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Dalla famiglia eteropatriarcale alle famiglie arcobaleno
Magazine, MITO – Part II - Giugno 2019
Tempo di lettura: 24 min
Veronica Sicari

Dalla famiglia eteropatriarcale alle famiglie arcobaleno

Un excursus normativo e giurisprudenziale sulla disciplina e la tutela delle unioni omoaffettive nella storia del diritto italiano: dalla disuguaglianza di genere dell’eteropatriarcato alla svolta epocale della Legge Cirinnà.

Maurizio Anzeri, Family Day, courtesy and copyright the artist.

 

Omosessualità nel diritto antico e moderno e gerarchia familiare dell’eteropatriarcato

L’eco del mito della famiglia eteropatriarcale ha origini lontane nel tempo. L’idea per cui l’unico modello di famiglia possibile, secondo le leggi di natura, della morale e persino di Dio, fosse quella creata dall’unione di un uomo e di una donna è sopravvissuta allo scorrere dei secoli, insinuandosi tra le pieghe delle codificazioni e condizionando il sentire comune. È stata innalzata a vessillo religioso prima e a slogan di partito poi. Ha trovato la sua fortuna nello scopo che le è stato attribuito; non solo, o non soltanto, luogo di elezione degli affetti più profondi, esempio primigenio della più nobile tra le pulsioni umane, la solidarietà, è stata concepita quale unico istituto capace di garantire al meglio l’atavica e primaria funzione umana: la sopravvivenza della specie attraverso la riproduzione.

Durante i lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Piero Calamandrei sottolineò la discrasia tra il sistema familiare, fortemente patriarcale, disegnato dal Codice Civile, e il testo inserito nella redigenda Carta Costituzionale, che espressamente prevedeva l’“eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.

Le relazioni eterosessuali, quindi, hanno sempre trovato riconoscimento e tutela attraverso la previsione di atti normativi tesi a normalizzarle, legalizzarle e disciplinarne i vari aspetti. Lo stesso non può dirsi a riguardo delle relazioni omosessuali. L’approccio della società, e dunque della morale corrente, nonché del diritto, non è sempre stato lo stesso nel corso della storia. Per fare un esempio, in epoca classica la pederastia, benché accettata come naturale, non trovò mai riconoscimento in alcun atto legislativo11Nel saggio a firma di Mariarosa Calace, L’omosessualità in una prospettiva storico-culturale, l’autrice chiarisce come nel mondo antico esistessero numerose testimonianze di omosessualità sia maschile sia femminile, sottolineandone, tuttavia, una differenziazione. Le uniche relazioni omosessuali considerate legittime erano quelle maschili, tra l’uomo romano e schiavi o prostituti, e solo a condizione che l’uomo romano svolgesse un ruolo attivo. Dunque, secondo i canoni della morale pagana, a essere condannabile non era l’omosessualità in sé, ma l’eventuale passività sessuale dei cives. Diversa era, invece, la morale con riguardo all’omosessualità femminile. Le donne, a prescindere dal loro status (se sposate, nubili o vedove) subivano, tra le altre proibizioni, quella di intrattenere relazioni affettive con altre donne.
. Nel suo volume Dammi mille baci, la storica del diritto antico Eva Cantarella sottolinea come tanto i greci quanto i romani non conoscessero il termine né il concetto di omosessualità.22L’interesse, soprattutto medico, per la sfera sessuale, le sue pulsioni, le sue manifestazioni, nonché la stessa creazione del termine “omosessualità” per indicare rapporti e relazioni tra persone dello stesso sesso, si avrà soltanto nell’Ottocento.
 In altre parole, non sussistevano, all’epoca, atti normativi che legalizzassero unioni tra persone del medesimo sesso né che riconoscessero l’orientamento sessuale quale fonte di diritti o doveri in capo a taluno.

È con l’avvento del Cristianesimo che l’omosessualità cominciò a essere stigmatizzata come perversione peccaminosa, divenendo nel tempo un reato perseguibile e punibile con sanzioni severe.33Nel 538 d.C., con il Corpus iuris civilis giustinianeo si introdussero pene corporali come la tortura, la mutilazione e la castrazione per gli omosessuali, giungendo persino a prevedere la pena di morte. In tale contesto, non si fece più riferimento al ruolo attivo o passivo ricoperto nel rapporto dal cittadino romano, ma si ritenne di applicare il marchio di ignominia e di reità alla pederastia in quanto tale.
È invece a partire dall’Ottocento che l’omosessualità suscita l’attenzione della medicina, che la definisce come una vera e propria patologia mentale, più o meno guaribile con trattamenti di mortificazione personale, prima ancora che del corpo, dell’anima e dell’identità.44Nel 1868 un medico berlinese specializzato in patologie mentali, Wilhelm Griesinger, definì i rapporti tra persone dello stesso sesso come una malattia mentale e invitò la comunità scientifica ad analizzare e studiare la mente dei pazienti che ne erano affetti.
Mentre oggi, con il riconoscimento della libertà individuale e di tutte le sue articolazioni, tra cui quella legata alla sfera sessuale quale diritto universale dell’individuo, l’omosessualità viene comunemente considerata come un aspetto della personalità. Non più patologia né elemento atto a minare le fondamenta della società civile, dell’ordine precostituito, e dunque penalmente perseguibile.55Nonostante il Codice penale del 1938, a differenza di quello tedesco, non contenesse alcuna disposizione concernente l’omosessualità, il fascismo l’avversò, in quanto contrastante con l’idea di uomo nuovo che il regime mirava a plasmare. Per la morale fascista, l’omosessualità è aberrazione talmente grave per la morale italica da non meritare nemmeno una menzione nel diritto dell’epoca. Tuttavia le condanne per gli omosessuali sono numerose; la più frequente è il confino. Il docente Lorenzo Benadusi, nel suo volume Il nemico dell’uomo nuovo, affronta il rapporto tra fascismo e omosessualità.
Tuttavia, il diritto di famiglia, che più di ogni altra branca del diritto fatica a trovare autonomia rispetto ai retaggi del passato, sebbene spesso inglorioso, conserva reticenze e resistenze con riguardo alla piena equiparazione tra famiglie eterosessuali e famiglie omosessuali.

Se è vero che il mito è la narrazione, amplificata e popolare, di concetti in grado di divenire simboli di comportamenti e atteggiamenti umani, e al tempo stesso strumenti di coesione ideologica e di conservazione sociale, la famiglia ben incarna tale concetto. Sino all’entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia, con la legge 9 maggio 1975, n. 151, la sola famiglia riconosciuta come legittima nel nostro ordinamento era quella scaturente dall’unione in matrimonio di un uomo e una donna, così come previsto dal Codice civile. I rapporti tra i due coniugi erano soggetti a un ordine gerarchico, in cui il marito esercitava non soltanto potestà patria sulla prole, ma anche quella maritale sulla moglie. Ciò si traduceva non solo in una supremazia patrimoniale, ma in una vera e propria superiorità giuridica del marito nei confronti della moglie. Ben lungi dal configurare un rapporto paritetico di diritti e obblighi reciproci, il legislatore del ’42, recependo quanto già sancito sotto il vigore del precedente Codice, aveva immaginato una scala gerarchica in cui la donna era destinataria di obblighi e posta sotto la tutela e il dominio del pater familias. Già sotto la vigenza del Codice Pisanelli del 1865, alcune intellettuali dell’epoca, femministe ante litteram, avevano sollevato la questione dell’emancipazione femminile sin dalla disciplina legale della famiglia. Un esempio tra tutte è Anna Maria Mozzoni, che in uno dei suoi numerosi scritti destinati alle cariche politiche del tempo affermava:

«Nell’organismo domestico, la donna rappresenta il parassitismo e la servitù. L’autorità materna è la virtualità senz’atto. La condizione della sposa è la servitù sotto l’insegna dell’eguaglianza. Davanti al diritto di proprietà è minore; l’anormalità è per lei normalità. Fuori della famiglia ella ha una esistenza fortuita, miserabile o indecorosa nella gran maggiorità dei casi».66Cf. Anna Maria Mozzoni, La liberazione della donna, introduzione di Donatella Alfonso, prefazione di Fiorenza Taricone, All Around, 2018.

“Nell’organismo domestico, la donna rappresenta il parassitismo e la servitù. L’autorità materna è la virtualità senz’atto. La condizione della sposa è la servitù sotto l’insegna dell’eguaglianza. Davanti al diritto di proprietà è minore; l’anormalità è per lei normalità. Fuori della famiglia ella ha un’esistenza fortuita, miserabile o indecorosa nella gran maggiorità dei casi”, Anna Maria Mozzoni, pioniera del movimento femminista italiano.

Nemmeno l’avvento della Costituzione repubblicana del 1948 avrà la forza di modificare l’assetto legale del modello eteropatriarcale di famiglia. L’art. 29 Cost., norma in cui la famiglia trova esplicito riconoscimento e tutela, afferma che «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», riconoscendo, dunque, come famiglia solo quella scaturente dall’atto giuridico matrimoniale. L’Assemblea costituente intese concepire la norma come un riconoscimento di qualcosa che preesiste alla Carta Costituzionale e prescinde dalla previsione normativa in sé intesa.

Autorevole dottrina77In tal senso, Francesco Gazzoni.
ha avuto modo di precisare che:

«La qualificazione della famiglia in termini di società naturale non sta dunque a significare adesione alla concezione cattolica che ritiene la famiglia regolata dal diritto naturale, espressione a sua volta di una volontà superiore e trascendente. Con tale espressione si è voluto in sostanza solamente sottolineare l’esistenza dell’istituto familiare a prescindere dalla previsione legislativa. La famiglia è dunque un’entità di carattere sociale prima ancora che giuridico e il diritto può solo regolarne taluni aspetti, soprattutto per quanto riguarda i profili direttamente o indirettamente patrimoniali che a essa si ricollegano […]. La disposizione costituzionale, dunque, ha da un lato un valore, per così dire, enunciativo di una realtà che si riconosce già esistente, ma dall’altro ancorando la famiglia al matrimonio pone le basi per una qualificazione formale in termini giuridici che ha un’importanza decisiva in sede di concreta disciplina, dovendosi negare carattere di famiglia in senso giuridico a ogni forma di convivenza che, pur socialmente accreditata, prescinda dal vincolo matrimoniale, per riconoscerlo invece unicamente alla cosiddetta “famiglia legittima”, la quale non solo risponde alle caratteristiche di società naturale presupposte dall’art. 29 Cost. ma rispetta anche il profilo formale».

Tuttavia, al secondo comma, la disposizione sembrerebbe infrangere l’impostazione gerarchica del modello familiare prevista dal Codice civile, testualmente disponendo che «il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare». La norma scardinava l’equilibrio gerarchico allora vigente, citando esplicitamente un’eguaglianza morale e giuridica tra i coniugi, e proprio per questo finì per sollevare, già in sede di lavori della Costituente, vigorose reazioni di eminenti giuristi. Eppure, tra questi non mancarono voci tese a sottolineare non solo la discrasia tra Costituzione e leggi vigenti, ma anche la necessità di adeguare queste ultime con il dettato egualitario. Uomini come Calamandrei88In sedi di lavori preparatori della Costituente, Calamandrei sottolineò la discrasia tra la Carta costituzionale e il Codice civile, ove «il capo della famiglia è il marito, è lui che dà il cognome alla moglie, è lui che stabilisce il domicilio della famiglia, e la moglie è obbligata a seguire il marito e non viceversa» (la citazione è tratta da La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Roma, 1971, vol. II, Seduta del 17 aprile 1947, 947, cit. in Archivio Penale, fasc. II, LXX, F. Serpico, Diritto penale e valori culturali. Note sul delitto d’onore nell’Italia unita, p. 305.
fecero notare la contraddizione sussistente tra il principio dettato all’art. 29 Cost. e la disciplina basata sulla disuguaglianza familiare delle norme civilistiche.

Prima del 538 d.C., anno dell’emanazione del Corpus iuris civilis giustinianeo, l’omosessualità maschile del cittadino romano veniva tollerata, a patto che questi mantenesse, nel rapporto sessuale, un ruolo attivo. Il Corpus iuris, al contrario, condannò l’omossessualità in quanto tale, introducendo per coloro i quali si fossero macchiati di tale ignominia, pene corporali come la tortura, la mutilazione e la castrazione, giungendo persino a prevedere la pena di morte.

 

Gli interventi normativi per l’uguaglianza di genere

La famiglia eteropatriarcale, fortemente gerarchica e fondata sulla riconosciuta ed espressa minorità giuridica della moglie, era, per l’orientamento dominante dell’epoca, il fulcro su cui ruotavano i concetti stessi di società e di ordine sociale. Nondimeno, l’uguaglianza in parola troverà espressa cittadinanza all’interno del nostro ordinamento soltanto negli anni successivi all’entrata in vigore della Carta costituzionale, attraverso una serie di interventi normativi, come la legge sulle adozioni speciali del ’67, la legge introduttiva del divorzio del ’70 e i vari interventi della Corte Costituzionale tramite cui fu dichiarata l’illegittimità costituzionale di tutte le norme del Codice penale che prevedevano fattispecie diretta conseguenza della disuguaglianza tra i coniugi. Si pensi, a tal proposito, alle norme sull’infedeltà coniugale della moglie99Art. 599 cod. pen., abrogato con la sentenza 19 dicembre 1968, n. 126 e 3 dicembre 1969, n. 147, che disponeva che «La moglie adultera è punita con la reclusione fino a un anno. Con la stessa pena è punito il correo dell’adultera. La pena della reclusione è fino a due anni nel caso di relazione adulterina. Il delitto è punibile a querela del marito».
e del marito1010Art. 560 cod. pen., abrogato con la sentenza 3 dicembre 1969, n. 147, che disponeva che «Il marito, che tiene una concubina nella casa coniugale, o notoriamente altrove, è punito con la reclusione fino a due anni. La concubina è punita con la stessa pena. Il delitto è punibile a querela della moglie».
 (il cosiddetto “concubinato”).

La spinta propulsiva maggiore all’emanazione della legge Cirinnà è giunta dalla stessa società civile.

Ulteriori e importanti interventi normativi furono approntati negli anni successivi. Ci riferiamo, in particolare, alla legge 5 agosto 1981, n. 442, con cui venne definitivamente abrogata l’attenuante del delitto d’onore,1111Art. 587 cod. pen.: «Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella. Se il colpevole cagiona, nelle stesse circostanze, alle dette persone, una lesione personale, le pene stabilite negli articoli 582 e 583 sono ridotte a un terzo; se dalla lesione personale deriva la morte, la pena è della reclusione da due a cinque anni. Non è punibile chi, nelle stesse circostanze, commette contro le dette persone il fatto preveduto dall’articolo».
e alla legge 15 febbraio 1996, n. 66, tramite cui fu superata la causa speciale di estinzione del reato del cosiddetto “matrimonio riparatore” nel caso di delitti contro la libertà sessuale1212Impianto normativo oggi abrogato e sostituito dalle norme di cui agli artt. 609 bis c.p. che hanno riscritto il capo dei delitti in materia sessuale.
e di corruzione di minorenni.1313Art. 544 cod. pen.: «Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’art. 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali».

Immagine tratta dal docufilm Processo per stupro del 1979, che documentò lo svolgimento dell’ormai celebre processo di Latina per lo stupro di una giovane donna a opera di quattro uomini. Lo svolgimento delle udienze, con il comportamento accusatorio che magistrati e avvocato dell’imputato ebbero nei confronti della donna e l’appassionata arringa del suo difensore, l’avvocata Tina Lagostena Bassi, ebbero il pregio di stimolare il dibattito che portò a un graduale, sebbene lento, processo di ripensamento dei reati in materia sessuale.

Nessuna disposizione, tra quelle vigenti in quegli anni, si preoccupò di introdurre previsioni legislative in grado di dotare unioni diverse da quelle eterosessuali di tutele e riconoscimenti. Non solo l’unico modello di famiglia considerato dalla normativa italiana è quello previsto dal dettato normativo, ma nessun tipo di diritto o dovere può sorgere da relazioni affettive tra persone dello stesso sesso. Benché le resistenze etico-morali sull’omosessualità si siano, nel corso degli anni, affievolite, e nonostante il diverso esempio dato dalle legislazioni straniere, il legislatore italiano continuerà, per lungo tempo, a non prendere posizione riguardo al riconoscimento legale di tale tipo di unioni. La questione sarà affrontata e parzialmente risolta, nei termini che vedremo in seguito, con l’emanazione della legge 20 maggio 2016, n. 76, la “legge Cirinnà”. Con l’atto normativo in parola, il legislatore ha in parte modificato i confini del concetto di famiglia introducendo, accanto all’istituto del matrimonio, l’unione civile tra persone dello stesso sesso e la convivenza di fatto registrata all’anagrafe.

La spinta propulsiva maggiore all’emanazione della legge Cirinnà è giunta dalla stessa società civile, desiderosa di dare forma giuridica e consequenziale tutela a situazioni giuridiche soggettive, costituenti di fatto diritti fondamentali della persona; non è dunque soltanto scaturita dalle numerose denunce giurisprudenziali rese in materia dalle diverse Corti, nazionali e internazionali, più volte pronunciatesi su questioni simili – in particolare sulle unioni omoaffettive –, né dalle legislazioni europee volte a tutelare i diritti fondamentali della persona e a eliminare qualsiasi discriminazione fondata su sesso, genere, razza, religione e, non da ultimo, orientamento sessuale. Inoltre, l’emergere di nuovi assetti sociali, insieme alla mutata valutazione di beni e valori costituzionalmente protetti, ha determinato l’insorgere di interessi che, seppur impliciti in alcune disposizioni costituzionali, non godono di specifica e autonoma tutela.

Immagine di una delle tante manifestazioni femministe degli anni ’70.

 

Il lungo iter verso il riconoscimento delle unioni omosessuali

A questo punto è utile ripercorrere le diverse pronunce giurisprudenziali che, scardinando il sistema eteropatriarcale previgente, hanno condotto al riconoscimento giuridico delle diverse forme di famiglia oggi presenti nel nostro ordinamento: le famiglie arcobaleno. Il riconoscimento legislativo di coppie composte da soggetti appartenenti allo stesso sesso ha visto scontrarsi tra loro il principio di uguaglianza e la tradizione millenaria che ha sempre riconosciuto cittadinanza giuridica solo al matrimonio tra soggetti di sesso diverso. Il Codice civile italiano, emanato nel 1942 e tuttora vigente, pur in assenza di una disposizione definitoria, delinea l’istituto del matrimonio riferendosi esclusivamente a soggetti di sesso diverso.1414Norme come gli artt. 107 (Forma della celebrazione) e 108 (Inapponibilità di termini e condizioni) cod. civ., infatti, fanno esplicito riferimento al marito e alla moglie come attori della celebrazione.
Tuttavia, benché le norme civilistiche presuppongano la diversità di sesso tra i nubendi, il dato letterale non esclude, di fatto, né una lettura evolutiva né un’interpretazione costituzionalmente orientata di quanto sancito, se non addirittura l’eventuale ricorso alla Consulta qualora si ravvisino incoerenze di tali norme con i princìpi sanciti e derivanti dalla Carta costituzionale. E proprio sulla scorta di tale assunto, in più occasioni, diverse Corti territoriali hanno cercato di rendere estendibili alle unioni omosessuali le norme previste in materia di famiglia. In particolare, alcuni giudici hanno evidenziato che le norme civilistiche che non contemplino le unioni omoaffettive si porrebbero in contrasto non soltanto con il principio di uguaglianza, previsto e tutelato dall’art. 3 Cost., ma anche con altre disposizioni costituzionali; in particolare, con l’art.2 Cost., che tutela l’individuo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.

Ma il contrasto sussisterebbe anche con lo stesso art. 29 Cost. che, limitandosi a riconoscere la famiglia quale diritto naturale preesistente allo Stato, necessita di essere riempito di contenuto in base alle trasformazioni sociali. A sostegno dell’incompatibilità dell’esclusione dal concetto di famiglia alle unioni omosessuali, i giudici non hanno esitato a citare altresì le norme contenute nella Carta europea dei diritti dell’Uomo, che assume, nel nostro ordinamento, valore costituzionale. Le norme evocate sono state l’art. 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare),1515Art. 8 CEDU: «Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. Non può esservi ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del Paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui».
l’art. 12 (Diritto al matrimonio)1616Art. 12 CEDU: «Uomini e donne in età maritale hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto».
e l’art. 14 (Divieto di discriminazione).1717Art. 14 CEDU: «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere garantito senza alcuna distinzione di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di appartenenza a una minoranza nazionale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione».Art. 14 CEDU: «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere garantito senza alcuna distinzione di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di appartenenza a una minoranza nazionale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione».

Nonostante le articolate e ragionevoli motivazioni proposte, tuttavia, le questioni di volta in volta sollevate non trovarono accoglimento. In assenza di una normativa nazionale che desse una veste formale alle unioni omoaffettive, il dibattito giurisprudenziale si concentrò anche sulla possibilità di trascrivere, negli atti dello stato civile italiano, eventuali matrimoni omosessuali contratti all’estero.1818E, di conseguenza, la legittimità della circolare del 7 ottobre 2014 con cui il Ministro dell’Interno, prendendo posizione in materia, ne aveva stabilito l’intrascrivibilità.
Accanto a un orientamento nettamente sfavorevole,1919Ex multis, Consiglio di Stato il 26 ottobre 2015, n. 4899, che ritiene tali matrimoni intrascrivibili in quanto carenti del requisito essenziale della diversità di sesso dei nubendi. A sostegno della propria tesi, il Consiglio di Stato, oltre alle norme che espressamente qualificano quali parti del matrimonio il marito e la moglie, cita l’art. 115 cod. civ., il quale assoggetta i cittadini italiani all’applicazione delle disposizioni codicistiche che stabiliscono le condizioni necessarie per contrarre matrimonio anche quando l’atto viene celebrato in un Paese straniero. Dal combinato disposto delle disposizioni in parola ne deriva che la validità e l’efficacia di un matrimonio contratto all’estero esigono la presenza di indefettibili requisiti sostanziali in riferimento allo stato e alla capacità dei nubendi. Da ciò ne deriva l’impossibilità, per l’ufficiale di stato civile, di poter trascrivere tali atti, non in quanto contrari all’ordine pubblico, come in passato era stato affermato, ma in quanto carenti del predetto elemento.
altra parte della giurisprudenza, sebbene per questioni dotate di una propria specificità, ritenevano possibile la trascrizione di tali atti.2020Sul punto, e in materia di riconoscimento della libertà di circolazione nel territorio dello Stato del coniuge omosessuale di un cittadino italiano, la Corte di Cassazione penale, con la sentenza 19 gennaio 2011, n. 1328, ha riconosciuto effetti civili a tale unione contratta all’estero. La Suprema Corte ha considerato applicabile al caso di specie la disposizione in materia di diritto dei cittadini dell’Unione Europea e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati (art. 2, d.lgs. 30/2007, adottato in attuazione della Direttiva 2004/38/CE). La vicenda aveva avuto origine da un provvedimento del giudice di pace di Mestre con il quale era stato condannato uno straniero per il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato (art. 10 bis, d.lgs. 286/’98), nonostante questo avesse dimostrato di aver contratto matrimonio in Spagna con un cittadino italiano. La condanna era stata giustificata dal disconoscimento della qualifica di familiare di un cittadino dell’UE.
Per dichiarare l’eventuale contrasto delle norme in materia di famiglia con i predetti princìpi sussistenti nell’ordinamento fu pertanto adita la Corte costituzionale.

La Corte, tuttavia, con la sentenza 15 aprile 2010, n. 138, dichiarò la questione sottopostale comunque inammissibile. In quell’occasione la Consulta ebbe modo di sottolineare l’assoluta rilevanza della questione sociale in sé e per sé considerata. Ritenne che a individui uniti in un’unione omosessuale – intesa quale stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso – spettasse il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia. Riconobbe quindi a tali soggetti l’aspettativa, rilevante, di ottenere nei tempi, nei modi, e nei limiti stabiliti dalla legge, il riconoscimento giuridico della propria unione, con i connessi diritti e doveri ex art. 2 Cost. Tuttavia, precisò che l’aspirazione a tale riconoscimento richiedesse necessariamente l’emanazione di una disciplina tesa a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia. Tale riconoscimento non sarebbe possibile, secondo la Corte Costituzionale, attraverso l’estensione delle norme vigenti in materia di famiglia. L’equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio disciplinato dalla legge è inattuabile in ragione della mancanza del requisito fondante del matrimonio civile, cioè la diversità di sesso dei nubendi.

Il significato del precetto costituzionale di cui all’art. 29, che disciplina il matrimonio eterosessuale, non può essere superato in via ermeneutica perché, in tal caso, non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema, quanto di una vera e propria interpretazione creativa, non rientrante tra i poteri attribuiti dall’ordinamento alla Corte costituzionale. La Consulta, in tale sentenza, evoca, dunque, l’inalienabile necessità che a disciplinare le famiglie omosessuali sia il legislatore, attraverso un atto normativo diretto a quello scopo. E a tale scopo il legislatore giunse, sebbene dopo un iter di approvazione travagliato, con la legge del 2016. Tuttavia il testo normativo non è stato in grado di dirimere tutte le questioni che sino a quel momento avevano animato il dibattito sociale, parlamentare e giurisprudenziale. La legge appare, infatti, quale scelta di compromesso tra le diverse voci presenti al dibattito parlamentare, con la conseguenza che l’impianto originario previsto in sede di attuazione ha finito per subire diverse modifiche, che ne hanno depotenziato il contenuto innovatore. Di tal guisa che le unioni in parola non risultano riconducibili, ad oggi, alla tutela prevista in materia di matrimonio all’art. 29 Cost., che resta a presidio dell’unione eterosessuale, per le ragioni storico-ermeneutiche espresse dalla Consulta. La loro tutela costituzionale viene fatta discendere dal disposto di cui all’art. 2 Cost. che, come già detto, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.

 

La legge Cirinnà e la genitorialità omosessuale

La legge Cirinnà consta di un solo articolo, composto da diversi commi, ognuno chiamato a disciplinare un aspetto diverso delle unioni ivi previste (non solo omosessuali, ma anche di fatto tra eterosessuali). Si è già detto che la legge non equipara la famiglia omosessuale a quella prevista dal dettato civilistico. Tuttavia, talune disposizioni richiamano quelle contenute per le famiglie eterosessuali unite in matrimonio. Ai sensi del comma 11 dell’art. 1 della legge 76/2016, con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso «le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni». Il successivo comma 12 prevede, inoltre, che «le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato». Il regime previsto dalle due norme citate si ispira expressis verbis al contenuto degli artt. 143 e 144 cod. civ. in materia di diritti e doveri reciproci dei coniugi e di indirizzo della vita familiare.2121In realtà, le norme richiamate prevedevano, nell’originaria formulazione, un mero richiamo alle disposizioni codicistiche ricordate: tuttavia, in sede di approvazione del testo di legge, si è preferito espungere il richiamo espresso, al fine di epurare le norme da taluni elementi, e in particolare dall’obbligo di fedeltà e al dovere di collaborazione nell’interesse della famiglia (art. 143 cc) e alla fissazione della residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa (art. 144 cc).
 Tuttavia, nonostante gli evidenti richiami, non esiste una sovrapposizione tra le due discipline. Nella legge del 2016, infatti, è stata esclusa un’espressa previsione dell’obbligo di fedeltà, considerato, invece, centrale nell’ambito del matrimonio. La centralità in parola emerge soprattutto al momento della sua inosservanza, e dunque nella fase patologica, per così dire, del rapporto. La violazione dell’obbligo è talmente grave da poter determinare l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza. Inoltre, la sua inosservanza è prevista quale motivo idoneo a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile. Probabilmente un’eventuale previsione dell’obbligo di fedeltà nell’ambito delle unioni omoaffettive avrebbe avuto scarsa rilevanza. Quanto detto in ordine alla sua inosservanza non avrebbe assunto rilievo, in quanto la legge Cirinnà non prevede la possibilità di separazione e divorzio in caso di unione same sex. Maggiore rilevanza assume, nondimeno, l’assenza di una disposizione che si occupi di disciplinare il rapporto di filiazione. È proprio tale lacuna ad aver rappresentato la scelta di compromesso che permise, allora, l’approvazione della legge. E sebbene in sede di approvazione del testo, stante l’impossibilità di una procreazione per così dire naturale tra i partner, erano state previste delle norme in grado di disciplinare quantomeno l’adozione del figlio del coniuge (la cosiddetta stepchild adoption), poi espunte a causa di pressioni di una certa parte politica. Di fatto, il rapporto di filiazione nell’ambito di una coppia omosessuale non trova alcuna disciplina legislativa specifica, né per quanto concerne la predetta adozione né per quanto riguarda l’eventuale ricorso a pratiche di filiazione medicalmente assistite (dalla fecondazione artificiale sino alla gestazione per conto d’altri).

La filiazione, quando supportata da interventi medici, ha sempre posto problemi di ordine morale ed etico.

La questione dell’estensione di pratiche di filiazione medicalmente assistite alle unioni omoaffettive pone problemi prima che di carattere giuridico, di ordine etico-morale. Questioni, di fatto, cavalcate da una certa fazione politica, che continua a guardare alle unioni omoaffettive come a nuclei familiari di rango inferiore rispetto al modello familiare tradizionale. Non manca chi, infatti, ritiene che la filiazione attraverso pratiche di gestazione medicalmente assistite si porrebbe in contrasto con la natura, che non consentirebbe a due persone dello stesso sesso di divenire genitori. Dunque, secondo alcuni, pur non disconoscendo l’aspirazione di due persone di veder tutelata giuridicamente la propria relazione affettiva, attraverso il ricorso a istituti para-matrimoniali, sarebbe da escludere la possibilità di considerare tali soggetti, insieme e in quanto coppia, genitori di un minore. E tale affermazione troverebbe la sua ragione d’essere nell’asserito diritto di ogni minore di avere un padre e una madre, ruoli di fatto attribuibili esclusivamente a persone di sesso opposto. La filiazione, quando supportata da interventi medici, ha sempre posto problemi di ordine morale ed etico. Si pensi alla legge che ha riconosciuto in Italia l’istituto della procreazione medicalmente assistita (legge 40/2004). Questa vide la luce dopo un lungo e faticoso travaglio legislativo e ha continuato a essere soggetta ad accesi dibattiti anche dopo la sua emanazione. È stata altresì oggetto di diverse pronunce della Consulta, l’ultima delle quali (sentenza 162/2014) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della normativa laddove non prevedeva la possibilità di ricorrere alla fecondazione eterologa, ovvero attraverso seme diverso da quello del marito o del partner. Il venir meno di tale divieto ha reso, di conseguenza, quella eterologa una delle forme di procreazione medicalmente assistita ammessa nel nostro ordinamento, dando validità giuridica a rapporti di filiazione privi di legami biologici. Ed è proprio sulla scorta di tale principio che, nonostante il legislatore non abbia disciplinato in alcun modo l’omogenitorialità, il tema ha comunque trovato ingresso nelle aule di giustizia. Diversi sono stati i casi di coppie omogenitoriali che hanno fatto ricorso alla giustizia per ottenere il riconoscimento giuridico e formale di rapporti di filiazione di fatto esistenti, derivanti o da interventi di procreazione medicalmente assistita effettuata all’estero, laddove consentita, o da circostanze di fatto, come nel caso di prole di uno dei due partner, nata da precedenti unioni. E negli ultimi anni, diverse sono state le sentenze che hanno permesso di ammettere in via pretoria ciò che il legislatore ha, di fatto, negato per via parlamentare. Innanzitutto si è proceduto ad ammettere forme di adozione del figlio del partner attraverso lo strumento previsto dall’art. 44 della legge in materia di adozione (legge 184/1983). La norma disciplina l’adozione in casi particolari ed è applicabile in tutte le ipotesi in cui difettino i requisiti e le condizioni per l’adozione piena, allo scopo di tutelare il preminente interesse del minore a essere inserito in una famiglia che ne garantisca una crescita equilibrata, fornendogli un ambiente familiare idoneo al suo sviluppo. Tale tipologia di adozione, a differenza di quella ordinaria, l’adozione piena, non presuppone lo stato di abbandono dell’adottando, ma intende dotare di veste giuridica relazioni di fatto già esistenti.

L’art. 44 in parola è stato altresì la norma più volte invocata dalla Cassazione per ammettere la trascrivibilità di atti di nascita, formatisi all’estero, a seguito di procedure di fecondazione medicalmente assistita di coppie omosessuali. Questi atti, formatisi in Paesi in cui tali procedure sono accessibili anche a coppie formate da persone dello stesso sesso – siano esse composte da due uomini o da due donne –, contemplano quali genitori entrambi i coniugi, a prescindere, quindi, dal legame strettamente biologico con il bambino. Si è dunque posto un problema circa la possibilità di trascrivere tali atti in un ordinamento, come quello italiano, in cui queste tipologie di interventi non sono ammissibili se non tra soggetti di sesso diverso, e in cui forme di procreazione medicalmente assistita, che prevedono la gestazione per conto d’altri (più comunemente nota con il nome di “utero in affitto”), non sono assolutamente consentite. Tuttavia, di recente, la giurisprudenza ha mostrato sul punto delle significative aperture, richiamando, nelle proprie decisioni, il concetto di genitorialità che prescinde effettivi legami biologici tra il minore e i genitori, già evocato dalla Consulta a proposito della fecondazione eterologa.

A tal proposito, costituisce un precedente significativo la pronuncia resa dalla Corte di Cassazione il 15 giugno 2017, n. 14878, tramite cui è stata riconosciuta la trascrivibilità dello stato di nascita di un bambino nato a seguito di fecondazione eterologa effettuata all’estero, nel quale venivano indicati come genitori non soltanto la donna legata al minore da vincolo biologico, ma anche la propria moglie.2222Con la sentenza 22 giugno 2016, n. 12962, la Cassazione aveva già ha affermato che poiché all’adozione in casi particolari prevista dall’art. 44, comma 1, lett. d), l. 184/1983 possono accedere sia le persone singole sia le coppie di fatto, l’esame dei requisiti e delle condizioni imposte dalla legge, sia in astratto (“la constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo”) sia in concreto (l’indagine sull’interesse del minore imposta dall’art. 57, comma 1, n. 2), non può essere svolto – neanche indirettamente – dando rilievo all’orientamento sessuale del richiedente e alla conseguente natura della relazione da questo stabilita con il proprio partner, dovendosi bensì dare preminenza all’esclusivo interesse del minore.
Nel caso in parola, la Cassazione ha riconosciuto il rapporto di genitorialità rimarcando come prioritario l’interesse preminente del minore non soltanto alla propria identità personale e al proprio status di figlio di due genitori, benché dello stesso sesso, ma altresì alla conservazione dello stato familiare costituito all’estero. Sarebbe proprio la sussistenza di tale interesse preminente del minore a rendere il rapporto di filiazione in parola non contrario all’ordine pubblico internazionale.

A sostegno della propria motivazione, la Corte di Cassazione ha specificato il concetto di ordine pubblico internazionale, definendolo come «l’insieme dei princìpi fondamentali e caratterizzanti l’atteggiamento etico-giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico». Allo stato attuale, in considerazione della normativa in atto vigente, a parere della Corte, ciò corrisponderebbe al complesso dei princìpi a carattere generale, tesi alla tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, spesso sanciti da dichiarazioni e convenzioni internazionali. Tra tali atti trovano espressa applicazione, al caso di specie, la convenzione ONU di New York sui diritti del Fanciullo, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), la Carta di Nizza del 2000, nonché la stessa Costituzione italiana. Tali atti legislativi, a diversi livelli, tutelano la sfera individuale del minore, non soltanto come soggetto debole meritevole di cura e protezione, ma altresì in quanto inserito nel proprio contesto familiare. È evidente quindi che, stante la delicatezza della questione e in considerazione degli interessi coinvolti, la materia meriti una precisazione da parte del legislatore, il quale non può verosimilmente continuare a tacere sul punto, affidando, alle aule di giustizia, la soluzione di situazioni in cui vengono in evidenza diritti personalissimi.

Nell’attesa di una doverosa presa di posizione sul punto, con ordinanza n. 4382 del 22 febbraio 2018, è stata trasmessa alle Sezioni Unite la questione concernente l’eventuale contrasto con l’ordine pubblico di un provvedimento giurisdizionale straniero di riconoscimento della doppia genitorialità a una coppia omoaffettiva maschile, unita in matrimonio in Canada.2323Nella specie, il caso concerne la legittimità o meno del rifiuto, da parte dell’Ufficiale di Stato civile del comune di Trento, di procedere alla trascrizione del provvedimento giudiziario emesso dalla Superior Court of Justice dell’Ontario con cui si accertava anche la genitorialità del secondo padre, rettificando l’atto di nascita dei minori aggiungendovi anche il cognome di questo. La Corte di Appello adita dai ricorrenti aveva finito per riconoscere la trascrivibilità del provvedimento giurisdizionale estero, richiamando il principio secondo cui nell’ordinamento italiano non sussisterebbe un modello di genitorialità fondato esclusivamente sul legame biologico tra i genitori e il figlio. Ad oggi, secondo la Corte territoriale, andrebbe al contrario sempre più affermandosi, in materia di filiazione, il parametro della responsabilità genitoriale, che trova manifestazione anche nella scelta consapevole di allevare e accudire il bambino venuto al mondo, a prescindere da legami biologici con lo stesso. Avverso alla sentenza della Corte territoriale, ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore Generale, asserendo che la trascrizione della sentenza straniera che riconosce la genitorialità di entrambi gli uomini della coppia contrasterebbe con l’ordine pubblico internazionale. Infatti, a parere del ricorrente, una decisione di tal fatta si porrebbe in collisione con il sistema del diritto di famiglia italiano, che individua i genitori, così come il comune sentire, quali soggetti di sesso opposto (madre e padre). Riconoscere due padri si porrebbe in contrapposizione, dunque, con i princìpi costituzionali. In tal modo, a parere del Procuratore Generale e altresì del Ministero dell’Interno, intervenuto nel giudizio in difesa del Sindaco nella veste di Ufficiale di Governo, tra l’altro, si metterebbe in crisi la stessa sovranità dello Stato, che mai ha legiferato estendendo la materia genitoriale sino a ricomprendere le coppie omosessuali.
 È evidente che, nel casus belli in questione, sorgono questioni legate non soltanto all’omogenitorialità, ma anche all’eventuale contrasto con l’ordine pubblico di un rapporto di filiazione venuto a esistenza a seguito di gestazione per conto d’altri.

Se da un lato, l’attuale stato dell’arte richiederebbe una necessaria pronuncia della Suprema Corte, in primo luogo a meglio definire la nozione di ordine pubblico internazionale, e per verificare se ciò costituisca o meno preclusione invalicabile alla ricevibilità di atti che riconoscano la genitorialità delle coppie omossessuali, d’altra parte sarebbe auspicabile un intervento legislativo in grado di garantire uniformità e certezza in una materia così delicata. La Corte dovrà decidere, dunque, se l’assenza di una normativa interna ad hoc in materia di omogenitorialità costituisca un limite al recepimento di atti stranieri di segno opposto, o se questi possano trovare ingresso nell’ordinamento nazionale in quanto sorretti da princìpi superiori desumibili dal complesso delle norme fondamentali, interne e internazionali e, non da ultimo, comunitarie. In verità, con una sentenza resa nel giugno del 2017 nella diversa materia di danni punitivi, le Sezioni Unite della Cassazione si erano già occupate dell’esatta latitudine interpretativa della nozione di ordine pubblico internazionale. In particolare, avevano rimarcato come questo si fosse già evoluto rispetto al passato, e che da insieme di princìpi fondamentali che caratterizzano la struttura etico-sociale della comunità nazionale in un dato periodo storico e dei più importanti istituti giuridici fosse divenuto l’insieme delle tutele approntate ai diritti fondamentali a livello sovraordinato, in rapporto con quello della legislazione primaria, utilizzando quali parametri non soltanto la Costituzione, ma altresì le norme del diritto europeo (Trattato di Lisbona e Carta di Nizza in primis).

Così argomentando, qualora le Sezioni Unite dovessero ribadire il proprio orientamento, dovrebbero finire per ammettere la trascrivibilità di tali atti giurisdizionali stranieri, proprio al fine di garantire un livello di tutela al minore non inferiore di quello riconosciuto dalle norme internazionali e interne di riferimento. Tra questi, ruolo primario è da riconoscere all’art. 2 della Convenzione sui Diritti del Fanciullo, che testualmente prevede che:

«Gli Stati parti si impegnino a rispettare i diritti enunciati nella presente Convenzione e a garantirli a ogni fanciullo che dipenda dalla loro giurisdizione, senza distinzione di sorta e a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o altra del fanciullo o dei suoi genitori o rappresentanti legali, dalla loro origine nazionale, etnica o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza».

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di Veronica Sicari
  • Veronica Sicari è avvocata presso il Foro di Catania, diplomata alla Scuola di Specializzazione in Professioni Legali. Di recente ha conseguito il Master in Diritto dell’ambiente e gestione del territorio dell’Università di Catania Ha pubblicato articoli e note a sentenza su alcune riviste giuridiche on line. Interessata ad ambiente e tutela delle donne, si occupa prevalentemente di reati endofamiliari e degli aspetti civilistici del diritto di famiglia.