Juliana Curi, fotogramma dal film da Uýra: The Rising Forest, 2022.
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Cybernetic Culture Research Unit

Il Numogramma Decimale

H.P. Lovercraft, Arthur Conan Doyle, millenarismo cibernetico, accelerazionismo, Deleuze & Guattari, stregoneria e tradizioni occultiste. Come sono riusciti i membri della Cybernetic Culture Research Unit a unire questi elementi nella formulazione di un «Labirinto decimale», simile alla qabbaláh, volto alla decodificazione di eventi del passato e accadimenti culturali che si auto-realizzano grazie a un fenomeno di “intensificazione temporale”?

K-studies

Hypernature. Tecnoetica e tecnoutopie dal presente

Avery Dame-Griff, Barbara Mazzolai, Elias Capello, Emanuela Del Dottore, Hilary Malatino, Kerstin Denecke, Mark Jarzombek, Oliver L. Haimson, Shlomo Cohen, Zahari Richter
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Dinosauri riportati in vita, nanorobot in grado di ripristinare interi ecosistemi, esseri umani geneticamente potenziati. Ma anche intelligenze artificiali ispirate alle piante, sofisticati sistemi di tracciamento dati e tecnologie transessuali. Questi sono solo alcuni dei numerosi esempi dell’inarrestabile avanzata tecnologica che ha trasformato radicalmente le nostre società e il...

Magazine , ESCAPISMI -Part II - June 2025
Caro Gervasi

Devirilizzare l’autismo

Contro l’extreme male brain theory
NeuroscienzeQueerStudi di genere

Andrea Crespo, still da “Parapagus”, 2017.

Il luogo comune vuole che l’autistico (uso il maschile volontariamente) sia difettoso di empatia, disinteressato ai rapporti umani e dedito a interessi assorbenti che pertengono ad ambiti ad alta sistematizzazione: treni, informatica e STEM in generale, meccanismi ripetitivi. Non so se chi legge abbia avuto la stessa subitanea impressione, ma mi ha sempre colpito l’evidenza che tale fenomenologia sia così espressamente maschile. Prendiamo per buona, solo per un momento, una granitica divisione tra i generi e chiediamoci a quale dei due generi sia concesso un certo grado di disinteresse nei confronti delle relazioni umane, a quale dei due generi sia concesso di mettere tra parentesi il mondo esterno per dedicarsi anima e corpo a un’attività che non implichi emotività, reciprocità e cura. Non amo particolarmente gli impliciti, ma credo che in questo caso sia davvero superfluo rispondere. 

È cosa nota, almeno tra persone autistiche, che le questioni inerenti all’autismo tendono a diventare interessi decisamente assorbenti. L’alacrità e la monomania con cui il/la neofita si dedica alla soddisfazione di tale curiosità può d’altronde creare un certo sgomento in chi si trova nei paraggi a testimoniare. Ritengo, e so per certo che diverse amiche sarebbero d’accordo, che osservare una persona autistica alle prese con lo studio e la ricerca intorno all’autismo stesso valga più dei vari test diagnostici somministrati dai signori professionisti.

Sono stato colpito anch’io dallo stesso flagello, da una fissazione persistente motivata dal sollievo per aver capito cosa diavolo ci fosse di particolarmente strano in me e alimentata da una rabbia senza fondo per la consapevolezza che sapere di essere autistico non mi dispensa dalla grande fatica dello stare al mondo, da tutte le difficoltà che il mio modo d’essere comporta. Non penso di avere il monopolio del dolore, ma credo che ci siano difficoltà che più di altre vengono invalidate, invisibilizzate, rispedite al mittente con gli interessi («sei troppo sensibile», «devi imparare a sforzarti», «vabbè, ma la vita è faticosa per tuttx», «e che cambia ora che lo sai?»). Ritengo che l’autismo rientri in questa categoria, soprattutto quando non si presenta nella forma canonica e stereotipata; vale a dire, quando a essere autisticx è qualcunx di diverso da un maschio bianco con un Q.I. talmente alto da far rivoltare Binet nella tomba per l’eccitazione. Per inciso, nessuna personale acrimonia per tutte le persone che rientrano, anche loro malgrado, nella categoria del savant, solo bile per il ricatto mascherato da inclusione che l’idea del supercrip porta sempre con sé.

Tornando a noi, la mia presa di coscienza di essere autistico è grossomodo combaciata con il mio prendere atto di non essere cisgender, di non identificarmi (né di essermi mai identificato) con il genere femminile assegnatomi alla nascita, di voler iniziare una qualche forma di transizione di genere. Le due prese di coscienza hanno avuto un decorso simile: precedute entrambe da varie gradazioni di negazione, hanno covato a basse temperature per lungo tempo per poi presentarsi in modo puntuale, attraverso l’abusato topos della confessione allo specchio. Ricordo con molta precisione i tragicomici momenti in cui mi sono guardato allo specchio e mi sono detto, nell’ordine, «guarda che sei trans», «ebbene sì, sei proprio autistico».11Ogni volta che mi prodigo in un coming out pubblico mi dico tra me e me che sarà l’ultimo, cerco di godermi appieno il friccicore e il sudore freddo. Puntualmente mi sbaglio. A volte mi addormento contando i coming out futuri. Quale sarà il prossimo? Impossibile dirlo, per ora.
Il fatto che li abbia qualificati come momenti tragicomici non deriva dallo sguardo retrospettivo, dal distacco bonario indotto dal senno di poi: mentre pronunciavo quelle fatidiche frasi mi veniva da ridere, le dichiarazioni piene di pathos hanno per me sempre un che di ridicolo. Dopo una prima fase in cui le due cose, l’essere autistico e l’essere trans, hanno proceduto su binari separati, complici nel minare la mia salute mentale ma diffidenti l’una verso l’altra, ho cominciato a intuire che, essendo due modi di stare al mondo, sarebbe stato impossibile separarli. Solo il DSM può ridurre modalità esistentive a un elenco discreto di sintomi, nell’esperienza i confini sono infinitamente più porosi. Credo che il mio essere autistico dia una particolare connotazione al modo in cui vivo il mio essere trans, e che il fatto di essere trans dia al mio autismo un outcome peculiare.“…Credo che il mio essere autistico dia una particolare connotazione al modo in cui vivo il mio essere trans, e che il fatto di essere trans dia al mio autismo un outcome peculiare.” A queste considerazioni personali, che hanno seguito un lungo periodo di meditazione e di ricerche ossessive sui due “temi”, si sono uniti altri fattori: la scoperta che l’autismo viene spesso usato per invalidare i percorsi di affermazione di genere di persone trans e non binarie e la scoperta e che la percentuale di persone autistiche che non si identificano con il genere assegnato alla nascita è sensibilmente più alta rispetto a quella della popolazione allistica.

Le due prese di coscienza non hanno avuto per me lo stesso portato in termini di angoscia e timore per ciò che avrebbero comportato nella mia vita. La trasgressione delle norme di genere, il tradimento del proprio sesso (sic) porta dritti dentro il territorio dell’abiezione e, cosa ancor più preoccupante per la mia personale sensibilità autistica, comporta un’esposizione a interazioni – dal curioso all’invadente, dall’imbarazzante all’intimidatorio – con persone più o meno sconosciute a cui sembra impossibile sottrarsi: oltre a tutte le situazioni in cui la visione del documento da parte di terzi può generare, a causa dell’eventuale discrepanza tra ciò che il documento dice22O crede di dire? Sicuramente ci crede così tanto che diventa vero.
e il modo il cui la persona si presenta, l’essere trans (o più in generale il non essere cis) sembra autorizzare, almeno nella percezione di persone che trans non sono, un’infrazione sistematica e mai problematizzata dei limiti personali, un’ingiunzione a fornire spiegazioni in merito alla propria stranezza“…l’essere trans (o più in generale il non essere cis) sembra autorizzare, almeno nella percezione di persone che trans non sono, un’infrazione sistematica e mai problematizzata dei limiti personali, un’ingiunzione a fornire spiegazioni in merito alla propria stranezza”, e se possibile a farlo col sorriso sulle labbra, dimostrando una certa riconoscenza a chi è disposto a impiegare il proprio tempo e la propria benevolenza per capirci meglio. Non sono in grado di enumerare le volte in cui mi è capitato di assistere o di sperimentare sulla mia pelle un’invasività e una brutale disattenzione delle norme conversazionali, un’impennata unidirezionale della confidenza a cui non è stato dato alcun consenso. Sono situazioni frustranti, e non serve certamente essere autisticx per viverle come tali. Eppure le mie difficoltà nella gestione delle relazioni interpersonali in presenza dà a questo tipo di scambi un carattere particolarmente penoso: oltre allo sgomento per una così plateale infrazione delle regole – già di per sé arbitrarie – che regolano gli scambi tra persone, la consapevolezza di non essere in grado di gestire la temperatura emotiva che potrebbe seguire a una mia replica e a un mio rifiuto di prestarmi alla soddisfazione della prurigine altrui mi porta a evitare ogni forma di conflitto, a rispondere a quanto mi viene richiesto, anche se è l’ultima cosa che desidero. Non penso tuttavia che la questione possa esaurirsi nell’elenco delle mie mancanze o delle mie peculiarità: è necessario spostare il focus, allargare il campo. Ciò che in tutta la questione mi turba maggiormente è osservare come le persone che ti fanno domande sullo stato presente e futuro dei tuoi genitali, del tuo ciclo mestruale, che ti interrogano senza mezze misure intorno a ciò che intendi fare del tuo corpo, che ti suggeriscono di andare in palestra per metter su un po’ di muscoli, che ti domandano notizie sul tuo “passing”,33E che trattengono a stento il loro disappunto quando non sei in grado di presentare loro precisi grafi sulla percentuale di misgendering dell’ultimo mese.
 che ti chiedono se la tua persona partner – mai nessuno che chieda delle tue amiche44Per scoprire il motivo vedi L. Petrachi, Rovine dell’amicizia. Il progetto incompiuto di Michel Foucault, Orthotes, Napoli-Salerno 2022.
abbia preso bene la cosa,55Ancora, gli impliciti non sono il mio forte, ma una domanda formulata in questi termini spesso sottintende che ci sarebbero state valide ragioni per non prenderla bene. E poi, il sorriso comprensivo e sollevato quando dico che è tutto okay, che la persona con cui ho una relazione non ha niente da obiettare, che, per usare un espressione che non amo particolarmente, mi supporta. «Sei fortunato», mi hanno risposto una volta. Come se non subire transfobia da una persona che amo fosse una botta di culo più unica che rara.
insomma, le persone che senza avvisaglie o precedenti abbassano le luci, ti invitano a sederti comodo sul divano rosso e ti impongono massicce dosi di confidenzialità non sono mai state attraversate dal dubbio di poter generare disagio, di risultare indelicate. Non si sono mai poste il problema che dare per scontato che una persona, solo per il fatto di essere trans e di essere out, sia in qualche modo tenuta a rispondere di buon grado a domande che, per giunta, sono mortalmente prevedibili e squallide, sia una forma di transfobia benevola. Mi sembra che alla base di una tale invasività ci sia quello che Sedgwick chiama «il privilegio epistemologico dell’ignoranza»: se molto spesso la conoscenza viene intesa come strumento di potere, quasi come suo sinonimo, è utile ricordare che anche attraverso un’ignoranza colpevole (poiché non motivata da un impedimento nella fruizione di quelle risorse che potrebbero fugare l’ignoranza stessa) si può esercitare un potere e mantenere un privilegio, col vantaggio di poter ostentare un certo candore e di potersi sentire legittimamente offesi se non si riceve una risposta giudicata adeguata. Secondo la teorica statunitense «si può provare una certa soddisfazione nel soffermarsi a notare fino a che punto il potere che i nostri nemici esercitano su di noi non consiste nella loro padronanza del sapere, ma nella loro ignoranza».66E. K. Sedgwick, Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità, trad. di Federico Zappino, Carocci, Roma 2011, p. 27.
 Soddisfazione masochistica, certo, ma più spesso rabbia e impotenza. In breve, essere trans mi espone allo sguardo e alla curiosità altrui in un modo autisticamente insostenibile. Autismo o non autismo, sarebbe già di per sé iniquo, ma non ho le risorse comunicative e relazionali per tenere testa a questa prurigine. A nessunx dovrebbe essere richiesto di rispondere individualmente a un’ingiustizia sistemica, ma ogni tanto qualche sfizio vorrei togliermelo anch’io. Le poche volte che ho provato a rispondere esternando la mia rabbia, personale e politica, la reazione dell’altra parte mi ha portato sull’orlo dello shutdown e delle lacrime. Ben oltre l’orlo, a dire il vero. Le volte che ho provato a rispondere con il mezzo espressivo a me più congeniale, vale a dire la scrittura, che per sua natura richiede un certo differimento, sono stato tacciato di vigliaccheria. Insomma, mi rode il culo.

La rabbia mi ha portato di nuovo altrove. Torniamo al nostro focus e vediamo in cosa consiste la teoria del «cervello estremamente maschile» formulata da Baron-Cohen, che nell’articolo The extreme male brain theory of autism suggerisce che «le due dimensioni trascurate necessarie per comprendere le differenze sessuali umane sono quella dell’empatia e della sistematizzazione».77S. Baron-Cohen, The extreme male theory of autism, «TRENDS in Cognitive Sciences», n.6, 2006, p. 248. Tutte le citazioni dall’articolo sono di mia traduzione.
 Con “empatia” Baron-Cohen designa «la spinta a riconoscere le emozioni e i pensieri di un’altra persona, e a rispondervi con un’emozione appropriata», e l’empatia è «ciò che permette di prevedere il comportamento di un’altra persona e di avere a cuore ciò che l’altra persona prova».88Ibidem.
 La sistematizzazione è invece «la spinta a costruire sistemi» e ciò «che permette di prevedere il comportamento di un sistema, e controllarlo».99Ivi, p. 250.
 In soldoni: il cervello maschile eccelle in sistematizzazione e pecca di empatia, quello femminile spicca per capacità empatica ma lascia a desiderare in quanto a sistematizzazione. È importante rimarcare che Baron-Cohen parla di differenze biologiche, di propensioni spontanee, su cui eventualmente possono intervenire pressioni e costruzioni culturali, su cui possono inserirsi aspettative sociali, ma che restano comunque inscritte nella fisiologia di quel prodigio che è il cervello umano. 

Beck Gilmer-Osborne, fotogrammi da “A Thousand Cuts”, 2018.

Alla questione dell’empatia Baron-Cohen ha consacrato più di trent’anni di ricerca scientifica. Nel suo libro dedicato all’empatia e alla crudeltà, e al modo in cui la seconda derivi da un’erosione della prima, lo studioso elenca i dieci punti che compongono il Quoziente di Empatia, un questionario messo a punto insieme a delle colleghe per assegnare a ogni persona un punteggio nello spettro empatico. Baron-Cohen ci tiene a farci sapere che «lavorare con queste colleghe creative è stato piacevole»1010S. Baron-Cohen, La scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012, p. 67.
 e noi non possiamo che rallegrarci del fatto che il nostro scienziato abbia trovato nelle collaboratrici una compagnia così gradevole. Vi cito alcuni punti del questionario rilevanti per il nostro discorso: «mi dà soddisfazione prendermi cura di altre persone»; «spesso mi dicono che vado troppo in là nel sostenere il mio punto di vista in una discussione»; «le amicizie e le relazioni sono semplicemente troppo difficili da curare, quindi me ne tengo lontano»; «in una conversazione, tendo a concentrarmi sui miei pensieri piuttosto che su ciò che il mio ascoltatore potrebbe pensare».1111Ivi, p. 134.
 Questi parametri ci vengono presentati come modi in cui il circuito neurale dell’empatia si attiva (o non si attiva), producendo un certo comportamento: «immaginate che nel cervello ci sia un circuito, il circuito dell’empatia, che determinala quantità di empatia che avete».1212Ivi, p. 137.
 Domandandosi perché il meccanismo di empatizzazione di un individuo non faccia il suo dovere, Baron-Cohen afferma «che la risposta più immediata è che ciò dipende dal funzionamento di un particolare circuito cerebrale».1313Ibidem.
 Prosegue poi a elencare i danni, localizzabili in varie aree del cervello, che causano una mancata risposta empatica. In questo quadro, il fatto di provare un certo disinteresse nei confronti della cura e delle relazioni e la caparbietà nel portare avanti la propria opinione senza riguardi per l’interlocutore (comportamenti sintomatici di una scarsa empatia) non hanno niente a che vedere con una diversa socializzazione di genere, col fatto che a chi è stato assegnato il genere femminile riceva nel pacchetto anche un’ingiunzione a non occupare troppo spazio, a essere impegnata in una costante attività di monitoraggio dei bisogni e del benessere altrui, né che chi sia stato assegnato al genere maschile sia incentivato a muoversi con disinvoltura e sicumera nella conversazione, a prendersi tutto il tempo e lo spazio di cui crede di aver bisogno per dire quello che ha da dire. E che dire della mutilazione emotiva a cui il genere maschile è sottoposto a partire dai primi anni di vita?1414«Tutti i bambini della nostra società sono mutilati. […] Non si taglia la stessa cosa a tutti, ma a tutti si taglia qualcosa. Esempio: le bambine sono private della loro forza muscolare, il loro bisogno di azione si ritorce contro loro stesse; i bambini sono privati delle loro emozioni, segati a metà. […] La devastazione è universale», C. Rochefort, Prima i bambini, Ferro Editore, Milano 1979, p. 47.
Non potrebbe avere qualche influenza nel considerare le relazioni umane «troppo difficili da curare»? Baron-Cohen è perfettamente a conoscenza della differente distribuzione di genere di questi comportamenti collegati alla sfera empatica. Ad esempio, parlando della propensione a evitare che la conversazione viri su argomenti connessi alle emozioni, nota che «a questo livello vi sono più uomini che donne: preferiscono risolvere i problemi facendo qualcosa di pratico o offrendosi di sistemare qualcosa da un punto di vista tecnico, piuttosto che avere lunghe discussioni sui sentimenti», e che l’amicizia tra uomini «può basarsi più su attività e interessi condivisi che su un’intimità emotiva, senza per questo essere meno piacevole e forte».1515Ivi, p. 152.
 Specularmente, tra gli individui che hanno un’empatia superiore alla media vi sono più donne che uomini, e qui «le amicizie possono essere più basate sull’intimità, sulla condivisione di confidenze, sul sostegno reciproco e sulle espressioni di simpatia». Inoltre questi individui (ovvero, le donne) «si trattengono dal far valere la propria opinione, in modo da non dominare o intromettersi, non hanno fretta di prendere decisioni unilaterali, in modo da poter consultare altri e prendere in considerazione una serie di prospettive».1616Ivi, p. 153.
 Questa ripartizione che segue la linea del genere non è però, a sua opinione, determinata da fattori ambientali, dall’educazione, dal binarismo, dall’eterosessualità. Niente di tutto questo, si tratta di una differenza essenziale tra cervello maschile e cervello femminile. A quest’ultimo argomento Baron-Cohen ha dedicato uno studio a parte, di cui vale la pena di citarne qualche passaggio. L’esordio dell’opera è eloquente: dopo aver riconosciuto che affermare che tra psiche maschile e femminile esista una differenza essenziale sia in qualche modo controverso, il nostro autore ci propone senza mezzi termini la teoria centrale del libro: «il cervello femminile è programmato per l’empatia. Il cervello maschile è programmato per la comprensione e l’elaborazione di sistemi».1717S. Baron-Cohen, Questioni di cervello. La differenza essenziale tra uomini e donne, Mondadori, Milano 2004, p. 5.
 Bene. Qualche pagina più avanti arriva, con democristiano tempismo, una professione di progressismo e apertura mentale: per quanto scettico nei confronti della deriva sessantottina e contestataria che rifiutava stolidamente e ideologicamente qualsiasi spiegazione essenzialista, il nostro Simon non vuole nemmeno ricondurre tutte le differenze alla sola biologia. È ben consapevole che «secondo qualcuno» cercare di individuare differenze tra i sessi possa in qualche modo perpetrare un atteggiamento sessista, ma non è questo il suo caso. Nessun sessismo dalle sue parti, tutto il contrario: «nessuno mette in dubbio che le donne siano state oppresse e l’ultima cosa che desidero è rinfocolare i sessismi; ma non desidero nemmeno opprimere gli uomini, come sembra abbiano voluto fare alcuni saggisti». E poco dopo la candida domanda: «non è forse possibile farsi delle domande in merito alle differenze senza offendere né l’uno né l’altro sesso?».1818Ivi, p. 6.
 No, non è possibile, perché già la stessa formulazione della domanda è lesiva, col suo richiamo all’uno e all’altro sesso, con la sua capziosa naturalizzazione del binarismo.

In questo quadro di sessismo naturalizzato, di iniquità neurologizzata, l’autismo si situerebbe addirittura oltre il polo maschile, la fenomenologia autistica sarebbe espressione di un cervello estremamente maschile (extreme male brain): se i maschi scarseggiano in quanto a empatia, la – a opinione di Cohen – conclamata mancanza di empatia degli autistici li renderebbe molto più virili del maschio medio. Lo stesso vale per la loro attenzione al sistema, per la loro ossessione per computer e tabelle, che va da sé, sono interessi squisitamente maschili. E cosa ci dice Baron-Cohen delle – sempre secondo lui – sparute ragazze e donne autistiche? Semplice, che hanno interessi tipicamente maschili. Vale a dire, che sono anomale, e che la loro anomalia risiede proprio nel non condividere il destino neurologicamente congenito del loro sesso. E se una ragazza autistica non fosse interessata all’ingegneria, ma, chessò, alla letteratura? Alla psicologia? Alle belle arti? Il suo autismo vacillerebbe. E se un ragazzo autistico fosse interessato alle scienze umane o alla botanica piuttosto che alla programmazione informatica? Molto improbabile che sia autistico. Ma si sa, le eccezioni esistono. E se una persona autistica facesse una fatica immane a comprendere il funzionamento del genere? Se non vivesse esperienze di identificazione di genere intellegibili nel reame del binarismo eterosessuale? Se del genere avesse, come parlerò a breve a proposito della mia esperienza, un’esperienza del tutto esterna? Se fosse trans, se fosse non binaria, se preferisse non situarsi, nemmeno all’interno di una concezione fluida dei generi? [A questo punto Baron-Cohen e i suoi assistenti frugano nervosamente nelle loro scartoffie, per dare l’illusione di prendere sul serio la domanda. Poi fanno spallucce. Tutto questo non è previsto, tante scuse]. 

Andrea Crespo, virocrypsis, 2015,

Aspetti signor Cohen. E se la mancanza di empatia del maschio autistico, come la chiama lei, fosse corroborata dalla sua educazione di genere, che consente e incoraggia una disattenzione verso la cura? Non è forse vero che il lavoro di cura è appannaggio del gentil sesso? Cosa dice? Le donne sono naturalmente portate alla cura e all’accudimento? Beh, se così fosse, se tutta questa irresistibile voglia di accollarsi il prossimo sgorgasse naturalmente dalle ghiandole empatiche della femmina d’homo sapiens, com’è che qualsiasi deviazione da questo naturalissimo destino incontra sanzioni così ingombranti? E se dicessi, dottor Cohen, che la sua edificante teoria ha contribuito (la colpa non è esclusivamente sua, glielo concedo) all’invisibilizzazione dell’autismo femminile? Com’è che un fine luminare come lei non ha mai pensato che le aspettative di appropriatezza e di reciprocità che gravano sulle persone cresciute come donne [Baron-Cohen alza il sopracciglio e prende un appunto] producano un masking feroce che in alcun modo smorza la sofferenza? Che per una persona cresciuta come donna [sopracciglio di nuovo alzato] disattendere le aspettative durante un’interazione in presenza ha un costo più alto? Non ha mai riflettuto su come la tolleranza dell’eccentricità sia legata anche al genere della persona eccentrica? Che esiste un’eccentricità virtuosa, riverita, spesso sintomo di genialità, e un’eccentricità sospetta, che desta perplessità e apprensione. [Baron-Cohen comincia a guardare l’orologio. I suoi assistenti danno segni di irrequietezza]. E che dire di tutte quelle persone che non hanno nemmeno il privilegio di essere svilite dalla sua teoria, di tutte quelle persone che nella sua teoria manco ci stanno? Pare che proprio queste persone, che non hanno un’esperienza del genere che possa in alcun modo essere ricondotta al binarismo maschio-femmina (termini suoi), abbiano una probabilità più elevata delle altre di essere autistiche. Non ci sono ancora solide teorie scientifiche in merito – e non è detto che questo sia un male – ma il ragionamento fila che è una meraviglia: l’autismo è legato a una difficoltà nella gestione delle aspettative, per lo più implicite, che regolano l’interazione sociale. Ora, le aspettative legate al genere sono capillarmente distribuite e pervadono le relazioni interpersonali. Mi sembra più che ragionevole aspettarsi che le persone autistiche abbiano un modo peculiare di relazionarsi a una costruzione così arbitraria e irreggimentata, che possano trovare difficile orientarsi in ciò che moltx sembrano assorbire e riproporre spontaneamente. [Baron-Cohen mi assicura che considererà seriamente la questione e vedrà cosa può fare]. Simon, faccia a tuttx un gran favore, lasci perdere. Non faccia niente. Ha già fatto abbastanza. I test diagnostici che ha contribuito a creare sono imbottiti di questa visione sessista e stereotipata. Non è un caso se, raccontando delle impressioni raccolte durante la compilazione di questionari a fini diagnostici, la giornalista svedese Clara Tornvall ha commentato che la scheda di valutazione la giudica in base a quanto risulta “maschio”.1919 Vedi C. Tornvall, Autistiche. Donne nello spettro, Lit Edizioni, Roma 2023.

Concedetemi adesso un po’ di autoteoria. E concedetemi, in questa sezione, di non essere sistematico, consequenziale, ordinato ed esaustivo. Ho bisogno di buttare fuori un po’ di cose che sono ancora in uno stato grezzo. Da quando ho per la prima volta saputo della maggiore incidenza di autismo nelle persone trans*, non binarie e in generale non conformi alla norma eterosessuale, ho cominciato a pensare ossessivamente a come questa cosa potesse ragionevolmente spiegarsi. Questo tentativo di comprensione era mosso da un grande investimento personale: due aspetti della mia vita che fino a quel momento avevo reputato concomitanti ma sostanzialmente distinti forse erano connessi in un modo che non avevo preventivato. Le due realizzazioni, di essere trans e di essere autistico, sono state accompagnate da delle ricostruzioni retrospettive della mia vita alla luce delle nuove informazioni acquisite. Si tratta di una reazione piuttosto comune (almeno stando a quello che ho avuto modo di vedere) e che può avere un effetto benefico e liberatorio, soprattutto per chi per lungo tempo ha dovuto mettere da parte desideri e modi di vita o sottostare a imperativi che producevano sofferenza. Oltre a questo, il ripercorrere la vita per “stabilire” la validità della condizione è richiesto nel percorso diagnostico dell’autismo e dell’incongruenza di genere. Le condizioni per soddisfare entrambe le diagnosi psichiatriche devono infatti essere persistenti e rinvenibili fin dall’infanzia. Farlo da solo, fuori dal contesto medico-diagnostico, ha avuto esiti interessanti e sorprendenti: il mio autismo e la mia transness sono non solo collegati, sono inseparabili. Da quando ho memoria, ho sempre avuto con il genere un rapporto conflittuale ed esterno. Ho avuto sin dai primi anni una dolorosa, seppur irriflessa, consapevolezza della centralità delle norme di genere nei rapporti umani, la sensazione che non ci fosse un ambito della vita al riparo da quella arbitrarietà mi causava un’angoscia persistente. Ho studiato con apprensione cosa fosse richiesto ai maschi e cosa fosse richiesto alle femmine, e ho constatato con sgomento che non potevo stare nella metà a me destinata. Le spiegazioni anatomiche della differenza sessuale mi sembravano sospette e del tutto insoddisfacenti. I maschietti hanno il pisellino e le femminucce hanno la farfallina. Ricevuto amico, ma questo non spiega perché il mio compagno venga preso in giro da tutti perché gioca con le femmine. Perché ai maschietti piace giocare con le macchinine, con le pistole, a calcio. Ma a lui no, altrimenti lo farebbe e basta. Non è un maschio quindi? Smette di avere il pisellino perché piuttosto che giocare con i nostri compagni di classe a ricreazione preferisce stare in classe da solo? E io, che preferisco giocare a calcio, smetto per questo di avere la farfallina? Non la voglio la farfallina, se per colpa sua mi devo sucare la cucina giocattolo e le bambole e per giunta fare finta che mi stia bene perché sennò vi turbate voi. A volte mi domando se quelle che in sede diagnostica vengono considerate avvisaglie della disforia di genere a venire non siano invece manifestazioni di una precoce insubordinazione alle spiegazioni essenzialiste che ci vengono propinate quando siamo piccolx, in balia del potere di cui gli adulti dispongono legittimamente su di noi. Le femminucce, che sono fatte così, fanno queste cose e si comportano in questo modo. Ma io non voglio fare queste cose, quindi rigetto il mio corpo, su cui grava un destino che mi fa mancare l’aria. Il senso di apprensione e incomprensione che provavo verso le norme di genere è lo stesso che ho sempre provato nei confronti della socialità e della relazionalità umana. Gli scambi e le associazioni di esseri umani mi sono sempre sembrati governati da una fitta e intricata massa di regole, convenzioni, prescrizioni, limiti pericolosi da oltrepassare. I giochi di sguardi, i turni di parola, le espressioni facciali, i sorrisi, la prossemica, mi è sempre sembrato tutto altamente formalizzato e schematico. Non capivo come facessero tutte le altre persone a sembrare così disinvolte e a proprio agio. Per lungo tempo mi sono convinto che tutte mentissero, anche se non mi sembrava una cosa intelligente da fare. Per simulare quel grado di naturalezza dovevo fare uno sforzo enorme, tenere a mente tutti i parametri da spuntare per avere uno scambio “normale”, per non essere considerato strano. Un altro forte sospetto che ho sviluppato pensando alla mia infanzia è che io mi sia dirottato verso la maschilità (ero, di fatto, a forma di bambino, impegnato in molte attività considerate maschili) perché ai maschi era concessa una certa sbrigatività e sobrietà in quanto a relazioni interpersonali. Non credo di avere mai espresso il desiderio di diventare maschio. Tendo, ed è sempre stato così, a non fantasticare su cose che reputo implausibili o irrealizzabili, quindi probabilmente il motivo è stato quello. Ma, se provo a concentrarmi e a tornare nei miei panni di bambino, non ricordo di essermi mai sentito un bambino, né una bambina. Non capivo perché una femmina non potesse rotolarsi in santa pace nel fango, ma non capivo nemmeno perché un maschio non potesse piangere in altrettanta santa pace. I rimproveri a cui i bambini e le bambine venivano sottoposti quando si comportavano in modo “inappropriato” mi sembravano crudeli e illogici. Con l’adolescenza ho cercato strenuamente di ingoiare la mia “legittima” stranezza, ma i risultati hanno lasciato a desiderare. La mia difficoltà nella socialità e la mia incongruità di genere andavano di pari passo e molto spesso le sanzioni da parte dei miei coetanei e delle mie coetanee passavano proprio attraverso una segnalazione della mia mancata femminilità. 

 

Non sento il genere, non lo sento dentro, mi arriva da fuori. È una presenza infestante e spettrale.2020Vedi J. Davidson, S. Tamas, Autism and the ghost of gender, «Emotion, Space and Society», n. 19, 2016.
Ho capito il suo meccanismo, l’ho studiato per sopravvivenza e per interesse politico, ma continua a sembrarmi ingiusto nel modo in cui sembrano ingiuste le cose insensate che, come se non bastasse, fanno stare male le persone. L’ho capito a forza di sbatterci il muso, ma continuo a non provare niente. Questo non significa che io sia libero dalle sue imposizioni e dalla sua violenza. Tutto il contrario, mi arriva tra capo e collo con una brutalità sempre rinnovata. Intorno all’incidenza significativa di autismo tra persone trans e non binarie si sono sviluppate alcune ipotesi. La mia preferita, quella che sento più vicina alla mia esperienza, è quella che spiegherebbe la difficoltà ad adattarsi al binarismo e alle norme di genere con l’ipotesi secondo cui le persone autistiche avrebbero un senso del sé poco sviluppato. Detto così suona offensivo, e di fatto è un’ipotesi che viene posta in termini immancabilmente deficitari e che viene spesso usata per privare le persone autistiche di agency. Penso però di volermene riappropriare: non sento di avere confini stabili, non sperimento identificazioni (di genere, ma non solo) solide, non sono in grado di indicare dove inizio io e finisce il mondo esterno, il linguaggio metaforico che afferisce all’ambito dell’introspezione e dell’interiorità mi risulta stridente e incomprensibile. Se con Io intendiamo ciò che è nostro possesso stabile, ciò che inizia e finisce con noi, allora il mio Io è vuoto quanto il mio portafoglio. Bettelheim aveva definito, in modo ben poco lusinghiero, gli autistici “fortezze vuote”. La vuotezza me la rivendico a modo mio, ma l’esser fortezza no. Mi sento permeabile, attraversabile, vulnerabile.

Per dare una frame alla mia voglia di cambiamento ho cercato di introiettare la narrazione canonica della transessualità: una verità impronunciabile custodita nel profondo, una titanica conquista di ciò che si è veramente, una guerra perpetua contro un corpo sbagliato, e l’autenticità raggiunta a coronare l’impresa e a riscattare da tutto il dolore. Tanto, tanto, tanto coraggio. Tutta questa melassa cozzava però con quello che vedevo intorno a me: percorsi di affermazioni di genere lunghi e invasivi, transfobia generalizzata, standard di risultati” fortemente binari. Mi sembra che si sia fatto di tutto per rendere la vita delle persone trans* faticosa e accidentata, per poi additare come faticosa e accidentata la condizione di trans* in sé. Oltre a rifiutare politicamente tutto questo, non sento niente di corrispondente. Il mio essere trans è legato al modo in cui il genere, ovvero il binarismo, struttura la società in cui vivo. È circostanziale, contingente, come circostanziale e contingente è la transizione che ne può eventualmente conseguire. In un certo senso, il mio genere non mi appartiene. So che può sembrare avvilente messa in questi termini, ma penso che il sacrosanto diritto all’autodeterminazione debba andare insieme alla consapevolezza della posta in gioco collettiva e di ciò che sfugge al dominio del volontarismo neoliberale. 

La mia diagnosi di autismo suggerisce che il mio cervello sia maschile. La mia diagnosi di disforia si fa portavoce, ma in realtà prescrive, la mia presunta «forte convinzione di avere i sentimenti e le reazioni tipiche del mio genere di elezione». Mi dissocio da tutto questo e, consapevole della fatica e dell’esposizione che conseguono a ogni deviazione dalla norma, mi disidentifico per quanto posso e per quanto riesco. Sono, per fortuna, in ottima compagnia.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Caro Gervasi
  • Caro Gervasi è dottorando, i suoi ambiti di interesse sono gli studi sulla mascolinità, la teoria queer e gli studi sulla disabilità. Fa parte del collettivo Dalla Ridda, con sede a Bologna. Nel 2023 è uscito per i tipi di Eris il romanzo breve L'espropriazione.
Bibliography

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Davidson, J., Tamas, S., Autism and the ghost of gender, «Emotion, Space and Society», n. 19, 2016.

Rochefort, C., Prima i bambini, Ferro Editore, Milano 1979.

Petrachi, L., Rovine dell’amicizia. Il progetto incompiuto di Michel Foucault,, Orthotes, Napoli-Salerno 2022.

Sedgwick, E. K., Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità, trad. di Federico Zappino, Roma, Carocci, Roma 2011.

Tornvall, C., Autistiche. Donne nello spettro, Roma, Lit Edizioni, Roma 2023.