Antony Gormley, SLUMP II, 2019.
Archive: Filter by: All
Close
All
Digital Library
Editions
Magazine
Projects
alterità
attivismo
biopolitica
critica d'arte
critica ecologica
filosofia politica
intersezionalità
massmedia
neuroscienze
nuove utopie
postcolonialismo
postumanesimo
queer
sottoculture
studi culturali
studi di genere
studi sociali
studi vocali
tecnologie
Cybernetic Culture Research Unit

Il Numogramma Decimale

H.P. Lovercraft, Arthur Conan Doyle, millenarismo cibernetico, accelerazionismo, Deleuze & Guattari, stregoneria e tradizioni occultiste. Come sono riusciti i membri della Cybernetic Culture Research Unit a unire questi elementi nella formulazione di un «Labirinto decimale», simile alla qabbaláh, volto alla decodificazione di eventi del passato e accadimenti culturali che si auto-realizzano grazie a un fenomeno di “intensificazione temporale”?

K-studies

Hypernature. Tecnoetica e tecnoutopie dal presente

Avery Dame-Griff, Barbara Mazzolai, Elias Capello, Emanuela Del Dottore, Hilary Malatino, Kerstin Denecke, Mark Jarzombek, Oliver L. Haimson, Shlomo Cohen, Zahari Richter
Nuove utopieTecnologie

Dinosauri riportati in vita, nanorobot in grado di ripristinare interi ecosistemi, esseri umani geneticamente potenziati. Ma anche intelligenze artificiali ispirate alle piante, sofisticati sistemi di tracciamento dati e tecnologie transessuali. Questi sono solo alcuni dei numerosi esempi dell’inarrestabile avanzata tecnologica che ha trasformato radicalmente le nostre società e il...

Realpolitik
Magazine, MOBILITY - Part I - Settembre 2018
Tempo di lettura: 9 min
Caterina Riva

Realpolitik

Curatela e globalizzazione: da Documenta X a Mr. Robot. Una narrazione diegetica di Caterina Riva tra arte e cinema.

Janet Lilo – Right of Way – installation at Artspace NZ as part of the 5th Auckland Triennial – 2013.

Parigi, Agosto 2016

Esco dalla metropolitana alla fermata Belleville, solita confusione interrazziale, cerco l’uscita che mi porta sul boulevard, e sulle scale appare Catherine David, con il trucco alla Cleopatra che esalta i suoi occhi scuri e contrasta la carnagione diafana. Si tratta della mitica curatrice di Documenta X e della pioniera del dialogo con il mondo arabo, e in questi tempi di burkini e di censure religiose nella ‘laica’ Francia Catherine David rimane un simbolo di un’apertura al mondo seria ma anche imbevuta di un ottimismo globale che ci riporta indietro di almeno tre decenni.

Per lavoro ho girato molto, per esempio tra il 2011 e il 2014 ho vissuto in Nuova Zelanda. Stare agli antipodi allarga la prospettiva, e quell’ubicazione mi ha permesso di viaggiare più agilmente in Asia e Australia, ma mi ha anche fatto mettere in dubbio la storiografia occidentale ed eurocentrica che davo per scontata. Ho avuto modo di conoscere da vicino esperienze di coabitazione postcoloniale, come quella dei Maori e della loro identità e legame con il territorio, o delle popolazioni provenienti dalle Isole del Pacifico che, oltre ad atolli dalle spiagge bianchissime e acque cristalline, sono nazioni con diversi problemi climatici e sociali.

Ad Auckland dirigevo Artspace ed ero responsabile della sua programmazione curatoriale. Nel 2013 era uno degli otto spazi espositivi impiegati dalla Triennale, diretta nella sua quinta edizione da Hou Hanru. Hanru, a fine anni novanta, aveva organizzato con Obrist Cities on the move, una serie di mostre con il merito di presentare per la prima volta in ambito espositivo gli aspetti positivi della globalizzazione e di aprire l’orizzonte verso la Cina e il continente asiatico. Quindici anni dopo e a seguito di ribaltamenti e vicissitudini socio-economiche con ripercussioni globali, non si abbandona l’idea positivista di una biennale che possa ‘mettere sulla mappa’ il luogo in cui si svolge. Questo tipo di mostra costa uno sproposito e dovrebbe attirare grandi somme di denaro, sia pubblico che privato, oltre che molti visitatori. Spesso però le conseguenze sul territorio, dopo il dispendio, non sono tangibili né a lungo termine, e i finanziamenti ridotti si prolungano negli anni per gli spazi espostivi esistenti, soprattutto quelli di piccola e media grandezza.

Ci ripensavo, mentre viaggiavo sulla linea 2 della metro parigina, quando ho scorto uno dei personaggi del video di Angelica Mesiti, Citizens’ Band, uno dei pezzi forti della Triennale ospitati ad Artspace. La videocamera segue in diverse città del mondo, tra cui Parigi e Sydney, le storie di persone che hanno lasciato i loro paesi d’origine per provare a farcela in una nazione ricca. Uno dei protagonisti con indubbio talento musicale, ripresi dall’artista australiana, è la stessa persona che ho davanti, e fa la stessa cosa mostrata nell’opera: canta e suona su un treno della metropolitana in cambio di qualche moneta. Dal vivo è meno eroico di quanto una proiezione ambientale lo facesse immaginare. Ho inoltre l’impressione che le corde vocali siano logorate dal troppo uso. Io, in ogni caso, gli allungo 2 euro; per lui e per le sue condizioni di vita, quella triennale e quel lavoro che aveva emozionato molta parte del pubblico non hanno fatto alcuna differenza.

Conclusasi l’avventura neozelandese per fine validità del visto e del contratto lavorativo, torno in Italia e cerco di capire come muovermi. Forse potrei fare ‘l’esperta di’ ma, a pensarci meglio, la Nuova Zelanda è lontana ma non esotica, in chiave occidentale, come altri paesi, come l’India o la Cambogia. L’arte contemporanea gioca un po’ a fare la giramondo informata, ma la verità è che se non è fruibile sull’asse L.A.-New York-Londra-Berlino è un po’ come se non esistesse. A me continuano a dire perché non sono andata in Asia, perché sono tornata, che in Europa è un casino. Continuo a chiedermelo anche io.

Tahi Moore – Paranoid Structures – video still – 5th Auckland Triennial – 2013.

Dagli antipodi, gli studenti di arte che non si sono ancora potuti permettere di viaggiare verso l’Europa o l’America sono più informati di me rispetto alle mostre e agli artisti di quei luoghi, guardano più di una volta al giorno siti alla «Contemporary Art Daily» e simili, come se fosse una specie di Mecca digitale. Il problema è che pensano davvero di conoscere quello che succede dall’altra parte dello schermo, ma in realtà vedono solo la proiezione bidimensionale e piuttosto taroccata di opere che dal vivo hanno decisamente un altro effetto. Inoltre, si innesca una specie di reazione alternativa sia alla storia dell’arte che alla produzione artistica contemporanea, che diventa senza canoni o con canoni globali del tutto omologati, in cui parametri di luce, materiali e interessi sono i medesimi a tutte le latitudini.

L’artista turco Ahmet Öğüt, nella sua analisi sull’ultima biennale di Berlino (n. 9) organizzata da DIS, non si sottrae dall’evidenziare le problematiche che sono amplificate – anziché essere messe in scacco – dalla mostra. L’arte diviene prigioniera delle logiche di marketing, branding e tutte quelle sigle in -ing e preferibilmente in inglese che inquinano la comunicazione, come nei social media.

«[…] Maybe one day we will have no choice but to end biennials as well, in order to prevent their total capture by commerce and the corporate aesthetics of self-branding, digital nihilism, individualism, superhighway populism, cyber-utopianism as marketing gimmick, absolute alienation, transhumanism, loops of consumption, hyperconfiguration, privatization, product placement, hyperlinking, artificiality, selfish youthfulness, fetishized novelty, and the institutionalization of neoliberal and colonial agendas that cannot distinguish sponsorship from ownership»11A. Öğüt, Obscure Sorrows: Thoughts around the 9th Berlin Biennale, «e-flux», #75, Sept. 2016.
.

Il formalismo all’ennesima potenza crea il vuoto anziché operare da leva, ribadisce i pregiudizi coloniali, occidentali, di classe, e guarda all’iPhone 7 anziché al mondo che ci sta davvero intorno. La specificità di un luogo-non luogo come Berlino, una città ‘sfruttata’ e che parla inglese per quanto riguarda l’arte, viene dimenticata come si trattasse di un green screen virtuale, esso stesso scenografia dematerializzata.

Il critico d’arte inglese Dan Fox, nelle sue prime impressioni dopo aver visitato la recente biennale di San Paolo dal titolo Incerteza viva, scrive: «[…] Biennials drenched in the terminology of ‘subversion’, ‘interrogation’, ‘revolution’, ‘boundary breaking’ and ‘rebellion’ but with none of the realpolitik, just look like play-acting when things start to actually get real – when you really can be beaten up for subversion or interrogated and thrown in jail because of your work»22D. Fox, 32nd Bienal de São Paulo, «Frieze.com», 6 Sept. 2016.
.

Fox, seppur apprezzando il tono non ecumenico adottato dalla mostra in questione, mette in luce, a livello sistemico, l’intoppo che caratterizza il mondo dell’arte e la sua presunta sfera di pertinenza. Quando leggiamo e sentiamo di notizie tremende che arrivano da diverse parti del globo, come da casa nostra, a parole i professionisti dell’arte sono in prima linea a denunciare le nefandezze che si commettono. Poi, però, il gioco è di nascondere la testa sotto la sabbia e lasciar spadroneggiare le politiche capitalistico-neoliberali che dettano legge già a tutti gli altri livelli. Ci si accontenta di una mostra- compromesso, uno sponsor non etico, uno scambio di favori nel recinto protetto del contemporaneo. Il prezzo della globalizzazione è l’annullamento delle caratteristiche reali, particolari e distintive di un luogo. Un appiattimento che permette di dare lo stesso valore – e non parlo solo di soldi ma anche di impatto sociale e culturale – alla medesima operazione artistica impiantata a Taipei o a San Francisco, a Stoccolma o a Johannesburg.

Angelica Mesiti – Citizens’ Band – 5th Auckland Triennial – 2013.

La globalizzazione richiede mobilità: a livello biopolitico negli anni novanta si è creato il mito del curatore con la valigia in mano, a suo agio negli aeroporti e nelle tratte di viaggio sempre più lunghe, vedi Obrist, l’epitome di questa sindrome. Non ho niente contro la mobilità in sé, è certo un arricchimento e un allargamento di orizzonti, ma non se si fa con una mentalità turistica o, peggio, coloniale. Vado, ho poco tempo, qualcuno decide per me cosa fare e vedere, torno a casa e con quel filtro, lo stesso con cui sono partita, decido come usare le informazioni raccolte. Molto diverso è l’approccio che preferisce il restare in un posto, scoprirlo e pensare alle esigenze del luogo, anziché proiettare da subito l’altrove sull’esistente; certo, questa modalità richiede più tempo, ma genera conseguenze che sono benefiche e durature per il territorio.

Da un lato, c’è chi si barcamena nella giungla dei visti, retaggio cartaceo di un mondo che è diretto da scambi internazionali virtuali e di persone. Dall’altro, le nazioni, incapaci di fronteggiare la situazione, cercano di ribadire i propri confini territoriali con muri e con il consolidamento di restrizioni di circolazione e accesso, a contenimento di una crescita esponenziale dei flussi migratori.

Quando frequentavo l’università, la parola «rizomatico» era piuttosto in voga: visualizzava più arborescenze di pensiero che un abbarbicarsi alle origini o al suolo patrio. Poi c’è stato «rhizome», più legato a un groviglio da connessione internet e di sviluppo di sistemi tecnologici. Pensando all’immaginario cine-televisivo corrente, la serie americana Mr Robot dipinge la disgregazione sociale e finanziaria a cui stiamo assistendo, in cui i ricchi si arricchiscono di più, mentre i poveri sono sempre più poveri. Le riprese, che prediligono la prospettiva decentrata e la camera in dislivello rispetto ai personaggi, inseguono i flussi di denaro e i monopoli di potere. I campi del bene e del male sono troppo intersecati per poterli distinguere, il tentativo di un gruppo di hacker di sovvertire l’ordine e denunciare crimini che lo stato avalla, si offuscano con le illusioni e visioni di Eliot, il protagonista con gli occhi da insetto.

Luc Besson – Leon – film still – 1994.

Ho da poco rivisto Leon, il film di Luc Besson del 1994. Dopo che la sua famiglia è stata trucidata per affari di droga, la ragazzina interpretata da Natalie Portman viene presa sotto l’ala e addestrata da un cecchino della mala italiana a New York. La migliore amica di Leon è una pianta d’appartamento: se ne prende cura con estrema attenzione e le sue giornate sono scandite dal bagnarla o spolverane le foglie, dal ritirarne il vaso la sera o metterlo sul davanzale la mattina seguente. La pianta è l’unica proprietà che li segue nei cambi di domicilio, e rappresenta l’unica àncora emotiva a un nomadismo dettato dalla professione. Alla fine del film, la ragazzina, rimasta sola e riammessa a scuola, esce nel prato antistante l’edificio scolastico e fa un buco per le radici della pianta. La camera, dal terreno, sale verso il cielo. The end.

 

Sam Esmail – Mr Robot – Elliot NY subway – film still – 2016.

More on Magazine & Editions

More on Digital Library & Projects

Iscriviti alla Newsletter

"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Caterina Riva
  • Caterina Riva è la direttrice artistica del MACTE-Museo di Arte Contemporanea di Termoli. Si è formata prima in Italia e poi a Londra, dove nel 2007 ha fondato con Francesco Pedraglio e Pieternel Vermoortel lo spazio no-profit FormContent. Dal 2011 fino al 2014 si è trasferita ad Auckland in Nuova Zelanda per dirigere Artspace. Dal 2017 al 2019 è stata Curatrice presso l’Institute of Contemporary Arts Singapore. È stata invitata a partecipare a seminari, residenze per curatori e conferenze in Europa, Australia, Cina, Stati Uniti, Russia e Libano.