Antony Gormley, SLUMP II, 2019.
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La verità visuale a venire
Magazine, HYPER – Part I - Marzo 2020
Tempo di lettura: 13 min
Giacomo Mercuriali

La verità visuale a venire

La fine della fotografia e la nascita della digigrafia.

Digigrafia composta da Nvidia StyleGAN, tratta da thispersondoesnotexist.com, 2019.

 

Branchi di scimmie di fronte a uno schermo11Questa è la traduzione, lievemente riadattata, di un saggio pubblicato in inglese nell’autunno 2019 su «Resolution», n. 0: http://resolutionmagazine.com/.

Nel 1962, Chris Marker realizzò il celebre cortometraggio La Jétee, un «photo-roman» composto da un montaggio di immagini statiche glossate da una voce narrante che dispiega un racconto allucinatorio sui viaggi nel tempo. La Jétee è noto per essere un classico della fantascienza che gioca con le specificità mediali dei materiali stessi impiegati per comporlo. Le fotografie, medium documentario per eccellenza, sono spinte verso il loro limite epistemologico; contrariamente a quanto avviene nei reportage, nel film la loro presentazione in serie testimonia una serie di fatti fantastici.

Still da La Jetée, Chris Marker, 1962.

Nel 1995, Terry Gilliam girò 12 Monkeys, il remake hollywoodiano di La Jétee, sviluppando la riflessione di Marker intorno alla relazione problematica che intratteniamo con le immagini fotografiche. 12 Monkeys inizia in un futuro non troppo lontano nel quale la specie umana rischia di estinguersi a causa di un virus letale diffuso da una banda di bioterroristi malthusiani. Il governo condanna alcuni detenuti a viaggiare indietro nel tempo, assegnando loro il compito di indagare sulle origini del gruppo di estremisti. Il protagonista di 12 Monkeys, interpretato da Bruce Willis, è il nerboruto crononauta James Cole. Poco dopo essere giunto nel passato, Cole evade dall’ospedale psichiatrico in cui è stato ovviamente rinchiuso dopo aver tentato di convincere le persone del “passato” di non essere un matto bensì un detective appena arrivato dal futuro con lo scopo di salvare l’umanità.

Grazie all’entusiasmante sceneggiatura, per buona parte del racconto sia i protagonisti che gli spettatori di 12 Monkeys sono assaliti dai medesimi dubbi rispetto alla “realtà” dei fatti a cui assistono: i viaggi nel tempo sono possibili? Cole è sano di mente o è uno schizofrenico visionario? L’estinzione dell’umanità è un progetto politico o una catastrofe naturale? Queste domande senza risposta generano una tensione che cresce di scala finché una scena di agnizione ricompone la trama e scatena il finale al cardiopalma.

L’agnizione è una categoria narratologica coniata da Aristotele; essa indica il momento in cui il personaggio di un racconto acquista una nuova consapevolezza rispetto alla propria o all’altrui identità: una verità alla quale prima non aveva accesso viene disvelata. L’agnizione è effetuata da un segno indessicale che certifica la corrispondenza biunivoca tra una o più prove e una descrizione del mondo. La prova può essere un oggetto – cicatrici, sigilli, tracce – o una testimonianza rivelatoria: «Edipo! Sono tua madre»; «Luke! Sono tuo padre».

In 12 Monkeys l’operatore semiotico dell’agnizione è una fotografia che raffigura Cole inginocchiato nel fango di una trincea. I cronoingegneri avevano “precedentemente” spedito il malcapitato fusto nel bel mezzo della Prima guerra mondiale invece che nella brumosa Baltimora di fine XX secolo, dunque il viaggio nel tempo è possibile. La prova fotografica si trova nell’antico ritaglio di giornale conservato dalla protagonista femminile del film, la psichiatra Kathryn Railly (Madeleine Stowe). Anch’essa improbabile investigatrice, Railly nel tempo libero colleziona informazioni su casi clinici di pazienti con il piglio dell’escatologia affetti dalla cosiddetta «sindrome di Cassandra».

La potenza rappresentativa della fotografia è più elevata di quella del linguaggio.

La testimonianza visiva, associata alla data del quotidiano, ristabilisce l’ordine narratologico che ogni film d’azione che si rispetti pretende. Lo spettatore smette di ipotizzare che il regista gli stia giocando qualche tiro mancino intellettualistico; non è un sogno, è tutto “vero”! Cole e Railly mettono da parte il loro scetticismo nei confronti dei viaggi nel tempo, ma anche di ciò che fa di un soggetto un folle.

La fotografia rompe la catena delle ipotesi razionali con cui sia gli spettatori che i protagonisti hanno affrontato gli eventi raccontati in 12 Monkeys. Sebbene appartengano a realtà diverse, tutti coloro che sono coinvolti dalla narrazione, fuori e dentro lo schermo, hanno preso parte ad un medesimo training sensoriale che deriva dalla nostra recente storia visiva. Attraverso l’esperienza, abbiamo appreso che le immagini fotografiche rappresentano fatti.

La potenza rappresentativa della fotografia è più elevata di quella del linguaggio; prima dell’agnizione, più Cole ripete di venire dal futuro, più i medici e gli spettatori lo reputano un folle, qualcuno che soffre di un pervertimento dell’esperienza. La riproduzione a stampa dall’emulsione chimica della pellicola è invece pensata come una prova oggettiva di come qualcosa è nel mondo: la fotografia ha un potere documentario incommensurabilmente superiore rispetto alle testimonianze espresse attraverso il linguaggio.

L’ncredulità di San Tommaso, Caravaggio, c. 1600.

 

Verifiche

A dispetto dei viaggi nel tempo e della bioapocalisse, la caratteristica più incredibile di 12 Monkeys è la conversione che i protagonisti e gli spettatori subiscono una volta entrati in contatto con un documento quasi centenario. La stampa fotografica ha, da sola, il potere di certificare la verità dei fatti più straordinari. Essa modifica le credenze di coloro che ne fanno esperienza.

In ultima analisi, 12 Monkeys si regge non sulla fotografia in sé, quanto sulla relazione che intercorre tra essa e la sua didascalia o, piuttosto, i suoi apriori, le condizioni della sua apparizione e percezione. Cole e Railly non hanno accesso all’emulsione originale, quindi il loro ragionamento si basa su un insieme stratificato e complesso di pratiche culturali necessarie a garantire la veridicità dell’informazione contenuta nella fotografia. Queste comprendono, almeno, l’onestà del fotografo, le tecniche di riproduzione dell’immagine, l’affidabilità del quotidiano, dell’archivio che ne ha conservato le pagine recuperate da Railly nonché le competenze degli archivisti stessi.

Sul piano materiale, ogni attore e ogni tecnica necessari alla costruzione della catena di mediazione della fotografia costituisce un punto di possibile manipolazione della prova. La sola capacità analitica dei nostri occhi non sarebbe in grado di smontare eventuali interpretazioni o definitive compromissioni dello scatto originale. Eppure, siamo soliti dare per scontato che la somiglianza fenomenologica di una qualsiasi immagine a una fotografia sia abbastanza per certificarne il valore di verità.

È come se lo stile dell’immagine stessa fosse una prova della sua affidabilità. La fotograficità sussume l’onestà delle pratiche culturali dalle quali dipende l’esperibilità stessa dell’immagine: guardate qua, è Cole infangato in una trincea, non è evidente? Veramente è stato lì, quindi non è un pericoloso mitomane, il viaggio nel tempo è possibile e un misterioso gruppo di bioterroristi sta per porre fine all’ordine globale.

Altri, non essendo trascinati dalle necessità imposte da un racconto cinematografico, avrebbero certamente condotto una ricerca più approfondita prima di giungere alle stesse conclusioni. Nondimeno, visto che la natura documentaria delle immagini fotografiche fu propagandata da William Fox Talbot e Louis Daguerre, non ci si può stupire della facilità con la quale gli spettatori rimangano agganciati alle vicende di 12 Monkeys senza domandarsi quanto sia difficoltoso sorreggere l’intera macchina narrativa del film su un pilastro che, dopo una semplice analisi, si rivela tanto instabile.

L’ingrandimento. Il cielo per Nini, Ugo Mulas, 1971-1972.

Le disquisizioni intorno all’ontologia della fotografia fornita dai teorici della fotografia sono basate su esempi in una certa misura tendenziosi. I celebri saggi di Roland Barthes e Susan Sontag offrono sempre come casi di studio fotografie rappresentative di qualcosa, riproduzioni di soggetti inequivoci che derivano da una sorta di ideologia positivista della prova; gli aspetti tecnici che portano alla produzione di un’immagine fotografica non sono presi in considerazione. Eppure, si dovrebbe ammettere che l’insieme delle fotografie che raffigurano un análogon del reale è incommensurabilmente piccolo rispetto all’insieme di tutte le fotografie possibili. Cosa dire di quei casi in cui l’emulsione è colpita da fotoni rifratti da un sistema di lenti qualsiasi?

La leggibilità di una fotografia si ottiene solamente in quei casi in cui l’apparecchio è impostato e manovrato con la specifica finalità di emulare il fenomeno che causa l’impatto della luce sulla retina. Nulla, a parte una dose massiccia di antropocentrismo, obbliga la macchina fotografica a operare in questo modo. La valenza documentaria della fotografia dipende da pratiche culturali che orientano il suo uso piuttosto che da sue proprietà ontologiche. Non esiste nessun documento puro, tanto che, se ne facciamo l’etimologia, troviamo che la parola deriva dal latino docere («insegnare, dimostrare»).

Ciascun documento, dunque, sin dalla sua origine, è orientato a una finalità di veridizione che ha come primo scopo quello di rendere docili (ovvero, secondo il dizionario, «predisposti a subire un ammaestramento») coloro ai quali è diretto, ivi compresi i suoi stessi creatori. Come ha notato Michel Foucault in Sorvegliare e punire, burocrazia e disciplina sono partizioni della stessa tattica di governo.

Ugo Mulas illustrò l’instabilità semiotica della fotografia in uno dei dodici episodi che compongono la serie delle Verifiche. Con essa, Mulas si proponeva di criticare la fotografia impiegando i suoi stessi mezzi.“…Mulas si proponeva di criticare la fotografia impiegando i suoi stessi mezzi.” Nel volume a stampa, sulla stessa pagina sono accostati lo scatto di un limpido cielo azzurro e il più grande ingrandimento della stessa esposizione realizzabile dal fotografo nel suo studio casalingo: il rettangolo di nitrati d’argento è certamente indessicale, ma il suo significato si rivela perfettamente intercambiabile con il suo opposto. Così il commento: «Si potrebbe ottenere la stessa immagine fotografando un muro».

In altre parole, dovremmo pensare alla fotografia come a una sofisticata pratica sociale la cui capacità di produrre valori documentari è decisamente limitata rispetto alle infinite configurazioni ottenibili dall’apparecchio. Mulas mostra come la possibilità che i nitrati si facciano segno del cielo dipende, tra le altre cose, dalla decisione del fotografo intorno alla risoluzione da adottare per la stampa.

La superficie granulare dello scatto di Mulas dovrebbe apparirci piuttosto familiare anche se non abbiamo mai visitato una camera oscura. Ciò che vediamo è simile a quello che si ottiene quando si tenta di ingrandire al massimo una fotografia digitale su uno schermo, raggiungendone il limite di leggibilità. Questo avviene perché la fotografia digitale, forse il medium cardinale della società contemporanea, è stata progettata come una simulazione discreta del metodo chimico: i canali RGB dei pixel sono modelli dei grani di sale che, a loro volta, rispecchiano la fisiologia dei recettori retinici.

L’iscrizione della luce è simboleggiata dagli 0 e 1 del codice binario. La fotografia digitale è basata su software nei quali gli ingegneri hanno predisposto regole di codificazione che trasformano determinate quantità di energia elettrica in valori numerici discreti. Questa configurazione, dovuta al complesso industriale che produce la fotocamera digitale, inserisce un importante fattore intenzionale nel processo di registrazione del reale. In questo senso, la fotografia digitale è decisamente più governata e governabile rispetto alla sua precorritrice. Poiché lo scopo inscritto nell’apparecchio è produrre immagini coerenti, i programmatori scrivono e implementano solo alcuni algoritmi tra tutti quelli possibili.

Digigrafia composta da Nvidia StyleGAN, tratta da thispersondoesnotexist.com, 2019.

 

Digigrafia e fotosimile

La situazione degli spettatori contemporanei è differente rispetto a quella di coloro che videro 12 Monkeys nel 1995 o la La Jetée nel 1962. La nostra esperienza con l’ecosistema dell’informazione digitale ci ha abituati al fatto che, per la maggioranza delle immagini che vediamo, la possibilità di rintracciare autore, condizioni di produzione, riproduzione e diffusione non sono date.

A scapito di tutto questo, continuiamo a fare esperienza delle immagini fotografiche attraverso il datato paradigma culturale che assimila la riconoscibilità del soggetto fotografato a un atto di veridizione indessicale.

Centottant’anni dopo la nascita ufficiale della fotografia, lo stadio di sviluppo raggiunto dagli algoritmi a reti neurali è pronto a spazzare via ciò che è rimasto del mito documentario. Ci troviamo un passo prima dell’inizio di una nuova era visuale in cui la maggior parte delle immagini che guarderemo saranno digigrafie: immagini non prodotte da un apparecchio ottico, realizzate e diffuse con la stessa velocità delle fotografie digitali.

Gli stupefacenti risultati ottenuti dalle reti generative avversarie (GANs, generative adversarial networks), concepite solamente nel 2014, possono essere testati sul sito web: thispersondoesnotexist.com. A ogni aggiornamento, la pagina mostra un’immagine che un osservatore poco attento giudicherebbe senza esitazioni come un ritratto fotografico, ma che in realtà è un volto che non appartiene ad alcun essere umano.

L’avvento della digigrafia è portatore di entusiasmanti potenzialità creative quanto di devastanti rivoluzioni sociali.

Digigrafia composta da Nvidia StyleGAN, tratta da thispersondoesnotexist.com, 2019.

ThisPersonDoesNotExist è basato sull’algoritmo Nvidia StyleGAN; questo permette di creare digigrafie a partire dall’analisi comparativa di un grande numero di ritratti fotografici predisposti come training set. Simili a dei Michelangelo virtuali, le reti generative avversarie scolpiscono passo passo un assortimento casuale di pixel sino a che il loro aspetto, giudicato da un critico, anch’esso virtuale, detto discriminatore, risulta convincentemente simile a quello delle immagini di partenza.

StyleGAN valuta l’aspetto fenomenico delle fotografie del training set calcolando la distribuzione statistica dei valori associati a ciascun pixel collocato nello stesso punto di una superficie normalizzata incorniciata da lati della stessa misura. Il risultato è una funzione matematica che definisce in termini quantificabili uno stile comune al set di partenza.

La fotografia digitale prendeva a modello la fotografia classica, restringendone però il campo di possibilità operando una scelta precisa rispetto alle sue finalità. Nel caso delle digigrafie, ciò che viene emulato dalla nuova tecnologia non è la struttura ottica dell’apparecchio precedente, ma lo stile visuale da essa selezionato, pensato come distribuzione statistica di valori numerici dei pixel entro una matrice n-dimensionale. Le digigrafie indistinguibili da fotografie sono fotosimili: assomigliano alle fotografie, ma solamente nel loro aspetto fenomenologico; le tecniche che le hanno prodotte sono ben diverse.

Digigrafia composta da Nvidia StyleGAN, tratta da thispersondoesnotexist.com, 2019.

Nel prossimo futuro, mentre i sistemi cibernetici di sorveglianza e controllo produrranno automaticamente e in quantità sempre maggiore quelle che Harun Farocki ha chiamato «immagini operazionali» – immagini fatte da macchine per altre macchine – le digigrafie diventeranno un sistema di comunicazione universale in cui il contenuto di verità, come accade per la comunicazione basata sulla parola, non è una caratteristica determinante del medium, ma solo accessoria. Comunicazione e testimonianza, due proprietà della fotografia saldamente intrecciate nelle prassi culturali basate sulla sua versione classica, saranno associate l’una alla digigrafia, l’altra alle immagini operazionali.

L’avvento della digigrafia è portatore di entusiasmanti potenzialità creative quanto di devastanti rivoluzioni sociali. Per esempio, poiché le reti generative avversarie sono già in grado di produrre digigrafie fotosimili interpretabili come fotografie di veri esseri umani, presto dovrà cadere la connessione legale che collega la replica fotografica di un volto con un’identità personale riconosciuta dal diritto dello Stato-nazione.

Nel 2017, l’artista Raphaël Fabre ha impiegato alcuni mesi per scolpire e fotografare digitalmente un modello tridimensionale del suo volto con il quale è riuscito a raggirare gli uffici dell’anagrafe francese. Entro breve tempo, un’impresa del genere potrà essere compiuta in pochi secondi da chiunque avrà accesso a software digigrafici.

È chiaro quindi che le foto identificative oggi presenti sui documenti emessi e convalidati dalle autorità politiche dovranno essere sostituite da altri tipi di traccia biometrica se le istituzioni continueranno a pretendere – nel solco della dottrina inaugurata dall’inventore della foto segnaletica, il criminologo Alphonse Bertillon – rappresentazioni indicizzate dei loro soggetti.

Digigrafia composta da Nvidia StyleGAN2, tratta da thispersondoesnotexist.com, 2020.

Contemporaneamente allo sviluppo del fotosimile, stanno sorgendo metodi di autodifesa che permettono, entro certi limiti, di testare la veridicità dei documenti fotografici digitali. Un esempio è il sito fotoforensics.com; fondato e gestito dall’esperto di sicurezza informatica Neal Krawetz, Fotoforensics permette a chiunque di analizzare immagini digitali alla ricerca di eventuali manipolazioni. Ovviamente, il sito è sfruttato principalmente da persone che vogliono testare la credibilità di immagini fraudolente create da loro stessi.

In definitiva, ci stiamo per addentrare in un mondo in cui fotografie, fotografie digitali e digigrafie saranno indistinguibili a occhio nudo. In particolare, le digigrafie fotosimili diventeranno sempre più pervasive e potenzialmente pericolose se prese come brani di realtà. Dovremo modificare drasticamente la nostra centenaria relazione con le immagini fotografiche – immagini stilisticamente riconducibili alla fotografia – uscendo dalla caverna platonica entro la quale esse hanno mantenuto un romantico accordo con il reale. Dovremo riconoscere le loro condizioni di possibilità – culturali e storiche prima di tutto – e quindi la loro natura simbolica.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Giacomo Mercuriali
  • Giacomo Mercuriali è dottorando in Estetica presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università Statale di Milano. Ha svolto periodi di ricerca presso l’Université Paris Sorbonne-4 e il Centre d'Histoire et de Théorie des Arts de l'École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Dal 2015 fa parte del gruppo di ricerca che organizza il Seminario di Filosofia dell'Immagine. Si occupa di cultura visuale, iconologia e digital humanities.
Bibliography

Aristotele, Dell’arte poetica, Mondadori, Roma, 1990.
Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia (1980), Einaudi, Torino, 2003.
Harun Farocki, Phantom Images, in «Public», 29, 2004.
Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino, 2014.
Ugo Mulas, La fotografia, Einaudi, Torino, 1973.
Susan Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società (1977), Einaudi, Torino, 2004.