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Autodifesa psichedelica
Magazine, LINGUAGGI - Part I - Settembre 2021
Tempo di lettura: 14 min
Muna Mussie, Simone Frangi

Autodifesa psichedelica

L’arte di Muna Mussie contro il ritmo patriarcale e razzista dell’organizzazione coloniale del mondo.

Muna Mussie, “Curva Cieca”, performance, Short Theatre 2021, Roma. Ph. Claudia Pajewski.

 

L’identità – doppia per provenienza e adozione – è l’elemento portante della sua ricerca. Muna Mussie, artista bolognese di origine eritrea, si distingue nel panorama artistico contemporaneo per una scrittura performativa segnata da un’essenziale nettezza di gesti, una ricercata bidimensionalità, una drammaturgia di oggetti millimetricamente calcolata, una combinazione di gesti usuali/inusuali ridotti all’osso. La sua pratica artistica si fonda sul senso-della-misura, un modo per fare della scena uno spazio di interiorità esteriorizzata. Curva Cieca, sua ultima creazione, ha debuttato con successo a Short Theatre 2021. Fulcro della performance è la scoperta della sua lingua materna grazie al dialogo con Filmon Yemane, ragazzo eritreo, non vedente dall’età di dodici anni. Oggetti, segni grafici e fluttuazioni di senso si stratificano in consonanza con le parole di Filmon, che compongono delle lezioni di lingua tigrigna, con l’ausilio di immagini provenienti da un vecchio abbecedario. Per dirla con Mussie: «Curva Cieca è un dispositivo metadidattico che usa la forma didascalica per instaurare un paesaggio intimo: la narrazione biografica porta a riflessioni filosofiche e irrora la presenza: un corpo ligio tenta di aderire a un’immagine costantemente sfuggente».

L’articolo che segue ripercorre le tappe, le linee carsiche e i sentieri battuti che hanno condotto Muna Mussie sin qui.


Muna Mussie, “Curva Cieca”, performance, Short Theatre 2021, Roma. Ph. Claudia Pajewski.

In “Cosa può un corpo”, introduzione all’opera Difendersi. Una filosofia della violenza, Elsa Dorlin definisce l’autodifesa come l’«espressione propria della vita corporea, come ciò che fa un soggetto, come “ciò che definisce una vita”».11Elsa Dorlin, Se défendre. Une philosophie de la violence, La Découverte, Paris, 2017, p. 7.
Questa forma di agentività è costante, inerziale. Non è un dispositivo eccezionale che si dispiega nell’urgenza, ma si posiziona piuttosto come un istinto permanente di conservazione contro la violenza, «elemento strutturale del patriarcato e del capitalismo».22Françoise Vergès, Une théorie féministe de la violence, La Fabrique, Paris, 2020, p. 13.
Una violenza lenta e sottile che si traduce sornionamente nella pretesa di scrutare le nostre soggettività corporee, di dare loro un nome, renderle leggibili e facilmente mangiabili.

Muna Mussie aderisce a questa scienza vitale dell’autodifesa che, attraverso la sua pratica artistica, applica alle identificazioni abusive e alla semplificazione della natura frattale dei nostri corpi e della loro “durata”: ogni corpo dura perché è un passaggio carnale costante da uno stato all’altro, ma soprattutto perché incarna il diritto di restare irriducibile nella sua fluidità. La ricerca di Mussie tenta di creare delle concatenazioni di gesti e immagini che, nella volontà di produrre senso, restano opache e provano a sfuggire alla letteralità della significazione per spalancare diversi regimi di comprensione simultanei. Anche le cose sono quindi dei corpi: delle potenze, non delle forme, e questo insieme solidale resta refrattario alla predestinazione dei ruoli assegnati.

Se il tradimento della forma e delle sue aspettative è quindi emancipatorio, la sola adesione degna per Muna Mussie è quella ai motori emotivi degli eventi e delle relazioni. Questa infrazione del sistema identitario e della codificazione delle soggettività è all’opera in Punteggiatura (2018), un lavoro collettivo realizzato a Bologna per la Biennale “Atlas of Transitions”33“Atlas of Transitions – New Geographies for a Cross-Cultural Europe”, www.atlasoftransitions.eu.
con un gruppo di quaranta donne di origini ed età differenti: un libro in tessuto scritto con la tecnica del ricamo, che combina un sapere pregiudizialmente relegato al femminile con l’attività di scrittura ufficiale e pubblica, tradizionalmente riconosciuta come una prerogativa maschile. In Punteggiatura, queste donne scrivono un libro modulato da domande apparentemente inoffensive, ma che in realtà rimettono profondamente in causa ciò che viene considerato come scontato e banale: che cos’è un libro? Cosa vorresti scrivere a coloro che ti leggeranno in un futuro lontano?“…Cosa vorresti scrivere a coloro che ti leggeranno in un futuro lontano?” Cosa vuoi che si sappia del nostro tempo? Cos’è la “verità” per te? Che cosa non lo è? Qual è la prima cosa che hai imparato a fare? Qual è la prima cosa che vorresti insegnare? Il ricamo, la cui lentezza ci installa in uno stato di ripiegamento analitico, ci permette di prendere coscienza di una rete di conoscenze comuni, considerate come “innate”, e mette in discussione, richiamandosi a un “futuro antico” delle donne, il determinismo dei ruoli sociali e la possibilità di liberarsene.

Muna Mussie, “Curva Cieca”, performance, Short Theatre 2021, Roma. Ph. Claudia Pajewski.

Riflettendo a sua volta sulla pervasività molecolare del conflitto e della violenza trasformati in “ingiustizia sociale” legittima, Françoise Vergès sottolinea in Une théorie féministe de la violence come questa condizione comune di vulnerabilità si intensifica, a volte sino all’annullamento simbolico e materiale dei corpi quando essi vengono considerati come “sacrificabili”.44Ivi, p. 14.
Quello che Vergès propone è di rifiutare il ricorso sistematico alle istituzioni della difesa per fuggire a tale sacrificio e di cominciare a pensare a delle tattiche sensibili di protezione “al di fuori della repressione, della sorveglianza, della prigione e del paternalismo”.55Ibid.
Mettere dunque in atto una forma di fuggitività creatrice passa per il disorientamento e il mimetismo dissimulativo, e fornisce le condizioni materiali necessarie per credere realmente nelle “alternative possibili”.66Ci riferiamo qui a Fred Moten, Stolen Life, Duke University Press, Durham, 2018.
Queste strategie di disorientamento e di dissimulazione si traducono nella pratica di Muna Mussie nella forma di uno stato di agitazione, che al di fuori di ogni giudizio di valore o di patologizzazione, è da comprendere come una vibrazione interna, una dinamica elettrica che energizza il corpo e, come suggerisce Mel Y. Chen, istituisce «una forma di presenza vitale»77Mel Y. Chen, Agitation, «The South Atlantic Quarterly», 117:3, Duke University Press, July 2018, doi 10.1215/00382876-6942147, p. 551.
che apre la possibilità di agire e di posizionarsi in maniera decisa. L’agitazione è un mezzo per progredire nella conoscenza, è un impulso che mira a equilibrare l’incorporazione e il dispendio di energia e a gestire il proprio investimento in attività adeguate, scartando le opzioni inadeguate, spesso imposte dall’organizzazione sistemica dei ruoli. Nel percorso di creazione di Mussie, l’agitazione figura come un movimento contenuto nei perimetri del corpo che le permette di fare convergere diversi piani antitetici, dove le relazioni tra morte-decomposizione e vita-composizione sono invertite. Questo lavoro di avvicinamento e ribaltamento sfocia nel performativo, rendendo la sua morfologia nebulosa, ambigua ed evasiva: l’assenza cosciente di nitidezza permette alla generosità intrinseca dei corpi e delle cose di esprimersi nella molteplicità, lateralità e non linearità dei loro ingressi nel discorso artistico.

Muna Mussie, “Curva Cieca”, performance, Short Theatre 2021, Roma. Ph. Claudia Pajewski.

Investendo la psichedelia come forma di autodifesa dell’autonomia dell’immaginario, Muna Mussie si immerge in una dimensione di resistenza alla domesticazione delle pratiche performative e dei corpi indocili che le sostengono. Lo spazio artistico si presenta come l’equivalente di “una vita”, del libero arbitrio e della “giustizia cognitiva”,88Questo concetto è sviluppato da Boaventura de Sousa Santos in Epistemologies of the South. Justice against Epistemicide, Paradigm Publishers, Boulder/London, 2014.
così come un’istanza di rifiuto delle assegnazioni feticiste, derivanti da una storia di predazione dei soggetti “alterizzati” e di un presente che continua ad assorbirne le conseguenze. “Ciò che può” il corpo di Muna Mussie risponde alla sua stessa urgenza di erigere delle architetture performative costruite da sovrapposizioni di piani che si intersecano e cortocircuitano informazioni intuitive, costruzioni concettuali e onde visuali, dove l’“alto” e il “basso” sono profanati e diventano intercambiabili. La strategia della confusione di Mussie fa qualcosa: quello che succede durante la performance è al di là di noi, ci eccede, ci estranea e disobbedisce alla trasparenza. Si tratta di un resto, un divario linguistico tra produzione e ricezione. Non è il nulla ma piuttosto l’ignoto, l’inintelligibile, l’irriducibile, modulato e orchestrato da scelte di pre-astrazione: per Mussie questo resto diventa la sostanza psichedelica capace di alterare temporaneamente la nostra sfera sensoriale e percettiva, lo stato di consapevolezza di sé e dell’ambiente, l’aderenza alla linearità del tempo, e di invertire la nostra connessione emotiva con gli eventi e con ciò che viene chiamato “reale”. Allucinazioni, distorsioni, sinestesia, defamiliarizzazione sono gli effetti enteogenici ed empatogenici del lavoro politico incorporato nell’iperbole artistica di Muna Mussie, che si basa su una composizione psichedelica perché capace – come scrive Humphry Osmond in una lettera ad Aldous Huxley – di liberare il pensiero dalle sovrastrutture delle convenzioni sociali e indurre, attraverso l’estrema concentrazione di informazioni, uno stato di iperlucidità.

Muna Mussie, Milite Ignoto, ph. Luca Ghedini.

Il percorso di stregoneria resistente di Mussie comincia con Milite Ignoto (2015), progetto performativo che alimenta in maniera indiretta la riflessione sulla funzione delle tensioni etniche e razziali nella costruzione di immaginari nazionali italiani, immergendolo nella relazione coloniale che l’Italia ha stabilito con l’Eritrea, definita dal Fascismo colonia primigenia. Nell’antologia Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani, la ricercatrice Gaia Giuliani sottolinea giustamente la funzione del colonialismo nell’espulsione simbolica e materiale della “negritudine” e delle altre appartenenze etniche presenti nell’“altra sponda” del Mediterraneo attraverso i processi di costruzione dell’identità razziale degli italiani: «La metafora dell’appartenenza biopolitica ed emotiva del popolo combattente alla madrepatria, consolidata nelle battaglie del Risorgimento, durante la prima guerra mondiale e in Libia, e la metafora del “sangue”, qui inteso come legame familiare fondativo della comunità degli italiani, furono alla base di forme di forte e ampia identificazione con la comunità immaginata della nazione».99Gaia Giuliani, L’italiano negro. La bianchezza degli italiani dall’Unità al Fascismo, in Gaia Giuliani e Cristina Lombardi-Diop, Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani, Le Monnier, Milano, 2013, p. 35.

Mussie costruisce il proprio lavoro critico operando una coincidenza linguistica tra il tigrino e l’italiano, collegando la figura nazionalista italiana del “milite ignoto” alla nonna dell’artista, Milite Ogbazghi. Mentre in italiano “milite” significa soldato e si riferisce a quei connazionali che avevano “dato la vita per la grandezza della loro Italia”, in tigrino “Milite” significa “Maria”, un nome proprio che collega in una seconda coincidenza la figura della nonna – cresciuta all’indomani della colonizzazione italiana – con Maria, la mater dolorosa, che aveva perso in battaglia la “carne della sua carne”. La performance di Mussie esplora, con l’aiuto di suo fratello Sherif, l’archivio fotografico di Milite Ogbazghi e le sue memorie sull’Eritrea (tra le quali figurano i rapporti di potere tra i locali e i coloni italiani), nonché i ricordi del suo arrivo in Italia, rivelando sottilmente la violenza imperiale che ancora lega l’Italia alle sue ex colonie.

Muna Mussie, “Curva Cieca”, performance, Short Theatre 2021, Roma. Ph. Claudia Pajewski.

Il dialogo con Milite prende la forma di un’intervista impossibile, nella quale i fatti storici e la loro documentazione fotografica sono scossi da livelli emozionali e dalle coincidenze irrazionali che trasfigurano la narrazione storica fino a produrne un cortocircuito: riattivando oggetti personali e porzioni biografiche quotidiane della storia di Milite e mescolandoli a simboli dalla funzione archetipale riprodotti in un’installazione, Muna e Sherif riformulano la gerarchia tra le voci della storia, invertendo la logica di importanza tra quelle che si sono viste conferire una posizione dominante e quelle che si sono viste imporre una posizione subalterna.

Milite è la Madre, Milite è il Figlio, Milite è il Padre Simbolico.

Milite Ignoto trascina la ricerca genealogica in un territorio molto personale che non si ripiega, però, in un rigido entre-soi pre-sociale. Mussie cerca di creare dispositivi artistici temperati in cui coesistono contenuti che toccano diversi territori umani: quello dell’esistenziale, del sociale, del politico e del simbolico. In questa vicinanza e in questo attrito costante tra dimensioni normalmente separate, ciò che è intimo e privato si trasfigura per diventare pubblico e civico. Le persone coinvolte nel lavoro di Mussie sono corpi emotivi che trasudano un’esperienza, della conoscenza e un’intelligenza. Questo tipo di affettività esposta è quindi un atto politico che sfida il tabù dell’avvicinamento, del contatto e dell’empatia con i canali caldi di accesso alla storia.

In questo senso, Milite Ignoto è un esempio di monumentalità invertita, in cui quelle figure attraverso le quali «gli uomini e le donne italiane si traducevano idealmente in un insieme etnicamente omogeneo ed emotivamente unito»1010Ibid.
si fluidificano e si sgonfiano ironicamente quando Milite, in un movimento di agitazione femminista, diventa il centro del campo energetico. In questo processo di de-monumentalizzazione e ri-monumentalizzazione del valore femminile, la nonna di Mussie è l’ingranaggio centrale di un micro-sistema autarchico: Milite è la Madre, Milite è il Figlio, Milite è il Padre Simbolico, e in questa triangolazione riscrive la storia, la tiene insieme e le dà senso.

Muna Mussie, Oasi, ph. Gianluca Camporesi.

In Oasi (2018), Muna Mussie sviluppa la figura del fantasma che la nonna dell’artista evoca alla fine di Milite Ignoto, per definire lo statuto dell’esistenza di certe soggettività negli spazi urbani occidentali. Dal suo punto di vista, queste presenze spettrali sono in realtà i residui dell’opera della storia che li ha attraversati e che continua a farlo. Nelle narrazioni di Milite Ogbazghi, il fantasma si avvicina a una seconda figura che infesta la sua immaginazione, quella dell’animale selvatico che viene sistematicamente esotizzato dai desideri di possederlo. La coincidenza tra gli animali selvatici e gli umani è incarnata nella performance dalla ripetizione dell’indovinello posto dalla Sfinge egizia a Edipo, a cui egli riesce a rispondere conquistando Tebe. Il motivo “Qual è quell’animale che ha quattro gambe al mattino, due a mezzogiorno e tre alla sera?” verbalizza la figura ibrida dell’animale-uomo-oggetto che si materializzerà in diversi oggetti di scena nel corso della performance: scarpe Puma con ruote telecomandate; un Rand, una moneta sudafricana, su cui è raffigurato il volto di Nelson Mandela, che in filigrana si confonde con il profilo di un bufalo africano, disegnato sull’altro lato della banconota; uno spaventapasseri, feticcio macchinico e reificato di un umano; il logo sonoro di Twitter; e adesivi con riferimenti a loghi a forma di animale: Il coccodrillo di Lacoste, l’aquila di Armani, il cavallo di Ferrari, l’orso del Festival di Berlino, il cammello delle sigarette Camel, il guscio di petrolio di Shell, il cane a sei zampe di Eni o il coniglio di Playboy. Rendendo visibili le relazioni di espropriazione e mercificazione che legano la sfera umana a quella animale, vegetale e minerale, Oasi riflette anche sulle fobie materiali e sociali che regolano i nostri immaginari di coabitazione.1111«Aerofobia; Autofobia; Monofobia; La fobia dell’amnesia: Amnesifobia; Paura della rabbia: Angrofobia; Paura degli animali: Zoofobia; Paura degli animali, delle pelli o del pelo: Dorafobia; Paura degli animali, selvatici: Agrizoofobia; Paura di tutto ciò che è nuovo: Neofobia; Paura delle cose asimmetriche: Asimmetrofobia; Paura delle esplosioni atomiche: Atomosofobia; Paura delle automobili: Motofobia; Paura dei batteri: Batteriofobia; Paura delle persone calve: Peladofobia; Paura di fare il bagno: Ablutofobia; Paura delle barbe: Pogonofobia; Paura di andare a letto: Clinofobia; paura delle belle donne: Venustrafobia; Paura delle api: Apifobia; Paura delle biciclette: Ciclofobia; Paura degli uccelli: Ornitofobia; Paura del nero: Melanofobia; Paura del sangue: Ematofobia; Paura di arrossire o il colore rosso: Eritrofobia; Paura degli odori corporei: Osmofobia; Paura delle cose alla parte sinistra del corpo: Levofobia; Paura delle cose alla parte destra del corpo: Destrofobia; Paura dei bolscevichi: Bolscefobia; Paura dei tori: Taurofobia; Paura dei gatti: Felinofobia; Paura degli spazi celesti: Astrofobia; Paura dei cimiteri: Coimetrofobia; Paura dei cinesi: Sinofobia; Paura dell’abbigliamento: Vestifobia; Paura delle nuvole: Nefofobia; Paura del freddo, ghiaccio o gelo: Cryofobia; Paura del colore bianco: Leucofobia; Paura dei colori: Cromofobia; Paura delle comete: Cometofobia; Paura degli spazi confinati: Claustrofobia; Paura della contaminazione con sporco o germi: Misofobia; Paura dei cadaveri: Necrofobia; Paura del fenomeno cosmico: Kosmikophobia; Paura dell’umidità, dell’umidità o dei liquidi: Idrofobia; Paura del buio o della notte: Nyctophobia; Paura dell’alba o della luce del giorno: Eosofobia; Paura dell’aria: Anemofobia; Paura della rabbia: Angrofobia o Colerofobia; Paura degli animali: Zoofobia; Paura delle cose asimmetriche: Asimmetrofobia; Paura della morte: Tanatofobia; Paura delle vertigini: Illyngophobia; Paura dei cani o della rabbia: Cinofobia; Paura della visione doppia: Diplophobia; Paura di bere: Dipsofobia; Paura della polvere: Koniophobia; Paura dei tessuti: Textophobia; Paura delle armi da fuoco: Hoplofobia; Paura del pesce: Ittiofobia; Paura dei lampi: Selaphobia; Paura delle inondazioni: Antlophobia; Paura della nebbia: Nebulaphobia; Paura degli stranieri: Xenofobia; Paura delle foreste o degli oggetti di legno: Xilofobia; Paura del gelo o del ghiaccio: Pagofobia; Paura dei tedeschi: Germanofobia; Paura di fantasmi o spettri: Spettrofobia, Fasmofobia; Paura degli dei: Zeusofobia; Paura dell’oro: Aurofobia; Paura dei capelli: Tricopatofobia; Paura delle mani: Chirofobia; Paura del paradiso: Uranofobia; Paura delle altezze: Acrofobia; Paura della casa o dell’ambiente circostante: Oikofobia; Paura delle case o di essere in una casa: Domatofobia; Paura degli uragani e dei tornado: Lilapsofobia; Paura dell’ipnotizzazione: Ipnofobia; Paura dell’infinito: Apeirofobia; Paura del prurito: Acarofobia; Paura degli ebrei: Giudeofobia; Paura dell’immobilità articolare: Anchilofobia; Paura dei pidocchi: Pediculofobia; Paura di tante cose: Polifobia; Paura delle falene: Mottefobia; Paura della mancanza di coordinazione muscolare: Atassofobia; Paura del rumore: Acustofobia; Paura della notte: Noctiofobia; Paura dei nomi: Onomatofobia; Paura dei rumori o delle voci, del parlare ad alta voce o telefoni: Fonofobia; Paura della nudità: Nudofobia; Paura degli spazi aperti: Agorafobia; Paura dei parassiti: Parassitofobia; Paura del pene, erezione: Medorthofobia; Paura del pene, specialmente in erezione: Fallofobia; Paura del pene, perdere l’erezione: Medomalacufobia; Paura delle fobie: Fobofobia; Paura delle piante: Botanofobia; Paura della pioggia: Pluviofobia; Paura delle cerimonie religiose: Teleofobia; Paura dei rettili: Erpetofobia; Paura dei fiumi: Potamofobia; Paura del viaggio o dei viaggi su strada: Odofobia; Paura del mare o dell’oceano: Talassofobia; Paura di sé, essere visti o guardati: Scoptophobia; Paura del sesso: Genofobia; Paura del sesso, opposto: Eterofobia; Paura della neve: Chionofobia; Paura di alzarsi in piedi: Stasifobia; Paura di alzarsi e camminare: Stasibasifobia; Paura delle stelle: Siderofobia; Paura di affermazioni false o miti o storie: Mitofobia».
La perversione della fobia emerge qui come una forma di rifiuto e allo stesso tempo di costruzione biologica, e sembra avere assunto la funzione di mitologia contemporanea.

Muna Mussie, Oasi, ph. Gianluca Camporesi.

Proveniente dalla storia personale e familiare dell’artista, il topos dell’“oasi” è un luogo di transizione migratoria – che funge da cerniera tra gli spostamenti post-coloniali e le fughe contemporanee dall’Eritrea attraverso il Sudan – e allo stesso tempo una metafora di protezione temporanea.1212«Non so come dire… perché lì ci sono tanti animali; di notte si svegliano e tu senti i versi di tutti gli animali. Si dice che loro sentano l’odore dell’essere umano. Loro sono lì, ti circondano e tu stai lì con la paura, tutte le notti. Io avevo paura del cammello; di salire sul cammello, però alla fine era necessario perché camminare a piedi era una cosa lunga. Sono viaggi di sette giorni quelli per arrivare in Sudan. Quando mi hanno fatta salire sul cammello con mio figlio, con te, avevo paura, tremavo. Appena il cammello si è alzato, io e te insieme siamo caduti dal cammello, quella è stata una tragedia, uno shock totale per me. Pensavo di averti perso in quel momento, urlavo “mio figlio, mio figlio”. E poi tu ti sei ammalato. Abbiamo scelto l’oasi perché c’era della gente lì, era tipo un villaggio con poca gente che vive lì con gli animali. Allora abbiamo detto ci fermiamo qua, perché se morivi potevamo seppellirti lì, dove c’era un po’ di gente, abbiamo pensato così. Ci siamo fermati per due-tre giorni, ma tu non avevi voglia di morire. Allora abbiamo continuato il nostro viaggio, camminare di giorno era impossibile, ogni tanto quando trovavi tipo dei fiumiciattoli delle oasi con un po’ d’acqua ti fermavi lì per lavarti, per rinfrescarti, stavi lì un po’ a riposare e poi di nuovo si ripartiva la notte. Questi sette giorni di notte con questi animali… i suoni di quegli animali li sento ancora adesso, quei suoni che ti venivano proprio intorno… è una cosa che ti rimane dentro, è una cosa scioccante».
Come nel percorso di fuga dalla guerra, l’oasi emerge nella performance come il primo incontro con la morte e le fobie che la accompagnano. Nell’immaginario di Mussie, questa figura di rifugio e rigenerazione offuscata dall’ombra del negativo deriva da un riferimento tragico della vita reale: l’oasi di Kufra in Libia, attualmente passaggio obbligato per molti migranti africani che cercano di raggiungere le coste libiche, che ospita uno dei più importanti punti di detenzione del Nord Africa dove i migranti vengono rinchiusi, torturati e sfruttati in attesa di proseguire il loro viaggio verso l’Europa.

Nella performance di Muna Mussie, questa ambiguità tra difesa e pericolo è incarnata da una bolla gonfiabile di plastica trasparente1313«La forma della tenda a bolla trasparente è tonda, come mostra l’immagine. Il colore della tenda a bolla trasparente è trasparente. Tu e le tue famiglie potrete godervi una bella notte all’aperto nella foresta, sulle praterie, in riva al mare o anche solo nel vostro giardino. Dato che si tratta di un prodotto gonfiabile, è facile da installare e smontare, nonché facile da riporre e trasportare; in tela cerata e PVC, la tenda a bolla è molto resistente (impermeabile e ignifuga). Può sopportare alte e basse temperature. Con l’illuminazione e il sistema di riscaldamento disponibili puoi anche divertirti in qualsiasi stagione. La tenda a bolla trasparente può dare piena visibilità da ogni angolazione, quindi non è adatta solo per le attività all’aria aperta, ma è perfetta anche per eventi e spettacoli. Siamo in grado di fornirvi vari tipi di tende gonfiabili per campeggi, feste, tende da matrimonio, nonché tende da disastro o militari».
che ospita l’artista con suo fratello Sherif, e che viene solitamente commercializzata come struttura per cerimonie all’aperto, vita nella natura, ma anche per l’abitazione temporanea in zone di guerra. Questa bolla gonfiabile riassume, nella sua descrizione commerciale, il desiderio di possedere i confini che ci proteggono dai soggetti alterizzati e che paradossalmente ci permettono di avvicinarli, senza compromettersi, riducendoli a oggetti asettici pronti per una disintegrazione abusiva e violenta.

Muna Mussie, “Curva Cieca”, performance, Short Theatre 2021, Roma. Ph. Claudia Pajewski.

Oasi inizia con un video che mostra una passeggiata al santuario di Mariam Dearit, un luogo sacro che si sviluppa intorno a un albero, il baobab dei miracoli, a Keren. Si dice che durante l’occupazione italiana dell’Eritrea le truppe italiane combatterono e persero contro l’esercito britannico proprio in questo punto nel 1941. Durante il conflitto, dei soldati italiani si rifugiarono all’interno dell’albero di baobab, dove una bomba lanciata in quella direzione non esplose e salvò loro la vita. Da allora, nel baobab è stata inserita una Madonna: una Vergine nera che avrebbe salvato miracolosamente i soldati italiani e che, venerata da tutta la popolazione eritrea, è diventata meta di pellegrinaggio. In questa schizofrenia storica, il baobab era l’oasi protettiva dei soldati italiani, aggressori coloniali, responsabili della degradazione imperiale di questa terra che non li ha sacrificati. Il lavoro di Muna Mussie cerca di ricostruire questa complessità storica e di stabilire una posizione politica che rifiuta le assegnazioni (specialmente quelle razzializzanti), attraverso un lavoro che vuole rimanere difficile da codificare e da leggere. Mussie propone infatti di contrastare le strategie egemoniche di semplificazione con la tattica della stratificazione e della “chiarezza simbolica” a livello gestuale e iconografico, con la volontà di produrre allo stesso tempo un disorientamento definitorio. La ripetizione monotona di un suono, un motivo, un ritmo o delle parole crea un climax molto vicino alla noia, che permette di rimanere in una doppia condizione di coscienza e incoscienza. In questo contesto di stagnazione strategica, Mussie dispiega metodologie genealogiche matriarcali per ridurre il divario tra il racconto “oggettivo” della storia e la storicizzazione personale, e per interrompere il ritmo patriarcale e razzista dell’organizzazione coloniale del mondo.

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Autori
  • Muna Mussie
    Il lavoro dell’artista e performer Muna Mussie si muove tra gesto, visione e parola, e indaga i linguaggi della scena per dare forma alla tensione che scaturisce tra differenti poli espressivi. Inizia il suo percorso artistico nel 1998 come attrice/performer del Teatrino Clandestino. Frequenta nel 2002 il Corso Europeo di Alta formazione per l’attore, condotto da Cesare Ronconi del Teatro Valdoca; prosegue la collaborazione come attrice fino al 2010. Dal 2001 al 2005 è parte fondante del collettivo di ricerca e sperimentazione performativa Open. Dal 2007 inizia il suo percorso di artista indipendente. Il suo lavoro è stato presentato a Art Fall/PAC (Ferrara), Xing | Raum e Live Arts Week (Bologna), Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (Torino), Museo Marino Marini (Firenze), Workspace Brussels, MAMbo (Bologna), Santarcangelo Festival, Viafarini (Milano), Museion (Bolzano), Sale Docks (Venezia), Atlas of Transitions. Biennale /ERT (Bologna), Rue d’Alger - Manifesta 2020 (Marsiglia), Black History Month Florence, Archivesites (Milano), Short Theatre (Roma), Savvy Contemporary (Berlino).
  • Simone Frangi
    Ricercatore e critico d’arte operativo all’intersezione di pensiero critico, ricerca curatoriale e pratiche educative. È titolare della Cattedra di Filosofia e Teoria dell’Arte all’ESAD – Grenoble, dove ha fondato e co-dirige l’Unità di Ricerca “Pratiques d’Hospitalité”. Tra il 2013 e il 2017 è stato Direttore Artistico di Viafarini (Milano). È attualmente Curatore Associato a Centrale Fies, dove co-dirige Live Works – Free School of Performance. Dal 2013 dirige il programma di formazione curatoriale nomade A Natural Oasis?. Dal 2020 collabora come curatorial advisor di YGBI Research Residency, organizzata da Black History Month Florence. Nel 2015 è stato uno dei cinque curatori della X Edizione del Premio Furla, nel 2016 uno dei dieci curatori della XVI Quadriennale di Roma (con il progetto Orestiade italiana) e nel 2018 guest curator a Museion di Bolzano. Nel 2021 è senior curator di School of Waters – MEDITERRANEA19, curatore del Premio Gallarate a MA*GA, nominator di MAXXI BVLGARI PRIZE 2022 e tutor del progetto di ricerca VERSO presso Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.
Bibliography

Boaventura de Sousa Santos, Epistemologies of the South. Justice against Epistemicide, Paradigm Publishers, Boulder/London, 2014.

Mel Y. Chen, Agitation, «The South Atlantic Quarterly», 117:3, Duke University Press, July 2018.

Elsa Dorlin, Se défendre. Une philosophie de la violence, La Découverte, Paris, 2017.

Gaia Giuliani, Cristina Lombardi-Diop, Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani, Le Monnier, Milano, 2013.

Fred Moten, Stolen Life, Duke University Press, Durham, 2018.

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