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Squatting the Net: attivismo e digitale nelle prime esperienze italiane tra anni ’90 e 2000
Magazine, HYPER – Part I - Marzo 2020
Tempo di lettura: 19 min
Emanuele Rinaldo Meschini

Squatting the Net: attivismo e digitale nelle prime esperienze italiane tra anni ’90 e 2000

Dall’Hacker Art di Tommaso Tozzi al centro sociale degli Autistici/Inventati e la mostra AHA. Nascita e sviluppo dell’hacktivism italiano.

MAP, Tatiana Bazzichelli, Courtesy Tatiana Bazzichelli.

Nel 2004, con la mostra The Interventionists: Art in the Social Sphere (MASS Moca, Massachusetts), i curatori Nato Thompson e Gregory Sholette approntarono una prima definizione di quelle pratiche artistiche legate all’ambito dell’attivismo dividendole in quattro categorie principali:11N. Thompson, G. Sholette (a cura di), The Interventionists: Art in the Social Sphere, MASS MoCa Publications, North Adams, Massachusetts, 2004.
Nomads, Reclaim the Streets, Ready to Wear, The Experimental University.

Ognuna di queste categorie metteva in luce la fusione tra il messaggio attivista e il mezzo artistico – le cui radici storiche Sholette ritrova nel costruttivismo russo –, e vedevano la loro realizzazione specialmente in contesti non istituzionali. La strada e lo spazio pubblico si ponevano come piattaforma per eccellenza di una modalità di impegno civile che, in quei primi anni del Duemila ancora pre-social e pre-Zuckerberg, continuava a essere essenzialmente analogica, nel senso di vissuta direttamente sul piano reale, dove l’aspetto digitale aveva una funzione strumentale e in molti casi si limitava soprattutto alla documentazione.

Nonostante il contesto delle categorie attiviste di Sholette e Thompson sia ancora lontano da quello pienamente digitale nel quale ormai viviamo, sembra mancare proprio l’esperienza pionieristica di quel media-attivismo, inteso come attività politica nonché atto civile di messa in questione dello status quo, che aveva iniziato ad hackerare la scena sociale già dagli anni ’80.

L’attivismo digitale, infatti, ha una sua storia ben definita riassunta nel termine hacktivism, che la studiosa e curatrice Tatiana Bazzichelli così riassume:

«Il termine hacktivism è diffusamente accettato in Italia sin dagli anni Novanta (seguendo la tradizione del cyberpunk politico) e comprende quelle pratiche attiviste e artistiche a favore della libertà di espressione e comunicazione, in particolare in rete, ma non solo. […] L’idea dell’hacktivism come pratica di networking si dimostra comunque particolarmente riconosciuta in Italia, soprattutto per la presenza di un vasto network di movimenti che comprende all’interno artisti, hacker e attivisti del digitale vivo sin dagli anni Ottanta».22T. Bazzichelli, Networking. La rete come arte, Costa & Nolan, Milano, 2006, p. 196.

In Italia, uno dei principali protagonisti della scena di quel periodo è Tommaso Tozzi, il quale, all’interno della mostra collettiva Oratorio San Sebastiano (Forlì, 1989), ripropose lo stand del locale negozio di informatica Top Bit – Amiga Centre.33In merito si veda A. Pioselli, L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 a oggi, Johan&Levi, Milano, 2015.
Lo stand, ovviamente, esponeva un computer su cui erano riportate le informazioni riguardanti la mostra. Tra queste, Tozzi inserì il messaggio subliminale “Ribellati”, che appariva solo per una frazione di secondo. Inoltre, sul monitor compariva anche la scritta “Hacker Art”, espressione che Tozzi usava in quegli anni per riferirsi alle sue azioni. Gli anni ’80, soprattutto la seconda metà, sono un momento di particolare elettricità e fermento. La cultura cyberpunk viene portata in Italia grazie al lavoro della rivista milanese «Decoder»“…La cultura cyberpunk viene portata in Italia grazie al lavoro della rivista milanese «Decoder»” e si innesta sulla cultura emergente di un hacking decisamente politico. In quel momento, grazie alla pubblicazione di testi come Antologia Cyberpunk (1990), curata da Raffaele Scelsi e pubblicata da Shake Edizioni Underground (la stessa casa editrice della rivista «Decoder»),44T. Tozzi, Le radici dell’hacktivism in Italia. 1969-1989: dallo sbarco sulla luna alla caduta del muro di Berlino, Accademia di Belle Arti di Firenze, 2019, p. 46. Per la versione digitale del testo si veda qui. Per l’antologia si veda: R. Scelsi (a cura di), Antologia Cyberpunk, Shake Edizioni Underground, Milano, 1990. Nel 1985 Antonio Caronia pubblica il libro Il Cyborg, un testo che, seppur non indaghi direttamente il movimento hacker e il suo valore politico in relazione al rapporto con il crescente mondo digitale, risulta interessante per il tema del rapporto tra corpo dell’uomo e corpo della macchina alla luce di un nuovo immaginario sociale. In merito si veda G. Verde, La condizione di Cyborg, in Artivismo tecnologico. Scritti e interviste su arte, politica, teatro e tecnologie, BFS edizioni, Pisa, 2007.
e alla nascita a Trento del primo nodo ECN (European Counter Network), si iniziano a delineare le rotte interpretative di questa nuova cultura.

In quegli anni l’informatica e il conseguente concetto di virus diventano una metafora per esprimere e spiegare lo stato dell’arte e le sue future prospettive. È proprio su questa linea un articolo di Franco Bifo Berardi del 1988 dal titolo Arte, virus Immaginario. Il testo analizza l’elemento/oggetto panico sia come risultato di una sovrapproduzione informazionale paralizzante, sia come problema dell’attività artistica contemporanea che, in virtù dell’indecidibilità di fronte a cui si trova, opta per una comoda e anti-immaginativa mediazione con il mondo reale. Scrive Berardi:

«Virus è il portatore di un’informazione materiale che per il suo contatto produce un mutamento dell’organismo e dell’ecosistema circostante. Il trasferimento dell’informazione può essere immaginato come un contagio. Questo vale nell’organismo simbolico non meno che nell’organismo fisico. Vale non meno nell’organismo sociale che in quello biologico. […] Si può porre il problema dell’arte nei termini di una metafora virale (ma si tratta poi solo di una metafora?)».55F. Berardi, Arte, virus immaginario, in F. Berardi, F. Bolelli (a cura di), Presagi. Arte e immaginazione visionaria negli anni ’80, Agalev, Bologna, 1988, pp. 76-80.

La definizione di hacktivism, che prenderà piede soprattutto negli anni ’90, deriva infatti dall’unione dei termini Activism-Hacking-Artivism. Il concetto alla base è la volontà e la necessità di creare network, una rete di condivisione, come dimostrato, del resto, dall’importanza della mailing list intesa come strumento di aggregazione e «luog[o] di riflessione sul network».66S. Pisano, Hacktivism, Hacker art, disobbedienza civile elettronica, «LuxFlux», 37, 2009 (ultimo accesso: 29 marzo 2020).

AHA: Activism, Hacking, Artivism Making Art Doing Multimedia, Opening exhibition, MLAC (Museo Laboratorio Arte Contemporanea, Università Sapienza), Roma, 8 febbraio 2002. Courtesy Tatiana Bazzichelli.

Tra questi progetti di network va segnalato AHA, ideato nel 2001 da Tatiana Bazzichelli. Ad oggi, AHA offre un archivio dell’evoluzione dell’hacktivism, avvenuta tra il 2000 e il 2008 a livello sia istituzionale che indipendente, in particolare attraverso le esperienze tra Italia e Germania:

«AHA si basa sulla creazione di un network in costante mutazione realizzato da soggetti sempre diversi e attivato dalla contaminazione/integrazione di molteplici media ed eventi, in cui il filo conduttore è la sperimentazione artistica, l’hacktivism e la net art. AHA: Activism-Hacking-Artivism si focalizza sulle collettività attiviste in Italia e all’estero che usano i nuovi media in forma indipendente, evidenziandone le diverse modalità d’azione. AHA agisce secondo questo scopo nella creazione di eventi e mostre, convegni e workshop, e mediante lo scambio di progetti e idee attraverso la mailing list aha@lists.ecn.org, mailing list internazionale sull’attivismo artistico, in cui vi partecipano circa 600 iscritti (la mailing list nasce il 30 dicembre 2002). AHA è anche un sito web, www.ecn.org/aha […] che funge da vetrina di tutte queste attività e offre spazio per i progetti artistici emergenti, che vogliono essere ospitati nel server di Isole nella Rete (server che dà spazio anche al progetto AHA)».77Il testo è tratto dal sito www.ecn.org/aha, in cui è presenta tutta l’attività espositiva del progetto, nonché la mailing list (ultimo accesso: 23 marzo 2020).

Ancora oggi la mailing list AHA, seppur in forma minore, è attiva.

Il primo progetto AHA fu presentato nel febbraio del 2002 presso il MLAC di Roma (Museo Laboratorio Arte Contemporanea, Università Sapienza) e seguiva quelli che erano stati i primi quattro incontri dell’Hackmeeting in cui l’hacktivism prese una forma maggiormente consapevole soprattutto a livello di network “fisico”. Il primo Hackmeeting si svolse nel 1998 a Firenze, presso il CPA (Centro Popolare Autogestito Firenze Sud, 5-7 luglio). Il secondo a Milano (1999), poi successivamente a Roma (2000) e Catania (2001). Per Hackmeeting si intende:

«[…] In Italia, l’appuntamento delle controculture digitali. Si svolge su base annua e vi partecipano le comunità e le individualità che si pongono in maniera critica e propositiva rispetto alle nuove tecnologie. Hackmeeting è, in buona sostanza, una tre giorni di seminari, dibattiti, scambio di idee, apprendimento collettivo, giochi e feste, ospitata tradizionalmente all’interno di spazi autogestiti – centri sociali e luoghi occupati».88Hackmeeting, in Glossario, in L. Beritelli (a cura di), Autistici&Inventati. +Kaos. 10 anni di hacking e mediattivismo, Autistici/Inventati, Agenzia X, Firenze-Milano, 2012. Il libro è scaricabile al sito: https://www.autistici.org/who/book.

AHA: Activism, Hacking, Artivism Making Art Doing Multimedia, Opening exhibition, MLAC (Museo Laboratorio Arte Contemporanea, Università Sapienza), Roma, 8 febbraio 2002. Courtesy Tatiana Bazzichelli

La mostra-evento prese il nome di AHA: Activism, Hacking, Artivism “Making Art Doing Multimedia”, e come avverrà in seguito, per esempio con il caso del movimento Occupy Wall Street (2011), la fusione tra hacking e attivismo nasceva da una situazione sociale di aperto conflitto come quella immediatamente successiva al G8 di Genova (2001). Retrospettivamente si potrebbe dire, sulla scorta anche delle testimonianze di uno dei collettivi più influenti di quel periodo come Autistici/Inventati, che la decade 2001-2011 ha rappresentato forse il periodo di massima diffusione di una pratica attivista del digitale che, in piena sintonia con le necessità “della strada”, usava il medium Internet in maniera ancora analogica, ovvero piegava in senso positivo la tecnologia a un messaggio ben preciso, mentre le conoscenze che trasferiva al mondo digitale erano ancora di tipo unilaterale. Del resto, in quella decade, anche sulla spinta di un immaginario filmico narrativo anni ’80-’90, la macchina doveva servire l’uomo, e i due mondi dovevano ritenersi essenzialmente separati dal momento che tutte le fusioni sino a quel momento presentate, da Johnny Mnemonic a Tetsuo passando ovviamente per Wargames e Terminator, non erano “incoraggianti”. Il rapporto con la tecnologia nel periodo di fine anni ’90 e inizio Duemila ha vissuto pertanto in bilico tra il fermento, dovuto alla nascita del movimento no global, e lo scetticismo figlio di un cambio di guardia generazionale che la “svolta” digitale stava accelerando. La difficoltà ad accettare questa svolta non derivava solo dal suo lato tecnico ma anche, e soprattutto, da quello contenutistico.99In merito a ciò basta riportare le vicende del gruppo Inventati di Firenze e il racconto dei loro anni pionieristici in merito alla diffusione della consapevolezza digitale: «Inventati deve insistere moltissimo con i gruppi, i centri sociali, le case occupate e i collettivi per convincerli a utilizzare la nuova tecnologia. Ci si scontra con una diffidenza enorme sui nuovi mezzi di comunicazione, a partire dal Cecco stesso [centro sociale fiorentino, N.d.R.], che non solo è base operativa del gruppo, ma essendo frequentato da giovani e giovanissimi, dovrebbe rappresentare un luogo d’aggregazione dalla maggiore apertura mentale», in Beritelli, cit., p. 94.

AHA: Activism, Hacking, Artivism Making Art Doing Multimedia, Opening exhibition, MLAC (Museo Laboratorio Arte Contemporanea, Università Sapienza), Roma, 8 febbraio 2002. Courtesy Tatiana Bazzichelli.

La visione che proponeva del resto AHA: Activism, Hacking, Artivism “Making Art Doing Multimedia” esprimeva e metteva in luce l’evoluzione del concetto di autogestione espresso dalla logica del Do It Yourself tipica della produzione artistica at large degli anni ’70, poi rafforzato dalla cultura punk degli anni ’80 e successivamente sviluppato dal fenomeno dei centri sociali dei ’90 e dal ruolo dei Media Center nati grazie ai movimenti no global di inizio 2000. La mostra-evento, senza voler cadere a sua volta nella creazione di categorie, si sviluppò attraverso performance, video, broadcasting radio e postazioni Internet, «1 computer con interfaccia che rappresenta la rete dei siti dei diversi collettivi/soggetti coinvolti, con possibilità di collegamento online».1010http://www.strano.net/bazzichelli/aha_project.htm (ultimo accesso: 23 marzo 2020).
Si trattava di una critica dal basso sorretta dall’idea della creazione di una rete come opera d’arte. La sezione video era suddivisa in Activism, Hacking e Artivism, ognuna registrata e presentata su una videocassetta dedicata. Nella sezione video, i contributi erano incentrati sul G8 di Genova e sull’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001: questo perché il mezzo digitale – in questo caso “paleodigitale”, parafrasando la definizione di Umberto Eco di “paleotelevisione” – era inteso essenzialmente come strumento di controinformazione e, soprattutto, di autogestione della comunicazione:

«Partendo dal presupposto che oggi più che mai la realtà sociale è interpretabile attraverso i meccanismi di costruzione dell’immaginario e che i processi economici e politici sono strettamente correlati alla rappresentazione mediatica di questa realtà, si vuole presentare un modo di fare informazione al di fuori delle logiche di profitto, e di conseguenza un modo diverso di affrontare il presente. E questo è possibile andando ad agire direttamente all’interno dei circuiti mediatici e all’interno delle stesse strategie comunicative, comprendendone la logica e appropriandosene in maniera critica».1111http://www.strano.net/bazzichelli/aha_project.htm (ultimo accesso: 23 marzo 2020).

AHA: Activism, Hacking, Artivism Making Art Doing Multimedia, Opening exhibition, MLAC (Museo Laboratorio Arte Contemporanea, Università Sapienza), Roma, 8 febbraio 2002. Courtesy Tatiana Bazzichelli.

Questo paleodigitale assumeva dunque valore in qualità di strumento, e non come fine ultimo. Tra i collettivi partecipanti alla sezione Activism sono presenti alcuni dei gruppi che hanno contribuito a creare la storia del movimento, come Tactical Media Crew (TMC), Strano Network e Autistici/Inventati. In particolare TMC, «collettivo di militanti attivisti/e che dal 1995 sino ai primi anni 2000 si è speso per diffondere l’utilizzo dei media fai-da-te dentro i movimenti»,1212https://www.tmcrew.org (ultimo accesso: 24 marzo 2020).
individuava come interlocutori soprattutto i centri sociali, i collettivi femministi, le radio alternative e appartenenti ai movimenti, i Cobas. Lo scopo di TMC – una delle prime realtà antagoniste, insieme a Malcom X (Roma) e Strano Network (Firenze), a gestire un sito – era quello di portare nel mondo digitale, quindi essenzialmente estendere il messaggio a più persone possibili, le modalità e le logiche del centro sociale. Il digitale era visto come mezzo, ed essendo la rete un medium nuovo e in costruzione rappresentava il luogo adatto per la creazione di una controcomunicazione al di fuori dei canali dei media tradizionali.

Il riferimento al tactical media offre, poi, la chiave di lettura per capire la fusione complementare  tra un certo tipo di attivismo, maggiormente propenso alla comunicazione visuale e alla ricerca del senso estetico dell’immagine, e un certo tipo di pratica artistica, maggiormente interessata, invece, all’impegno politico/civile e al senso etico. Il tactical media infatti, negli anni Duemila, diventa una categoria artistica, come riportano anche Thompson e Sholette nella loro mostra del 2004. Il termine deriva dal collettivo statunitense Critical Art Ensemble fondato nel 1987, e in particolare dal loro testo The Electronic Disturbance (1994), tradotto in italiano in Disobbedienza civile elettronica e altre idee impopolari: come sopravvivere e resistere nella società del controllo, pubblicato da Castelvecchi nel 1998.

In quell’esatto momento, l’hacktivism, più che un’azione politica attraverso il digitale, sembra il tentativo di un gruppo di autonomi di occupare una nuova piattaforma ancora non reclamata. Del resto, non è un caso se molte tecniche dell’hackitivism prendano il nome di azioni attiviste come sciopero (strike) e occupazione (squat), trasformandole in “netstrike” e “cybersquatting”.1313«L’idea alla base del netstrike è quella di realizzare dei sit-in virtuali. La dinamica con cui si sviluppa è sempre quella di far convergere su un sito web un numero di utenti tale da creare un rallentamento nell’accesso al sito stesso e la logica cui si ispira è quella dei sit-in di strada che hanno l’effetto di rallentare il traffico di uomini e mezzi. L’obiettivo è quello di manifestare il proprio dissenso in maniera simbolica, spesso in concomitanza con proteste di altra natura, nelle strade, nelle scuole e negli uffici pubblici. Come i sit-in di strada anche i sit-in virtuali “non provocano danni al pavimento” e, come quelli, inducono i passanti a porsi delle domande per il fatto stesso che ci sono, per avviare una comunicazione con i passanti stessi e destare l’attenzione dei media. I sit-in virtuali sono solo una leva simbolica per suscitare l’attenzione distratta delle persone e la loro natura digitale, come le modalità di attuazione, devono essere considerate solo un fattore secondario rispetto ai motivi della protesta. Quello che conta in un netstrike, insomma, non è l’efficienza tecnica ma l’efficacia simbolica e comunicativa. Nei netstrike il blocco totale del sito è solo un effetto collaterale della protesta, che ha invece il suo primo obiettivo nel far conoscere alle comunità presenti in rete un problema ignorato o distorto dagli organi di informazioni ufficiali. Nei netstrike quello che più conta è la comunicazione dei motivi e degli obiettivi della protesta affinché le persone possano prendere coscienza di fatti gravi come la violazione dei diritti nel proprio paese o all’altro capo del mondo».  T. Tozzi, in Tecnologia militante. Speciale netstrike, Cut-Up, 2, La Spezia, 2001.

Un esempio di netstrike è stata l’operazione 214T realizzata nel 2000 da Giacomo Verde e Tommaso Tozzi. I due artisti, chiamati a partecipare a una mostra a Firenze in occasione delle celebrazioni per la ricorrenza della promulgazione della prima legge contro la pena di morte da parte del Granduca nel 1786, decisero di realizzare un netstrike contro la pena di morte prendendo di mira i siti del Governo e del Ministero della Giustizia del Texas. Il progetto, inizialmente selezionato dal comitato scientifico, non venne appoggiato dal Consiglio Regionale. Verde e Tozzi, ritiratisi dalla mostra, decisero di realizzare una sorta di contro-sciopero, questa volta contro la censura, invitando tutti gli utenti a inviare e-mail creative di protesta. Parallelamente all’apertura della mostra, fu dato avvio al netstrike da una postazione della libreria Feltrinelli di Firenze:

«Il netstrike 214T contro la pena di morte HA FUNZIONATO, ricevendo la partecipazione di migliaia di utenti da tutto il mondo. A causa del ripetuto clic del lunghissimo corteo di “visitatori”, il sito dello Stato del Texas non era accessibile dall’Italia dalle ore 18:00 alle ore 19:00, e il sito del Dipartimento di Giustizia Criminale del Texas è stato vistosamente rallentato sino al blocco quasi totale».1414G. Verde, Dal 214T al NO-CENS 214T, in Verde, cit., p. 38.

Sulla stessa linea di TMC fu anche il collettivo Autistici/Inventati (A/I), presente anch’esso nella sezione Hactivism di AHA, nonché figura centrale per capire la cultura dell’hacking in Italia e la formazione dei primi hack lab sul finire degli anni ’90. Il primo hack lab italiano, il LOA a Milano (1999), viene definito come iperluogo.

Dal loro manifesto del 2002 – anche se la fondazione del gruppo risale al 2001 con l’impostazione del primo server chiamato Paranoia – si evince la volontà di usare la rete come attivatrice di scambi sociali “reali”, soprattutto si percepisce una visione di Internet come luogo fisico, spazio da occupare e difendere, ancora vuoto e quindi zona temporaneamente autonoma. Il concetto di T.A.Z. (temporaray autonomous zone), teorizzato dallo scrittore e anarchico Hakim Bey, rispecchia l’occupazione della rete proprio nel tentativo di liberazione attraverso la creazione del dubbio generato dall’informazione alternativa. L’informazione genera una crepa nel sistema, e quella falla temporanea offre la possibilità di riprogrammazione.

A/I unisce due parti di uno stesso movimento che sino a quel momento sembravano inconciliabili. La sezione milanese del gruppo (Autistici) si occupava dell’aspetto tecnico, mentre quella fiorentina (Inventati) di quello comunicazionale, per il quale furono utilizzate prime tattiche di guerriglia “marketing” dal sapore situazionista, come la campagna di scritte sui muri “inventati.org”.

AHA: Activism, Hacking, Artivism Making Art Doing Multimedia, Opening exhibition, MLAC (Museo Laboratorio Arte Contemporanea, Università Sapienza), Roma, 8 febbraio 2002. Courtesy Tatiana Bazzichelli.

In quel periodo A/I è testimone e in un certo senso partecipe della nascita di un collettivo “iper” artistico come quello di Luther Blisset, che viene definito, in senso bonario dagli stessi Inventati, come un gruppo di “disgraziati” che, intuite le possibilità delle nuove forme di comunicazione, cominciò a usarle per avviare un discorso critico che andava oltre il mezzo stesso. Nella seconda metà degli anni ’90 diventano famosi gli “hackeraggi” di Luther Blisset ai maggiori sistemi di comunicazione“…Nella seconda metà degli anni ’90 diventano famosi gli “hackeraggi” di Luther Blisset ai maggiori sistemi di comunicazione”, come giornali e televisioni. In particolare, sulla scia del dubbio “creatore” di Hakim Bey, iniziano a essere diffuse una serie di notizie false come la scomparsa dell’artista Harry Kipper, “quasi” andata in onda nel programma Chi l’ha visto?, e la notizia, riportata dal «Resto del Carlino», di Naomi Campbell in visita a Bologna per un intervento di chirurgia estetica.1515In merito alla vicenda Chi l’ha visto?. Era il 1995, e la storia costruita riguardava la scomparsa plausibilmente vera dell’artista Harry Kipper durante il suo progetto psico-geografico di scrittura della parola “ART” in bicicletta tracciando una linea immaginaria tra diverse città d’Europa. La sparizione dell’artista fu avvalorata da una serie di dichiarazioni di artisti e conoscenti che, attraverso una costruzione ad hoc, riuscirono a far comparire la notizia su diverse testate giornalistiche locali. La notizia giunse quindi alla redazione del programma Chi l’ha visto? che, affascinata dal personaggio di Kipper, decise di recarsi a Bologna, dove parte di Luther Blisset risiedeva. La troupe girò diverse ore di materiale, ma il sentore che la storia di Kipper potesse rivelarsi in realtà una bufala, seppur affascinante, fece sì che la puntata non venisse prodotta e messa in onda. Per approfondire il rapporto tra arte e televisione si veda: E. R. Meschini, Christoph Schlingensief e la performance reality. Freak Stars 3000, U 3000, Bitte liebt Österreich (o del corpo della televisione), in G. Manzoli, C. Marra (a cura di), L’arte mediata: dal Critofilm al Talent Show, «Piano B», Università di Bologna, 3, 2, 2018. Riguardo invece alla querelle tra «il Resto del Carlino» e «Repubblica», nata dopo il caso Campbell, si veda: http://www.lutherblissett.net/archive/115_it.html
Il rapporto tra A/I e Luther Blisset si deve, in particolare, alla figura di Void, membro del gruppo bolognese di Luther che, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del Duemila, aveva ottenuto la gestione del dominio Indymedia, vale a dire la prima rete di comunicazione indipendente nata per sostenere il movimento no global dopo gli episodi di Seattle (1999). In quegli anni Indymedia aveva bisogno di contenuti, così vari gruppi di attivisti italiani decisero di usarla come piattaforma di network e scambio, documentando in diretta le proteste di piazza nonché le attività ordinarie dei vari movimenti sociali.

I primi anni del Duemila sono momenti molto intensi, vista l’interdipendenza tra piazza e rete.

Il tema dell’“hackeraggio” comunicazionale e l’alterazione dei sistemi di informazione istituzionale interessano diversi artisti come, per esempio, il duo Eva & Franco Mattes. In particolare, il progetto vaticano.org del 1998 propone la ricostruzione mimetica del sito della Santa Sede con l’inserimento di alcune piccole modifiche che solo una ricerca più attenta è in grado di cogliere. Nella sezione relativa alla biografia di papa Giovanni Paolo II viene riportato:

«Alle ore 17:19 del giorno 13 maggio 1981, Giovanni Paolo II resta vittima di un attentato, perpetrato da un giovane bastardo turco di nome Alí Agca, mentre compie il consueto giro sulla campagnola bianca, prima dello svolgersi dell’Udienza Generale in Piazza San Pietro. Gravemente ferito e infuriato, il papa è ricoverato al Policlinico Gemelli dove rimane in Sala operatoria per sei ore».1616http://0100101110101101.org/files/vaticano.org/holy_father/phf_it.htm (ultimo accesso: 27 marzo 2020).

Nella sezione Archivio/Documenti del Concilio Vaticano II/Decreti, alla voce Ad Gentes – anche se i contenuti cambiano continuamente –, si può leggere il Decreto Inter Mediatica sugli Strumenti di Comunicazione. In particolare si veda il punto 8, La Santa Opinione pubblica:

«Poiché il Mercato Santo e la Grande Chiesa Catodica influenzano le opinioni dei cittadini di ogni categoria sociale, è necessario che tutti i membri della società compiano, anche in questo campo, i loro doveri di disobbedienza civile ed elettronica in modo da sabotare questo Piano di Conquista Totale. Perciò tutti si adoperino, mediante l’uso di questi strumenti, alla formazione e diffusione di reti e di opinioni libere».1717http://0100101110101101.org/files/vaticano.org/archive/par_it.htm (ultimo accesso: 27 marzo 2020). Il contenuto della pagina cambia a ogni clic, quindi la fonte è “instabile”. Tuttavia la sezione è corretta, ma trovare la specifica pagina in questione potrebbe richiedere diversi tentativi.

Tornando al manifesto di A/I, si legge:

«Il nostro obiettivo è liberare degli spazi sulla rete, dove discutere e lavorare su due piani: da un lato, il diritto/bisogno alla libera comunicazione, alla privacy, all’anonimato e all’accesso alle risorse telematiche, dall’altro i progetti legati alla realtà sociale. […] Inventati è la parte che cerca di riprodurre nel digitale le questioni che appartengono al reale: attraverso siti web, oppure creando ambiti di discussione che esistono già ma che sono collocati in uno spazio fisico quotidiano (per esempio un’assemblea può essere riprodotta attraverso la creazione di una mailing list che la rende, in questo modo, permanente e onnipresente). Autistici, invece, parte da una base tecnica e dalla passione per la conoscenza dei mezzi utilizzati per sviscerare la politicità implicita negli strumenti telematici; questi strumenti nascono nel digitale, ma non per questo sono privi di un impatto politico. Partiamo dagli strumenti, ma approdiamo a rivendicazioni politiche ben precise, nel terreno del digitale e da qui fino all’ambito reale. Tutte le questioni che riguardano i diritti elencati prima sono un esempio delle richieste politiche che interessano la Rete».1818https://www.autistici.org/who/manifesto (ultimo accesso: 28 marzo 2020).

Dato questo contesto di base, la parte più attivista del mondo artistico inizia a interagire in maniera sempre più diretta sposando la visione di un digitale finalizzato all’azione in “ambito reale” e distaccandosi dalla definizione troppo onnicomprensiva di net art. Le prime rassegne incentrate sull’hacktivism rappresentano pertanto la costituzione fisica di quei network digitali all’interno dei quali artisti, attivisti e hacker iniziano a impostare un linguaggio comune.

Proprio Tatiana Bazzichelli organizza a Berlino, nel 2005, la rassegna Hack.it.artHacktivism in the Context of Art and Media in Italy (14 gennaio – 15 febbraio), presso il Kunstraum Kreuzberg, ovvero lo spazio artistico realizzato all’interno dell’ex-ospedale Bethanien per anni occupato e simbolo della comunità turca. Nella rassegna vengono presentati workshop, dibattiti, eventi e video sulla scena indipendente digitale italiana. A questo evento-mostra seguirà, sempre a cura di Bazzichelli e sempre a Berlino, Arte in rete in Italia. Dalla new media art all’arte degli hacker (19 aprile – 19 luglio). L’evento fu organizzato attraverso una serie di 7 incontri in cui si discussero temi come “la storia della cultura digitale in Italia”, “il digitale al femminile” e “arte in rete in Italia”.

I primi anni del Duemila sono momenti molto intensi, vista l’interdipendenza tra piazza e rete, e allo stesso tempo anche molto fragili. L’esplosione del web e la fine del movimento no global segnano un progressivo affievolirsi del sogno di una rete libertaria e di una comunicazione liberata. Indymedia perde il suo valore e viene fagocitata dai media stessi. Il server autogestito crolla, così come l’idea alla base dell’autogestione, di fronte all’ottimizzazione dei servizi e alla facilità di accesso. L’autogestione risulta troppo complessa per un web commerciale, e la cessione di dati in cambio di accessibilità diventa la strada più praticata.

Riguardo a questo periodo, Laura Beritelli scrive:

«Nella seconda metà della prima decade del nuovo millennio si inizia a intuire più chiaramente quali sono gli interessi in gioco sullo scacchiere della rete. Internet sembra destinata a due principali funzioni: veicolare informazioni, costruire comunità. Passata la fase pionieristica in seguito all’entrata in gioco dei grandi capitali e di centinaia di milioni di utenti, le questioni in campo diventano queste, inserite in un processo dialettico piuttosto complesso, e totalmente in fieri, dove gli esiti non sono evidenti, né scontati».1919Beritelli, cit., p. 207.

Una ripresa del movimento hacktivista è avvenuta, del resto, proprio in coincidenza con i nuovi movimenti sociali che hanno seguito la crisi finanziaria del 2008. In particolare, negli Stati Uniti si sviluppa il movimento Occupy Wall Street (2011) e in Spagna il movimento 15M (2011). La differenza da quel primo hacktivismo di fine anni ’90 e inizio 2000, però, si è dimostrata sin da subito profonda ed evidente, soprattutto se consideriamo la differenza tra il concetto underground che aveva contraddistinto quella prima ondata e quello mainstream, invece, che ha direzionato la seconda. La controinformazione e la piazza stessa sono state, infatti, velocemente cooptate“…La controinformazione e la piazza stessa sono state, infatti, velocemente cooptate” in un processo di svuotamento che ha dimostrato, purtroppo, la pochezza e la generalizzazione dei contenuti. Si è passati, così, dai centri sociali autogestiti alle vetrine artistiche più acclamate. Nel 2012, in qualità di progetto artistico-politico, Occupy è stato invitato contemporaneamente alla Biennale di Berlino (Forget the Fear) e a Kassel, per l’edizione di Documenta 13. Secondo l’analisi di Sebastian Loewe espressa nel suo When Protest Becomes Art: The Contradictory Transformations of the Occupy Movement at Documenta 13 and Berlin Biennale 7, pubblicato sul primo numero della rivista «FIELD» (2015), queste esposizioni hanno depotenziato il valore dell’attivismo politico espresso nelle occupazioni newyorkesi di Zuccotti Park e Wall Street.2020Al riguardo si veda S. Loewe, When Protest Becomes Art: The Contradictory Transformations of the Occupy Movement at Documenta 13 and Berlin Biennale 7, in «FIELD. A Journal of Socially Engaged Art Criticism», 1, Spring 2015.
Per la Biennale di Berlino e Documenta gli attivisti non hanno occupato uno spazio specifico per rimarcare una protesta altrettanto specifica, bensì hanno usato e riconosciuto un luogo e le sue norme per promuovere un discorso non più di opposizione ma di promozione. Questo atteggiamento, se da una parte ha messo in luce (la quasi) impossibilità della protesta come atto non riconosciuto ed extralegale – se il vero obiettivo della presenza di Occupy a Kassel e Berlino fosse stato questo non si sarebbe potuto obiettare nulla –, dall’altra ha dimostrato la generale confusione a livello di programmazione politica dell’intero movimento che, a fronte di un’orizzontalità in continua apertura dialogica, non ha saputo veicolare e creare una propria identità distinta, necessitando del riconoscimento del mondo artistico come alternativa al mancato riconoscimento in campo sociale e politico. La piazza e la rete hanno dimostrato una loro scollatura o, per meglio dire, una rete di tipo analogico ha dimostrato di non essere più né mezzo né messaggio sufficientemente forte per una società onlife.

Opening della mostra AHA: Activism-Hacking-Artivism, MLAC, Museo
Laboratorio di Arte Contemporanea, Roma, 8 Febbraio 2002.
Video intervista by InteracTV (Roma). Autore: Dario Scavelli, Featuring:
Tatiana Bazzichelli. Camera: Cristina Sammartano, Editing: David Urbinati

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di Emanuele Rinaldo Meschini
  • Emanuele Rinaldo Meschini è critico e storico dell’arte, PhD in Storia dell’arte contemporanea presso l’Università Ca’Foscari, Venezia. Ha collaborato per la rivista Contemporart con la rubrica Arte Sociale e approfondito lo studio dell’attivismo artistico presso l’Archivio Crispolti, Roma. Curatore in residenza presso Node Center e ZK/U a Berlino, ha curato Declinazioni di Comunità presso il Museo Etnografico Luigi Pigorini, Roma. Con Luca Resta ha ideato il progetto AUTOPALO, indagando le tecniche e le modalità della partecipazione sociale attraverso progetti legati al calcio. Collabora con Radio Ca'Foscari per il programma sportivo Palle di Cuoio.
Bibliography

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F. Berardi, F. Bolelli (a cura di), Presagi. Arte e immaginazione visionaria negli anni ’80, Agalev, Bologna, 1988.
L. Beritelli (a cura di), Autistici&Inventati. +Kaos. 10 anni di hacking e mediattivismo, Autistici/Inventati, Agenzia X, Firenze-Milano, 2012.
S. Loewe, When Protest Becomes Art: The Contradictory Transformations of the Occupy Movement at Documenta 13 and Berlin Biennale 7, in «FIELD. A Journal of Socially Engaged Art Criticism», 1 Spring 2015.
E. R. Meschini, Christoph Schlingensief e la performance reality. Freak Stars 3000, U 3000, Bitte liebt Österreich (o del corpo della televisione), in G. Manzoli, C. Marra (a cura di), L’arte mediata: dal Critofilm al Talent Show, «Piano B», Università di Bologna, 3, 2, 2018.
A. Pioselli, L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 a oggi, Johan&Levi, Milano, 2015.
S. Pisano, Hacktivism, Hacker art, disobbedienza civile elettronica, «LuxFlux», 37, 2009.
R. Scelsi (a cura di), Antologia Cyberpunk, Shake Edizioni Underground, Milano, 1990.
N. Thompson, G. Sholette (a cura di), The Interventionists: Art in the Social Sphere, MASS MoCa Publications, North Adams, Massachusetts, 2004.
G. Verde, Artivismo tecnologico. Scritti e interviste su arte, politica, teatro e tecnologie, BFS edizioni, Pisa, 2007.
T. Tozzi, Le radici dell’hacktivism in Italia. 1969-1989: dallo sbarco sulla luna alla caduta del muro di Berlino, Accademia di Belle Arti di Firenze, 2019.