produttivi pretesi dal datore di lavoro (pratica che è oggi estesa anche al di fuori delle fabbriche), con l’affermarsi del capitalismo e di una società altamente consumistica le informazioni catturate dalle pupille artificiali servono per studiarci in quanto consumatori.

«La sorveglianza non esercita semplicemente coercizione e controllo. Spesso si tratta di suggestione, persuasione, seduzione. […] Per un verso le nostre attività possono essere “orchestrate”, ma allo stesso tempo, la nostra attiva partecipazione è essenziale affinché la “musica” sia suonata. […] Il potere di sorveglianza si dirama a raggiera: dal rigido e coercitivo controllo fino alla seduzione che avvolge, dall’obbligazione al condizionamento».55D. Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 77.

Nelle parole di Lyon intuiamo che se veniamo spiati non è soltanto a mero scopo di sicurezza, ma anche per capire come ci muoviamo all’interno del mercato, che cosa ci piace fare, o come preferiamo trascorrere il nostro tempo libero e dove. E il pensiero di Lyon si riallaccia a ciò che, anticipando i tempi, sosteneva Paul Virilio in La macchina che vede, che nella diffusione degli strumenti elettronici e di un’ottica a circuito chiuso riscontrava una disumanizzazione che avrebbe portato l’essere umano a venire considerato esclusivamente come dato statistico e mezzo per rinforzare il potere e i suoi postulati.

Laura Poitras, Astro Noise, 2016.

 

Hasan Elahi, Tracking Transience, 2018

Sistemi di sorveglianza: quali sono e come si caratterizzano

Se la sorveglianza è orientata a soddisfare diverse necessità, è chiaro che il potere non si limiterà a far fede su un unico strumento, ma metterà in campo strategie differenziate. Scopo di questo paragrafo è appunto quello di indagare le varie forme di controllo al momento utilizzate.

La telecamera, introdotta per la prima volta nella metropolitana di Londra, è stato uno tra i primi, se non il più celebre, sistema di sorveglianza. Il suo meccanismo è molto semplice e prevede la connessione tra una telecamera e un televisore a circuito chiuso attraverso un impianto computerizzato. La caratteristica di catturare qualsiasi frammento di istante a risoluzioni molto elevate, come nel caso della telecamera a infrarossi, l’ha resa il dispositivo per eccellenza per combattere e dissuadere il crimine, in special modo aggressioni, rapine e lo spaccio di droga, rendendola l’arma perfetta per controllare le aree urbane. L’arrendevolezza dei cittadini che subiscono senza tregua lo sguardo indiscreto dei teleobiettivi è riscontrabile nella paura perché – asserisce Torin Monahan in Surveillance in the Time of Insecurity – a causa dell’invasione di questi occhi elettronici la nostra vita sembra essere costantemente in pericolo.

Incarnando la metafora della testa di Giano, le videocamere inviano ai soggetti messaggi contrastanti: se da una parte li fanno sentire sicuri e protetti, dall’altra, proprio a causa di una presenza eccessiva, fanno insorgere negli individui la convinzione paranoica che “qualcosa di brutto”, come per esempio un attentato, prima o poi si verificherà. La paranoia, letteralmente: para-noia, ossia follia, disordine della mente che contrasta la noia e la stasi, può essere lo stato che, al momento, non è riconducibile a una condizione soltanto emotiva e psicologica, ma persino corporea. L’esigenza di sicurezza è infatti richiesta per proteggere l’incolumità fisica, l’organicità del nostro corpo: una paranoia che, pur partendo dalla psiche, è giunta a invadere i corpi che si muovono nelle città timorosi, incerti e cauti.

I droni possono considerarsi come l’evoluzione avanzata delle telecamere. Il loro potersi muovere indisturbati, sorvolando il territorio senza essere identificati, consente loro di raccogliere in modo particolarmente dettagliato informazioni. Sistemi di sorveglianza machiavellici per eccellenza, assumono forme ingannevoli, come quelle, per esempio, di minuscoli insetti, rendendo i sorvegliati ignari di essere controllati, e ingenui nel credersi liberi; se infatti la videocamera è esplicita, in quanto non sempre ben occultata, i droni hanno nell’invisibilità66E. Bumiller, T. Shanker, War evolves with drones, some tiny as bugs, «New York Times», 19 giugno 2011.
 la loro principale strategia.

Laura-Poitras-Astro-Noise-2016. Un esempio di drone a forma di insetto.

I droni nascono principalmente a scopo militare, per attaccare il nemico senza preavviso, e perciò non c’è da stupirsi se le loro strategie possano reputarsi tra le più avanzate in materia di sorveglianza.

Se le telecamere e i droni catturano l’immagine del corpo convertendolo in una traccia video senza però mai praticare metodi intrusivi, escludendo cioè un contatto diretto tra dispositivo e soggetto, ulteriori strategie di sorveglianza si sono oggi spinte oltre, focalizzandosi su alcuni tratti particolari del corpo, e in alcuni casi persino penetrandolo. L’insieme di tali pratiche è contenuta all’interno del cosiddetto “sistema di riconoscimento biometrico”, il cui obiettivo è identificare le persone sulla base di una o più caratteristiche fisiche, confrontandole con i dati precedentemente acquisiti e salvati in un database digitale.

La biometria fonda le sue radici nell’antropologia giudiziaria di Alphonse Bertillon e negli studi di antropometrica criminale di Cesare Lombroso. Con l’avanzamento della tecnologia il corpo viene esaminato soprattutto a partire da parametri anatomici e biofisici, giungendo alla schedatura degli individui tramite impronte digitali, identificazione dell’iride o della sagoma della mano, nonché all’attualissimo riconoscimento facciale messo in atto, per esempio, dalla Cina.

«A essere sottoposto a verifica è il corpo stesso […]. Siamo a fronte di un altro livello di codificazione, oltre le parole e i numeri. A prescindere dai modi in cui ciò può ricostruire il corpo come testo, tutto questo ci ricorda che accesso e inclusione, nonché la distribuzione di diritti e poteri, possono ora dipendere dall’esposizione di alcune caratteristiche del corpo».77Lyon, cit., p. 102.

Nel discorso di Lyon è evidente il riferimento all’articolo The body as Password di Ann Davis. Qui l’autrice rileva quanto i sistemi di sorveglianza, per diminuire il margine di errore e assumere un controllo più esteso e presente, non si accontentino più di basarsi soltanto sulle tracce visive ricavate dalle telecamere, ma anche sulla coincidenza tra le parti del corpo selezionate dalla macchina artificiale e quelle classificate e salvate negli archivi; permettendo, in questo modo, agli “osservatori” di effettuare controlli rigorosi e possedere le informazioni necessarie per individuarci in qualsiasi nostro momento, che sia di natura consumistica, lavorativa o di svago: «Nel prossimo millennio, potremmo alimentare pezzi di noi stessi in una serie in continua espansione di archivi bancari computerizzati, registri di carte di credito e banche dati statali e federali».88A. Devis, The Body as Password, «Wired», 1997. Traduzione dell’autrice.

A essere presi di mira non sono più solo i nostri comportamenti, ma anche le nostre scelte di vita.

In questa informatizzazione dei corpi risulta esplicita una metamorfosi nel senso e nel valore del corpo in quanto ente organico, e in una perdita della nozione psicofisico-identitaria: poiché, se la carne ha gradualmente perso “peso”, pure l’idea di persona, nel divenire elemento digitalizzato, non è più connessa all’umanità, all’indole o all’istinto, ma al mero dato elettronico che se ne ricava da esso.

Un’integrità corporea99Cf. Irma Van der Ploeg, The Machine readable body, Shaker, Maastricht, 2005.
 che rischia anche di essere oltraggiata quando la sorveglianza entra nella pelle. Di questo fenomeno ne parla ampiamente Yuval Noah Harari in Homo Deus, spiegando come attraverso strumenti quali la misurazione della temperatura (si pensi a quanta rilevanza ha assunto questa pratica durante la diffusione del Covid-19), del battito cardiaco, gli esami del sangue per rilevare sostanze sospette o la macchina della verità, abbiano letteralmente concesso al potere di infiltrarsi nel nostro corpo, potendo non solo monitorare ciò che avviene al suo interno, ma di conseguenza dare giudizi morali, ordini o consigli su come gestirlo e mantenerlo più sano.

Metodologie che, essendo state introdotte in ambito sanitario, statale e lavorativo (come per esempio il test antidroga inserito in alcune aziende), annebbiano il confine tra democrazia e autoritarismo, divulgando la convinzione, radicata in questo ultimo periodo, che lo Stato può e deve sorvegliare tutto ciò che riguarda il corpo. A essere presi di mira non sono più solo i nostri comportamenti – come accadeva con le telecamere e i droni –, ma anche le nostre scelte di vita. Mentre l’ultima èra del controllo organico concerne il “Progetto genoma umano”, ovvero l’ideazione di un archivio genetico.

Se dalle considerazioni sinora esposte emerge l’immagine di città come luoghi soffocati da un controllo isterico, è necessario, giunti a questo punto, interrogarsi su quali siano le prospettive future della sorveglianza e quali norme siano necessarie per tutelare la privacy dei cittadini.

Per discutere una possibile regolamentazione dei vari sistemi appare essenziale, prima di tutto, smettere di identificare il singolo individuo in base a logiche algoritmiche o come insieme di codici: perché alla luce di questo trattamento, che Bauman definirebbe “adiaforizzato”,1010Bauman definisce processo di adiaforizzazione la perdita di valenza etica delle azioni, seguita de un graduale atteggiamento di indifferenza che esonera lo Stato e gli individui da qualsiasi principio morale, in quanto i rapporti sono impostati unicamente in un’ottica consumistica e materialistica. (Si veda Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 2014)
 risulta impossibile valutare il cittadino come soggetto di un giudizio morale ed etico. Per avviare un discorso sul disciplinamento della sorveglianza è fondamentale ritornare a una concezione umana degli individui, a una moralità che li pone come entità che hanno non soltanto doveri, ma anche diritti, per costruire una deontologia del potere che vada oltre i dati alfanumerici incorporati nei dispositivi.

Occorre pertanto evitare di ergere a modello quella società del controllo tanto temuta da Gilles Deleuze in La società del controllo, poiché – oggi più che ieri – è necessaria la costruzione di una coscienza singola e sociale che ci porti a orientare il pensiero aldilà delle dinamiche subdole del potere e verso concezioni che considerino l’essere umano come essere complesso in grado di oltrepassare i limiti in cui le scienze della sorveglianza intendono imbrigliarlo.

 

Reazioni dal mondo dell’arte e dell’attivismo contro i sistemi di controllo

In questo sottile parallelismo che unisce realtà e finzione, gli artisti possono e devono riflettere su possibili soluzioni alternative e immaginare modi meno convenzionali di stare al mondo. Nell’arte contemporanea un tema come quello della sorveglianza trova infatti spazio nelle ricerche e nelle opere di diversi artisti, per i quali è possibile inoltre rintracciare quasi una sorta di simbiosi concettuale.

Surveillance Camera Players.

Il primo tema ricorrente è la paranoia. Come già esposto, la diffusione di un terrore collettivo che  fonda le proprie radici negli eventi dell’11 settembre 2001 ha condotto gli individui verso una repentina diffidenza nei confronti del prossimo, specie nel caso in cui questi incarni pregiudizi e stereotipi generati all’interno delle società dalla paura. Tracking Transience (2003) è un’opera dell’artista statunitense, originario del Bangladesh, Hasan Elahi, concepita nel 2002 dopo che lo stesso Elahi era stato indagato dall’FBI in seguito agli attentati di New York, poiché sospettato per errore di essere un terrorista. Tale esperienza è comunicata dall’artista al pubblico attraverso un’opera in cui fa da protagonista una soffocante sensazione di controllo: l’artista ha infatti dato la possibilità al pubblico di seguire in tempo reale, attraverso il sito, le proprie azioni, i suoi spostamenti e le transazioni bancarie, rinunciando quindi alla propria privacy. Un approccio simile è stato poi portato alla personale Datamine (Grimaldis Gallery, 2016), in cui l’artista ha presentato migliaia di fotografie e testimonianze di attimi – persino i più banali – delle proprie giornate, ma dove Elahi, tuttavia, non compare mai, comunicando quindi attraverso l’assenza la propria contrarietà all’auto-celebrazione.

Altra artista che nelle sue opere ha affrontato l’emergere di una paura sociale sempre più tangibile è Laura Poitras. Nella mostra Astro Noise (Whitney Museum of American Art, 2016), l’artista si addentra in questioni che coinvolgono la guerra, i droni, il controllo statale e la tortura, comunicate attraverso installazioni, ambienti immersivi e video in cui, in modo interattivo, invita l’osservatore a riflettere sulla massificazione prepotente di una sorveglianza il cui obiettivo è generare terrore. Mostrando il funzionamento di telecamere a circuito chiuso e infrarossi, sniffer per telefoni cellulari e satelliti, l’artista tenta di far emergere negli spettatori una consapevolezza lucida dell’epoca in cui viviamo. Per Poitras, l’arte è uno dei mezzi per sfidare i regimi oppressivi, mentre le opere possono e devono farci mettere in discussione i meccanismi che guidano il mondo.

Una delle storiche immagini di protesta di Surveillance Camera Players.

Se Elahi e Poitras si concentrano su un controllo che ha come conseguenza l’aumento della diffidenza e la radicalizzazione di un legame sempre più forte tra ordine e disciplina, artisti come Zach Blas e Paolo Cirio preferiscono invece soffermarsi sulla specificità dei vari dispositivi di controllo, proponendo soluzioni, anche di matrice attivista, per sovvertirli.

È il caso, per esempio, di Facial Weaponization Suite (2012) di Blas. Per contrastare il riconoscimento facciale biometrico e i paradigmi razziali insiti in tale tecnologia, l’artista ha costruito quattro “maschere collettive” modellate sulla combinazione dei dati facciali dei partecipanti all’esperimento, e usate in seguito in occasione di eventi pubblici. Queste maschere aprono diversi dibattiti, affrontando questioni che hanno a che fare con scelte sia individuali che collettive. La prima maschera è generata a partire dai dati biometrici facciali di individui queer, allo scopo di smentire gli studi che ricollegano la determinazione dell’orientamento sessuale alle tecniche di riconoscimento facciale; la seconda è creata per impedire l’individuazione dei pigmenti scuri, in modo da rendere impossibile alle macchine il rilevamento del colore della pelle; mentre la terza per far emergere il rapporto tra femminismo e libertà religiosa (quest’ultima espressa, per esempio, dal diritto, negato in Francia, a occultare il proprio volto per motivi di fede); infine, la quarta per denunciare come tali dispositivi rischino di affermare, soprattutto negli USA, la violenza nazionalista.

Homepage del sito web di Tramaci.

Una critica al controllo, in special modo al sistema di riconoscimento biometrico, è anche al centro delle composizioni di Paolo Cirio, la cui l’opera più significativa al riguardo è Capture (2020). Cirio ha realizzato un database online in cui ha raccolto le foto dei volti degli agenti di polizia francesi coinvolti nelle manifestazioni cittadine, elaborandole con un software di riconoscimento facciale, per raccogliere più informazioni possibili riguardo alla loro identità; in parallelo, ha affisso lungo le strade di Parigi le immagini dei loro volti, con l’intento di muovere una critica agli abusi di potere spesso messi in atto dalle forze dell’ordine. L’artista non è nuovo a queste riflessioni. Precedentemente, infatti, aveva avviato una campagna per abolire in Europa le tecnologie per il riconoscimento facciale, lanciando una petizione in collaborazione con organizzazioni per la tutela della privacy.

Toni più ironici, senza però mancare di una visione analitica, sono proposti dagli artisti che riflettono sulla sorveglianza da una prospettiva che coinvolge gli scenari provenienti da Internet, come Google Street View. Con la serie di fotografie del 2009 di Michael Wolf, veniamo immersi in attimi di vita, ridotti casualmente a un fermo immagine, che immortalano incidenti, momenti bizzarri e sfortunati, e masse di individui inconsapevoli di essere inquadrate.

Zach Blas, Facial Weaponization Suite: Fag Face Mask, 2012.

Mentre in New American Picture (2010), Doug Rickard si muove su un livello diverso, proponendo immagini rappresentative del declino economico statunitense, screenshot di luoghi abbandonati, suburbani e scene di una quotidianità disagiata, in cui quadri di una realtà sinistra smontano in maniera netta l’idillio del sogno americano.

Ad adottare Google Street View è anche Jon Rafman, artista che da anni si interroga sull’impatto delle nuove tecnologie, evidenziando all’interno delle proprie composizioni meccanismi umoristici e surreali. 9 Eyes, opera intitolata così in riferimento alle nove fotocamere, dotate di GPS e laser scanner, installate sulle auto di Google, è di certo una tra le raccolte di fotografie virtuali più accattivanti. L’artista, che non rivela mai la location da cui estrae i fotogrammi, presenta scene che si collocano ai margini tra l’incredulo e lo stravagante, in quanto l’obiettivo ha involontariamente catturato momenti di vita che sembrano giungere da un universo fittizio, quando non persino distopico. Rafman vede nell’utente di Google Street View l’incarnazione di un dio moderno che guarda senza agire, un voyeur digitalizzato coerentemente inserito in una realtà che ha sfumato ogni idea di riservatezza e solitudine.

Per concludere questa parte, si citano inoltre due mostre sull’argomento, rispettivamente The Black Chamber, presso Aksioma (Škuc Gallery, Lubiana, 2016), e WatchedSurveillanceArt & Photography, presso C/O Berlin Foundation (Berlino, 2017); e l’incontro Images of Surveillance: The Politics, Economics, and Aesthetics of Surveillance Societies, simposio tenuto al Goethe-Institut di New York nel 2015.

Oltre ai numerosi esempi di artisti, opere e mostre che hanno tentato di opporsi agli attuali sistemi di controllo, non dobbiamo dimenticare inoltre i collettivi di attivisti che da anni conducono le medesime battaglie, quali per esempio Tramaci, Camover e Surveillance Camera Players.

Zach Blas, Facial Weaponization Suite: Feminist Mask, 2012.

Tra i primi gruppi a combattere contro l’invasione dei sistemi di videosorveglianza, Surveillance Camera Player realizza azioni performative spesso caratterizzate da ironia, richiamando alla memoria gli eventi di ispirazione situazionista. Le azioni si svolgono davanti a telecamere pubbliche, con l’obiettivo di smuovere e provocare, senza l’utilizzo di forza o violenza, i responsabili del controllo, nonché di comunicare al cittadino quanto ogni sua azione venga costantemente monitorata. Nell’adattamento di 1984, o in happening come Ubu Roi (1994) e Headline News, Surveillance Camera Players si interroga sulla strumentalizzazione dei massmedia, cercando di combatterne gli abusi e ribadendo come la libertà violata sia ormai mantra di una società sempre più massificata e confusa.

Tramaci e Camover, invece, affrontano la questione con un accento più provocatorio. Il primo è un’affascinante realtà italiana che fonda le proprie azioni (registrate e visibili nel sito) da una prospettiva invertita rispetto “all’occhio panoptico”, in cui a essere sorvegliati sono gli stessi controllori e le loro strumentazioni: una visione che si converte quindi nell’idea di Anopticon, ponendo una forma di resistenza al potere disciplinare e provando ad arrestarne gli effetti. Si ricollegano a questo fine tutte le loro dichiarazioni e chiamate pubbliche, tra cui Big Brother Viewer, progetto iniziato nel 2009 che ha previsto la mappatura e schedatura di tutte le telecamere presenti nelle aree urbane italiane:

«Ci hanno raccontato che le telecamere vogliono dire sicurezza, ma siamo davvero convinti che sia così? La videosorveglianza urbana è di fatto un’intercettazione ambientale, siamo tutti indagati? Da chi? Perché? Viviamo in libertà vigilata?».1111L. Hanay Raja, Anopticon, per controllare i controllori, «Corriere della sera», 11 settembre 2009.

Sulla medesima scia di pensiero è stato anche il “gioco sociale” Cameover, terminato nel 2013 e guidato da un anarchico tedesco che invitava la popolazione a smontare e distruggere le telecamere statali, opponendosi concretamente e senza compromessi all’incedere dei sistemi psico-polizieschi da parte dello Stato, togliendogli in questo modo la vista e rendendolo di fatto cieco. Tra i paesi coinvolti che hanno aderito a questa insubordinazione figurano la Germania, la Grecia, il Belgio e la Finlandia, paesi in cui per qualche istante si è ritornati ad avere un tessuto urbano privo di occhi elettronici, concedendo ai cittadini una tregua da una continua esposizione che ha progressivamente limitato le loro libertà.

Tramaci, Big Brother Viewer, 2009.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Silvia Cegalin
  • Silvia Cegalin è laureata in Discipline dello spettacolo dal vivo a Bologna. Scrittrice e articolista freelance interessata alle arti digitali e performative e con un'attenzione verso i fenomeni culturali underground, i suoi articoli sono apparsi in Alfabeta2, Menelique, Philosophy kitchen, Kasparhauser e Punk Vanguard Magazine.
Bibliography

Zygmunt Bauman, Sesto Potere. La sorveglianza nella modernità liquida, Laterza, Bari, 2015.
Gilles Deleuze, La società del controllo, «L’autre journal», 1 maggio 1990.
Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1989.
Byung-Chul Han, Che cos’è il potere?, Nottetempo, Roma, 2005.
Yuval Noah Harari, Homo Deus: breve storia del futuro, Bompiani, Milano, 2017.
David Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana, Feltrinelli, Milano, 2002.
David Lyon, L’occhio elettronico. Privacy e filosofia della sorveglianza, Feltrinelli, Milano, 1997.