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Il perturbante: dall’Uomo di Sabbia all’Uncanny Valley
Magazine, POST - Part II - Marzo 2017
Tempo di lettura: 17 min
Valeria Minaldi

Il perturbante: dall’Uomo di Sabbia all’Uncanny Valley

Il sentimento del perturbante in relazione al corpo umano e alla sua riproduzione: dall’osservazione e deformazione alla robotica e all’iperrealismo.

Jesse Kanda, dal video TRAUMA Scene 1, 2013.

«The human desire for the intellectual mastery of one’s environment is a strong one.
Intellectual certainty provides psychical shelter in the struggle for existence. However it came to be, it signifies a defensive position against the assault of hostile forces, and the lack of such certainty is equivalent to lack of cover in the episodes of that never-ending war of the human and organic world for the sake of which the strongest and most impregnable bastions of science were erected».
(Ernst Jentsch)

Nel 1906 Ernst Jentsch pubblicò, sotto forma di saggio, le sue personali riflessioni sul sentimento del perturbante, introducendo così il concetto in psicologia. Lo scritto, intitolato appunto Riguardo la psicologia del perturbante (Zur Psychologie des Unheimlichen), solleva interrogativi e stimola la necessità di indagare un fenomeno psicologico tanto comune e, per questo, ampiamente e consapevolmente già presente nella letteratura e nell’arte. L’analisi di Jentsch parte dell’etimologia della parola stessa, unheimlichen, che significa ‘non a casa’, ‘non comodo’, ‘estraneo’, in quanto si contrappone all’originario heimlich, ovvero ‘familiare’. A ricalcarne il significato letterale, lo psichiatra descrive il sentimento del perturbante come un’improvvisa mancanza di orientamento dovuta alla percezione di qualcosa di strano e inconsueto. Il perturbante si manifesterebbe, quindi, nell’esperire una situazione di incertezza. Il problema principale nell’indagine di tale sentimento è la sua altissima variabilità in funzione di sensibilità, stati di coscienza e contesti. Ovviamente, infatti, un oggetto non provoca automaticamente la stessa reazione perturbante in tutti e ogni qual volta venga percepito. Ognuno presenta una propria misura del senso di perturbante e, questa, varia a seconda del momento della percezione. In ogni caso è comunque possibile definire le caratteristiche generali di tale sentimento: elemento fondamentale che influenza il processo è la recezione del nuovo. Il cervello umano tende ad accogliere con diffidenza ciò che non risulta né familiare né comprensibile, e questa cresce in relazione inversamente proporzionale con la facilità d’ancoraggio, ovvero con la quantità di associazioni mentali che aiutano la comprensione. Per predisposizione personale, sviluppi cognitivi e differenze nel vissuto, si tende a essere più o meno misoneisti, e ciò influenza direttamente la nostra impressionabilità rispetto a un evento incomprensibile. Per alcuni, uno stimolo può provocare un sentimento perturbante tanto intenso da rendere inaccettabile la percezione e spingere all’evitamento. La cosa più interessante è che l’effetto tende a perdurare e a influenzare anche dopo che vi è stata una decodificazione dell’elemento. Jentsch ci riporta come esempi di volubilità cognitiva la mente dei bambini o di adulti poco inclini al nuovo perché particolarmente abituati a un certo contesto, ma anche di individui in dormiveglia o in particolari stati psicofisiologici. Tali condizioni rendono la mente più soggetta all’inquietudine del sentimento del perturbante. Il punto non è quindi l’elemento sconosciuto ma la nostra reazione alla necessità di decifrarlo. Il perturbante subentra quando questa operazione si presenta come particolarmente difficile. Una sorta di confusione dovuta alla mancanza di riconoscimento di indizi utili all’analisi.

La categoria che più si contraddistingue come perturbante per gli esseri umani è quella che conta stimoli che ci spingono all’incertezza della loro natura vivente o inanimata. Quando l’indecifrabilità si protrae a lungo a causa dell’ambiguità dello stimolo, il sentimento del perturbante tende a degenerare in vero terrore. Questo in quanto la mente cerca di spiegarsi compiutamente gli elementi circostanti per individuare eventuali minacce. L’ambiguità di un oggetto che sembra inanimato ma che appare capace di movimento volontario, o un oggetto che somiglia enormemente a un essere vivente ma che si rivela essere il contrario risulta abbastanza difficile da concepire. Ciò spiega l’inquietudine atavica provocata da bambole, manichini, statue di cera, automi ma anche da elementi prettamente umani su oggetti inanimati e viceversa. Ampiamente condiviso è anche il turbamento provocato dalle conseguenze di alterazioni cognitive o patologie che portano un essere vivente a muoversi in maniera innaturale rompendo ‘la relativa armonia psichica’ che ci contraddistingue. Per tale motivo anche l’epilessia o le manifestazioni di isteria sono in grado di perturbarci. Si arriva persino a percepire come disturbanti certe illusioni pareidolitiche eccessivamente simili a viventi, o azioni e situazioni ripetute tanto che certe persone vi attribuiscono retroscena mistici e motivi di superstizione. Per sottrarsi a tale sentimento, l’oggetto deve essere convertito da straniero in familiare, ma tale operazione necessita di un lavoro inconscio e non solo razionale. Generalmente, l’essere umano, come altri animali, ha necessità di esplorare sensorialmente e in modo completo l’oggetto, quindi per esempio aggiungendo alla vista i sensi del tatto e dell’olfatto. Jentsch sostiene comunque che nella fruizione artistica il sentimento del perturbante sia meglio tollerato e, anzi, quasi ricercato. Come accade, per esempio, in tutta quella letteratura che utilizza l’ambiguità come principale veicolo di coinvolgimento. Nella vita reale il perturbante attiva uno stato d’allarme e provoca una serie di sgradevoli conseguenze emozionali; rapportarsi con elementi artistici permette, invece, quasi uno sfogo di questo potente stato di eccitazione. Anche tali gusti ‘artistici’ e talvolta ludici dipendono dal confine tra il tollerabile e il repellente. Jentsch utilizza come maestoso esempio la letteratura di E. T. A. Hoffman, in particolare il suo articolato racconto intitolato L’uomo di sabbia, dove il protagonista viene a contatto con una bambola particolarmente realistica di nome Olympia. Il personaggio perturbante diventa tale in quanto non è chiarita la sua natura, lasciando il lettore in sospeso.

L’analisi di Jentsch fu ripresa nel 1919 da Sigmund Freud nel saggio Il Perturbante (Das Unheimliche). Nel suo studio, però, la dissonanza cognitiva come causa del sentimento è messa un po’ da parte. Freud, infatti, si concentra più sulle sue relazioni con l’inconscio. Ritiene l’intervento di Jentsch «succoso ma non esaustivo», in quanto la componente ‘inconsueta’ degli stimoli perturbanti non serve a spiegarne l’effetto. Per Freud «il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare». L’elemento perturbante non è quindi qualcosa di nuovo e non decifrabile, ma anzi qualcosa di ‘familiare alla vita psichica’ fin dai tempi antichissimi e reso estraneo dal processo di rimozione. Il perturbante avrebbe quindi a che vedere con un’impressione che fa riemergere dei complessi infantili e convincimenti atavici negati dalla coscienza. Ciò, ovviamente, non comporta che ogni riferimento a un elemento rimosso diventi automaticamente perturbante, anche se è necessaria la relazione contraria. Il perturbante, per Freud, si genera da stimoli non solo percettivi ma anche simbolici riferibili principalmente alla ripetizione di elementi consimili: da qui il turbamento per sosia, ritorni e ripetizioni non intenzionali e tutto ciò che può ricordare la coazione a ripetere. Ciò è dovuto al principio dell’«onnipotenza del pensiero», ovvero la primitiva convinzione che l’attività psichica interna sia in diretta relazione con la realtà esterna. La convinzione che, se un desiderio o un pensiero trovi diretto riscontro nella realtà – si avvera diciamo-, esso sarà stato davvero la causa dell’accaduto. O che una coincidenza sia realmente dovuta ai nostri personali avvenimenti precedenti. Tale concezione è stata fondamentalmente la causa principale dello sviluppo della superstizione e delle convinzioni animiste e, anche quando viene razionalmente superata, sarebbe la causa del trasalimento dovuto a presunte conferme esterne. Freud ritiene che si è più vulnerabili al fenomeno quando il confine tra realtà e fantasia si fa particolarmente labile. Seguendo tale linea, nel racconto di Hoffman la vera figura perturbante non è più la bambola Olimpia, quanto l’Uomo di sabbia stesso (o Mago Sabbiolino) ovvero il personaggio delle storie terrificanti raccontate al protagonista quando era bambino e che si ripresenta in occasione degli eventi più tragici della sua vita. Viene così identificato come il rappresentante delle angosce infantili del protagonista in quanto legato al complesso di castrazione, tema molto caro a Freud. Il perturbante del protagonista è dovuto a questo suo incubo infantile che si ripresenta ed è considerato parte della realtà, il rimosso che si manifesta, mentre per il lettore è dovuto all’ambiguità del racconto che non consente di capire se si tratti del delirio del personaggio o di un contesto spaventoso. Da qui risulta chiaro quanto per Freud il perturbante coincida quasi sempre con l’angoscia e sia realmente molto vicino all’orrido. Non a caso attribuisce il massimo effetto all’esistenza indipendente di parti del corpo. Da qui l’effetto perturbante che potrebbe avere la percezione, immaginata o ipotizzata, di un improvviso movimento di una testa mozzata o di una mano tagliata. Senza dilungarsi troppo sugli altri esempi presenti nel saggio, è necessario ribadire quanto per Freud il perturbante sia l’indissolubile connubio tra familiare ed estraneo.

Il robot umanoide HRP-4C al Digital Contents Expo a Tokyo, 2009, courtesy of Yoshikazu Tsuno.

Nonostante le evidenti differenze tra le due visioni, la linea comune è molto chiara: il perturbante è collegato a una forte espressione di disagio che si manifesta con inquietudine e ansia e che vede come suo massimo l’angoscia. Come notato da entrambi gli autori citati, il perturbante sembra raggiungere il suo apice quando si lega all’esperienza di elementi disturbanti nell’osservazione e coscienza del corpo.
Vediamo come semplici alterazioni di ciò che la nostra mente percepisce come naturale riescano a generare il perturbante. Per esempio, un movimento umano ma allo stesso tempo poco sciolto o rallentato, o volti perfettamente simmetrici che non esistono in natura. Ancora, fenomeni mentali dovuti all’alterazione della rappresentazione corporea che possono portare alla percezione fittizia di un arto in realtà mutilato (sindrome dell’arto fantasma), o alla sensazione di estraneità e non appartenenza di una propria parte del corpo (somatoparafrenia). Da registrare anche le spiacevoli esperienze dissociative come per esempio la depersonalizzazione e la derealizzazione.

Grafico della teoria dell’Uncanny Valley di Masahiro Mori, 1970

Nel 1970, lo studioso di robotica Masahiro Mori pubblicò sulla rivista «Energy» un saggio a lungo tascurato. Il testo presenta la teoria dell’ ‘Uncanny valley’ (Bukimi no Tani Genshō ovvero ‘valle perturbante’), che tratta dei rischi dell’eccessiva umanizzazione dei robot. Mori descrive la relazione non del tutto lineare tra la somiglianza all’essere umano e il senso di familiarità, e quindi empatia, che suscita. Questa, infatti, aumenta sì al crescere della somiglianza con l’essere umano, ma descrive un brusco crollo quando diventa eccessiva e porta appunto a una reazione contraria: un effetto perturbante dovuto al non riuscire a capire se qualcosa è vivo o no per via dell’estremo realismo. Graficamente, Mori descrisse la relazione tramite ordinata e ascissa, e nominò la zona in cui è riscontrato il calo di familiarità come la «zona o valle perturbante». Nel catalogare gli stimoli soggetti a tale dinamica, mise a confronto stimoli animati e non, considerando il movimento come elemento distintivo. L’apice del perturbante è ciò che si riferisce direttamente a materia umana priva delle sue funzioni vitali ovvero cadaveri e zombie. Del resto, per Jentsch, l’orrore di un cadavere è dovuto all’associazione dell’inanimato a un elemento considerato vivo. Il latente stato animato di un corpo morto permane nella concezione che abbiamo di esso. Per contrasto, le marionette bunraku della tradizione giapponese, che ricordano esseri viventi ma che non sono scambiate per essi, risultano più piacevoli e quindi oggetto di empatia. In questo modo Mori evidenzia i rischi di un’eccessiva umanizzazione di automi, robot e loro appendici, soffermandosi per esempio sull’effetto perturbante delle allora nuove mani prostetiche che erano già talmente realistiche da ingannare a primo impatto. Così i robot, sempre più antropomorfi, destano disagio e spaesamento.

La teoria di Mori è stata recuperata solo nel 2005 da Karl Mc Dorman, noto ricercatore internazionale di robotica, che ha tradotto il testo di Mori e stimolato un filone di ricerca scientifica per verificare la teoria e per indagarne le cause evoluzionistiche. Nel suo articolo Androids as an Experimental Apparatus: why is there an uncanny valley and can we exploit it?, ipotizza che un robot troppo somigliante a un essere umano, e quindi perturbante, risvegli l’innata paura della morte, o meglio la spaventosa concezione della propria mortalità. Ciò in quanto la violazione delle aspettative, perlopiù inconsce, è avvertita più intollerabile se legata a un elemento organico o presunto tale rispetto ad altri tipi di stimoli. A quanto pare, l’insostenibilità della difficoltà percettiva, in questo caso dovuta al continuo cambio nella percezione del robot riguardo alla loro natura, sarebbe in diretta correlazione con gli strumenti di difesa dalla consapevolezza della propria mortalità. 

Stimolo usato nell’esperimento descritto nell’articolo di Mc Dorman, 2005

Da tempo ormai la ricerca si occupa di definire un’esaustiva teoria riguardo alla gestione del pensiero della propria ineluttabile fine. I pensieri coscienti riguardo alla morte vengono principalmente soppressi o razionalizzati, ma quelli inconsci sembrano stimolare processi difensivi che provano a gestire l’ansia tramite il supporto delle proprie convinzioni, in modo tale da avere una concezione della realtà che consenta un senso di stabilità, ordine e permanenza. Essenzialmente si cerca di dare un senso e un valore sia personali sia culturali per non essere sovrastati dal terrore della vacuità. È la «Terror management theory» (TMT), e deriva da un’ispirazione di stampo antropologico, ovvero dai concetti presenti nel libro di Ernest Becker del 1973, The Denial of Death. Per l’autore la maggior parte delle azioni umane è dovuta a un tentativo di ignorare o evitare la morte. Tali riflessioni, non certo nuove ma ben teorizzate, hanno portato a decenni di esperimenti che hanno confermato come il terrore di un totale nichilismo generi la profonda e devastante ansia alla base della necessità della ricerca di senso. L’espressione culturale di tale meccanismo è la definizione di simboli, valori e religioni. Da qui la necessità di mantenere salda la visione del proprio mondo e il fastidio dovuto a sue sovversioni. Più una persona riesce a provare un senso di convinzione e fede rispetto alle sue certezze, più si salvaguarderà dall’ansia dovuta al pensiero della propria mortalità. Ciò costituisce le cosiddette ‘difese distali’ (Pyszczynski, Greenberge Solomon, 1999), diverse da quelle ‘prossimali’ che, invece, sopprimono e negano i pensieri di morte attraverso delle distorsioni cognitive come per esempio la convinzione della propria immortalità. Questo non è ovviamente l’unico sistema per contrastare tale ansia, ma è il più diffuso. Tutto ciò che minaccia tale sistema di sicurezza diviene altamente sgradevole. Mc Dorman cerca di mettere in relazione questo meccanismo di difesa con l’effetto provocato dai robot considerati perturbanti. Ciò perché un elemento del quale non si riesce a definire se sia animato o no ci ricollega direttamente al concetto di morte. Per dimostrare questa teoria apparentemente forzata, Mc Dorman ha teorizzato come il perturbante generi difese che ricalcano quelle dovute agli inconsci ma accessibili pensieri di morte, creando la relazione che più si è sensibili al perturbante di tali stimoli, non generalizzabile al perturbante in sé, più si dimostra di essere soggetti a sistemi di difesa distali.

Il robot umanoide ASIMO.

In un’intervista del 2012, Mori si è espresso sulle innovazioni che hanno seguito il suo ‘avvertimento’. Esistono fondamentalmente due filosofie di produzione robotica: una che sviluppa robot dandosi come priorità la loro funzionalità tecnica, curando quindi un’estetica non necessariamente vicina all’organico. L’altra che mira volutamente all’obiettivo di stimolare empatia nell’uomo tramite la sua somiglianza. Secondo lo studioso, due esempi emblematici sarebbero i robot Asimo e HRP-4C. Il primo, sebbene sia un ottimo rappresentante dell’innovazione tecnica, si presenta come poco umanizzato. Mentre, invece, HRP-4C, un robot umanoide di altezza umana e dal viso somigliante a un volto femminile, è altamente realistico, tanto da essere stato presentato al pubblico tramite una sorta di esibizione che lo vedeva cantare e danzare affiancato da esseri umani.

Sicuramente il modo in cui gli androidi vengono percepiti, pensati e prodotti varia anche a seconda delle sensibilità culturali. Per questo motivo, da paese a paese, si posso tracciare delle sostanziali differenze nella definizione della valle perturbante. Vediamo però che la tendenza umanoide non è solo una prerogativa giapponese. Per esempio, nel mercato dei sex toys, è stato recentemente lanciato un nuovo sex robot di nome Samantha, provvisto di un’elementare intelligenza artificiale.

Samantha, il primo sex robot con intelligenza artificiale

Da un punto di vista artistico, invece, è interessante vedere come l’effetto perturbante possa diventare strumento consapevole e non spiacevole contro effetto. Secondo Jentsch, è importante notare «come la pura arte eviti in giusta misura l’assoluta e completa imitazione della natura e dell’essere vivente, ben sapendo che in alcuni può facilmente insorgere disagio […], la generazione del perturbante può essere tentata nella vera arte ma solo ed esclusivamente per intenzioni e significati artistici». Il sentimento del perturbante è stato variamente usato nel mondo dell’arte proprio per il suo effetto controverso. Secondo la sensibilità, il bisogno di decodificare lo stimolo spinge il fruitore o a un’attenzione maggiore, quasi a un’attrazione verso qualcosa di sentito come ambiguo, o a una repulsione totale che spinge a interrompere ogni contatto con l’oggetto del proprio turbamento. Tale effetto è utilizzato quasi per testare i limiti del proprio senso del tollerabile, della propria spinta esplorativa e del proprio gusto per il torbido. L’inquietudine provocata dal perturbante è un lembo sottile tra il piacevole e l’intollerabile, qualcosa che può essere avvertito come atroce o stimolante. A tal proposito Pietro Conte, nell’articolo Unheimlich, riporta le parole di Julius Von Schlosser dal suo libro Storia del ritratto in cera: «Che l’opera d’arte, e in particolare il ritratto, sia dotata di vita, è una delle convinzioni più primitive con cui gli spettatori ingenui cercano di raccapezzarsi di fronte alla creazione artistica» (Pietro Conte, 2012).

Maurizio Cattelan, Senza Titolo, Milano, 2004 Maurizio Cattelan, Senza Titolo, 2004.

La corrente artistica dell’Iperrealismo, specialmente in scultura, esprime ottimamente il disturbo di certe opere tanto realistiche da far sembrare reali i propri soggetti. L’effetto porta quasi a un involontario sussulto dello spettatore, lo stesso avvertito quando un elemento che consideravamo inanimato si scopre essere una persona vivente. Non a caso un materiale molto utilizzato è la cera che, secondo Ernst Gombrich (Arte e illusione), «travalica i limiti della rappresentazione simbolica», motivo per cui genera un effetto di estremo disagio. Un caso interessante è lo scandalo che ha provocato l’opera Senza Titolo di Cattelan nel 2004, esposta in piazza XXIV Maggio, a Milano. Essa consiste in tre manichini rappresentanti dei bambini appesi da collo a un albero, come se fossero appunto impiccati. L’opera è stata presentata senza alcuna didascalia o commento, e sembrava tanto realistica da suscitare varie reazione tra la sorpresa e l’indignazione. Per qualcuno il perturbante dell’opera risultò così sgradevole da spingerlo ad arrampicarsi pericolosamente sull’albero per tagliare le corde. Questo non perché si fosse convinto che l’installazione fosse la reale scena di un’impiccagione, ma perché semplicemente non ne tollerava la vista.

Evan Penny, Self Scretch, 2008.

Un altro esempio interessante è l’iperrealismo di Evan Penny raggiunto nella sua opera Self Stretch. L’opera appartiene a una serie d’immagini alterate tramite effetti di distorsione che, tuttavia, non ne distruggono l’essenza. Soggetto preferito da deformare è il suo stesso autoritratto, di cui esistono diverse variazioni. In questa, in particolare, Penny ha creato una distorsione tridimensionale tale che, anche se vi si riconosce la sua immagine, da qualsiasi angolazione la si guarda continuerà sempre a essere un’immagine non concepibile, errata. L’effetto perturbante di tale opera costringe quasi lo spettatore a cambiare continuamente il punto di osservazione, in quanto l’inesistenza di una simile immagine in natura ne rende inaccettabile la vista.

Ed Atkins, dal video Happy Birthday!!, 2014.

Un ulteriore esempio dell’uso del perturbante nell’arte si riscontra nei lavori di Ed Atkins: soprattutto nei suoi video osserviamo immagini digitali ritraenti situazioni con diverse figure umanoidi che si rivolgono direttamente al fruitore attraverso criptici monologhi che contribuiscono all’effetto straniante. O, ancora, nei videoclip realizzati dall’artista Jesse Kanda, che materializza le sue visioni tramite figure antropomorfe distorte e a volte deformi, o tramite un’osservazione maniacale del corpo e delle sue espressioni, come nel videoclip della canzone Mouth Mantra di Björk.

Il sentimento del perturbante è riferibile a stimoli molto diversi tra loro. Ciò che li accomuna è la combinazione di caratteristiche familiari che ispirano una potenziale identificabilità dell’elemento con quelle inclassificabili che rendono l’elemento non immediatamente catalogabile. Ciò che più stimola domande e ricerche è la questione della sua difficile contrastabilità. Infatti, anche quando l’oggetto è stato razionalmente definito e, quindi, evoluzionisticamente parlando, reso innocuo, il soggetto tenderà a mantenere uno stato d’inquietudine. Tale effetto sembra quindi parlarci dei nostri limiti umani sotto forma di paura, disgusto e repulsione, e la sua esplorazione ci riconnette con le nostre ataviche costruzioni mentali.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Valeria Minaldi
  • Laureata in Neuroscienze all'Università degli Studi di Padova, ha collaborato nella ricerca scientifica in particolare nell'ambito della Neuroestetica. È psicologa e psicoterapeuta specializzanda a orientamento cognitivo costruttivista. Lavora come consulente nell'ambito delle valutazioni dello stress lavoro-correlato presso COM Metodi; si occupa di consulenza e divulgazione scientifica, supporto psicologico individuale e di gruppo. Fa parte del board curatoriale, è cofondatrice e managing editor di KABUL, magazine online che tratta di arti e culture contemporanee, casa editrice indipendente e associazione culturale no-profit dal 2016.
Bibliography

K. Mc Dorman, Androids as ana Experimental Apparatus: why is there an uncanny valley and can we exploit it?, CogSci-2005 Workshop: Toward Social Mechanisms of Android Science (pp. 108–118), Stresa, Italy, July 25–26, 2005.
S. Freud, Das Unheimliche, Imago, vol. 5(5-6), 297-324, 1919.
E. Gombrich, Arte e illusione, Leonardo Arte, Milano 1959.
E. Jentsch, Zur Psychologie des Unheimlichen, Angelaki 2.1, 1995.
M. Mori, Bukimi no tani – The uncanny valley, Energy, 7(4), 33-35, 1970.
T. Pyszczynski, J. Greenberg, S. Solomon, A dual process model of defense against conscious and unconscious death-related thoughts: An extension of terror management theory, Psychological Review, 106, 835-845, 1999.
J. Von Schlosser, Storia del ritratto in cera, in Pietro Conte, Unheimlich, PsicoArt, 2, 2011-2012.