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Decolonizzare la natura
Digital Library, June 2017
Tempo di lettura: 13 min
T.J. Demos

Decolonizzare la natura

Contro la colonizzazione della natura e la cultura dell'estrattivismo: nuove espressioni artistiche e modelli curatoriali.

Nell’articolo Capitalocene Violence, pubblicato nel giugno 2015 sul sito www.fotomuseum.ch, T. J. Demos analizza una serie di foto (di cui qui se ne riporta una) di Edward Burtynsky, realizzate tra il 2003 e il 2004 e pubblicate sul National Geographic nel 2011 in un articolo di Elizabeth Kolbert che salutava l’Antropocene come la nuova era geologica in cui ci troviamo. Nelle foto sono raffigurati alcuni campi e infrastrutture petrolifere sparsi in giro per la California. Secondo Demos le immagini di Burtynsky rappresenterebbero in tutto una visione antropocenica della crisi ambientale, facendo uso di un’estetica patinata che renderebbe quasi affascinante la violenza prodotta sull’ambiente e suscitando «una sorta di piacere perverso per la nostra stessa distruzione».

La redazione di KABUL magazine, in collaborazione con il PAV (Parco Arte Vivente) di Torino, ha deciso di rendere disponibili le traduzioni di alcuni testi scritti dai principali studiosi del pensiero ecocentrico: Karen Barad, T. J. Demos, Donna Haraway, Bruno Latour e Jason W Moore. La raccolta di questi saggi restituirà una visione parziale sulle teorie formulate in merito alla crisi ambientale, alle sue ripercussioni e alla corrispondente produzione in ambito artistico e letterario.

T. J. Demos, Decolonizing Nature, Sternberg Press, 2016.

In Decolonizing Nature, pubblicato nel 2016, T. J. Demos prende in esame una serie di pratiche ed espressioni artistiche e modelli curatoriali (come nel caso di dOCUMENTA 13) in grado di offrire numerosi esempi e proposte creative per rispondere alla crisi ambientale che la colonizzazione e finanziarizzazione della natura e la cultura dell’estrattivismo hanno decretato sancendo mutamenti climatici e geomorfologici irreversibili. Incrociando tra loro critica d’arte e attivismo ambientale, lo storico dell’arte getta luce pertanto su quelle pratiche artistiche che, anziché dare priorità alla sola esperienza della contemplazione estetica, emergono «in prossimità di un ambito di ricerca, di pedagogie creative, mobilitazioni politiche e situazioni di solidarietà all’interno della società civile».

La proposta di Demos è quella di decolonizzare la natura, di smettere di concepire il mondo non umano come oggettivato e passivo, e di cominciare piuttosto a introdurre un’integrazione biocentrica degli esseri umani con il proprio ambiente, prospettando in questo modo un sistema sociale ecologicamente sostenibile ed equo.

Di seguito la traduzione di un estratto di Decolonizing Nature.


Guerra alla Natura

La mia analisi dell’arte e dell’ambiente parte dall’idea che il cambiamento climatico sia prima di tutto una crisi politica, e non una crisi che apporti insormontabili problemi tecnologici o barriere naturali: ciò che serve di più è la volontà di affrontare le preoccupazioni ecologiche in modo sistematico e nel loro complesso. Ci sono, infatti, numerose soluzioni che oggi possono portare a uno stile di vita sostenibile, che, se incoraggiato globalmente, proteggerebbe la biodiversità definendo un ordine socioeconomico più inclusivo ed equo della distruttiva oligarchia dei corporate-state. Concordo con una serie di attivisti politici e di ecologisti che sostengono che la minaccia del cambiamento climatico sia la migliore motivazione per la “Great Transition”, che richiederà un cambiamento sistematico nella riorganizzazione della vita sociale, politica ed economica, così da portarci in uno stato di più grande armonia con il mondo che ci circonda, includendo le forme di vita umane e non-umane. In altre parole, non possiamo affrontare adeguatamente la giustizia climatica se non puntiamo l’attenzione anche sulla corruzione delle pratiche democratiche da parte delle lobby, o sul sottofinanziamento e fallimento del sistema di trasporto pubblico, o sulla violazione dei diritti dei popoli autoctoni da parte dell’estrattivismo industriale, o la violenza della polizia e la militarizzazione dei confini. Tutte queste aree hanno tra loro un qualche genere di legame, filamenti interconnessi di ecologia politica. Spesso è all’interno delle sfere civili che troviamo le energie più critiche e creative, le proposte più ambiziose e non convenzionali, nel rivolgersi a questo intreccio di crisi. Mentre i corporate media e l’industria dell’intrattenimento restano generalmente soddisfatte (e hanno guadagno finanziario) nel presentare il flusso infinito di scenari apocalittici che fanno sembrare la catastrofe naturale il nostro ineluttabile destino (o, al contrario, ignorano completamente il cambiamento climatico), c’è un numero sempre maggiore di sostenitori dei movimenti sociali, artisti, teorici politici e attivisti impegnati a pensare al di fuori delle narrazioni imposte del disaster capitalism.

Lo stanno facendo sempre di più, sia all’interno degli spazi espositivi istituzionalizzati del sistema dell’arte contemporanea – esaminerò numerosi modelli di tali pratiche nei capitoli che seguono – sia oltre quei muri, in spazi pubblici conflittuali, media indipendenti, in zone in cui si reclama autonomia e nelle comuni. Lavorando nella – e contro la – fitta ed eterogenea storia dell’arte concettualista, nel complesso intreccio di estetica e politica all’interno delle pratiche filmiche documentaristiche, e nelle politiche sociospaziali delle sculture ambientaliste delle decadi passate, gli artisti contemporanei si stanno ricollegando agli approcci passati dell’institutional critique, alla docufiction e ad assemblaggi multiformi.

Questa fotografia di Richard Misrach del 1998 raffigura una sorta di abitazione/caravan abbandonata nei pressi di un impianto petrolchimico in Louisiana. Sempre in Capitalocene Violence, Demos prende in esame questa immagine, contrapponendola a quella di Burtynsky, per definirla, attraverso queste parole, come rappresentativa di una visione capitalocenica della crisi ambientale: «This image, unlike Burtynsky’s pictorialism, rejects the Anthropocene’s terminological obfuscations and disavowals of culpability. Instead, Misrach’s photograph invokes the Capitalocene’s insistence on linking the current political economy to geological alteration, showing the “cancer alley” of Southern oil development as part of a necropolitics of ecocide. It thereby gathers criticality and encourages viewers to participate in the growing antagonism between petrocapitalism and its environmentalist opposition — a political relationality otherwise absent in Anthropocene».

A questo riguardo, i più avventurosi si stanno persino spingendo più avanti rispetto a tali precedenti – per esempio, analizzando le politiche ecologiche ed economiche delle istituzioni artistiche (liberando anche istituzioni esistenti, o inventando nuovi modelli, come nel caso di Liberate Tate e del Laboratory of Insurrectionary Imagination), coniugando le narrazioni speculative dei video-saggi a immaginari politico-ambientali, sviluppando connessioni tra permacoltura, relazioni sociali sperimentali e modelli di appartenenza postantropocenici.

Come indicano tali osservazioni, alcuni degli impegni artistici più ambiziosi, secondo il mio parere, sono quelli che rappresentano una politica estetica intersezionalista, in cui l’arte non dà più la priorità alla sola esperienza di contemplazione estetica interna alla galleria, ma piuttosto emerge in prossimità di un ambito di ricerca, di pedagogie creative, mobilitazioni politiche, e partnership e situazioni di solidarietà all’interno della società civile in cui le collaborazioni interdisciplinari rispecchiano le complesse relazioni interne alla politica ecologica. Una selezione di queste pratiche è considerata in modo esteso in queste pagine.

Ovviamente, l’ecologia non è sempre stata così definita. Nel 1866 il biologo tedesco Ernst Haeckel coniò il termine, che designava «il nucleo di conoscenze relative all’economia della natura – l’analisi del complesso di relazioni dell’animale con il suo ambiente organico e inorganico». La formazione disciplinare dell’ecologia coincise con il massimo sviluppo del colonialismo europeo, un regime che non si limitava a governare i popoli, ma che si estendeva all’organizzazione della natura. La colonizzazione della natura, che emerge dal principio illuminista del dualismo cartesiano tra i mondi umano e non umano, categorizzò il mondo non umano come oggettivato, passivo e separato, e ne «elaborò una comprensione razionalizzata, estrattiva e dissociativa che si sovrapponeva alle relazioni funzionali ed esperienziali tra le persone, le piante e gli animali». La natura distruttiva e utilitaristica, idealizzata ed “esoticizzata” è stata colonizzata concettualmente e praticamente.

Ciò ha dato luogo a molteplici, complessi e spesso contradditori pattern di razionalizzazione burocratica, supremazia scientifica e tecnologica, controllo militare, integrazione nell’economia capitalista in continua espansione, e sistematizzazione legale per rendere possibili il controllo e l’ottimizzazione dello sfruttamento delle risorse. 
Seguendo tale linea, l’ecologia era lontana dall’innocente disciplina denominata da Haeckel, includeva piuttosto “la scienza dell’impero”. Questa colonizzazione continua ancora oggi. In un’occasione, Michel Serres ha definito la relazione della modernità occidentale con la natura come la costituzione di una “guerra” fondata sul “dominio e l’appropriazione” della terra, contro cui il filosofo francese ha richiesto un “contratto naturale per inaugurare una nuova ecologia politica basata sull’uguaglianza postcoloniale tra vita umana e non umana”. Chiaramente siamo ancora lontani dalla realizzazione di tale contratto, sebbene i crescenti movimenti sociali, nati dalla filosofia delle popolazioni indigene e dall’attivismo ambientale, esigono il riconoscimento dei “diritti della natura”, e alcune nazioni latinoamericane (Ecuador e Bolivia) hanno recentemente onorato questi diritti nelle loro costituzioni e nel loro sistema legale, anche se con adempimenti sproporzionati. Detto ciò, continuiamo a confrontarci con quello che l’attivista indiano Vandana Shiva chiama “the corporate control of life”, in debito con la globalizzazione neoliberale, le regolamentazioni per gli scambi internazionali, la deregolamentazione delle protezioni ambientali, la brevettazione del materiale biologico (per esempio, in forma di semi geneticamente modificati), che hanno portato rovina e devastazione in comunità agricole autoctone e autosostenute in tutto il mondo. Per la sociologa Melinda Cooper, questa situazione rappresenta il culmine dell’espansione del capitalismo biogenetico, comparso per la prima volta negli anni ’80 e impegnato nel superare un precedente ecologismo riunito intorno al rapporto dei “limiti dello sviluppo”. Formulato nel report eponimo del 1972, commissionato dal Club di Roma (un gruppo di imprenditori, accademici e scienziati europei fondato nel 1968), l’indagine impiegava tecniche di simulazione informatica per calcolare gli effetti negativi sull’ambiente dovuti alla crescita della popolazione, all’industrializzazione, all’inquinamento, alla produzione alimentare e alla riduzione delle risorse. Diversamente dalle energie non rinnovabili e dalla depredazione del loro ecosistema, il capitalismo biogenetico trasforma la vita stessa in una potenziale fonte infinita di crescita attraverso le biotecnologie e la speculazione finanziaria, rappresentando un’ulteriore invasione del neoliberismo, oggi rivolto alla colonizzazione degli elementi genetici primordiali e delle temporalità (includendo la finanziarizzazione del futuro) della nostra esistenza materiale. Tuttavia, questo attacco imprenditorial-industriale e politico-economico non è passato senza destare polemiche. Una crescente schiera internazionale di attivisti mobilitati contro queste continue razzie è costituita da ambientalisti del calibro di Naomi Klein, Bill McKibben e David Solnit, da movimenti sociali anti-austerity nati da Occupy, con la loro recente e irregolare trasformazione, in Europa, in partiti politici anti-liberali come Podemos in Spagna e Syriza in Grecia, da NGO come l’African Biodiversity Network e la Gaia Foundation, da scienziati coinvolti politicamente come Kevin Anderson e James Hanse, da attivisti di popolazioni indigene, dalla regione Sarayaku in Ecuador al Gwich’ins in Alaska, e da reti di solidarietà come Idle No More. Come possiamo invertire questa insostenibile e ingiusta situazione? E quale ruolo è destinato ad artisti e attivisti, sempre più uniti da questo stato di emergenza?

«Climate Games» è stato un progetto organizzato dal collettivo francese Laboratory of Insurrectionary Imagination nel 2015, in prossimità degli accordi climatici di Parigi che hanno visto la partecipazione di 195 Paesi. Nei giorni in cui si teneva la conferenza, sono state organizzate attraverso i social network una serie di azioni di protesta a cui chiunque, da qualsiasi parte del mondo, poteva partecipare, con l’unica regola di documentare la propria azione per poter ottenere i punti previsti nel gioco. Il target di queste azioni sono state le multinazionali che in qualche modo avrebbero potuto influire sulle decisioni prese durante gli accordi.

 

Decolonizzare la Natura

La decolonizzazione della natura rappresenta un progetto indubbiamente ambizioso e variegato, con artisti, attivisti, e professionisti della creatività (in aggiunta a scienziati, legislatori e politici) coinvolti in ogni sua parte. Come chiede Naomi Klein, «Siamo in grado di immaginare un altro modo di rispondere alla crisi diverso dalla crescita della disuguaglianza, dal crudele “capitalismo dei disastri” e dal distruttivo ottimismo tecnologico?». Se la risposta è sì, serviranno un grande sforzo di immaginazione e molta pratica per mettere in salvo la natura dal controllo societario, dalla finanziarizzazione e dallo sfruttamento esclusivo del capitalismo biogenetico.

Per David Harvey tali forze rappresentano la “accumulazione tramite espropriazione” che costituisce una nuova forma di imperialismo, una modalità di sviluppo esageratamente sbilanciato dei giorni nostri. Per Jason Moore questo è il risultato di secoli di commistione tra capitalismo e natura, che comprendono «la cooptazione da parte del capitalismo dei processi e della vita del pianeta, attraverso cui la nuova attività vitale è continuamente introdotta nell’orbita del capitale e del potere capitalista» e «la cooptazione del capitalismo da parte della biosfera, attraverso cui progetti e processi iniziati dall’uomo influenzano e danno forma alla rete della vita».

La disuguaglianza che ne risulta è sconvolgente. Secondo una recente indagine di Oxfam, gli 80 individui più ricchi al mondo possiedono tanta ricchezza quanta ne possiede in tutto la metà più povera della popolazione terrestre (circa 3,5 miliardi di persone), così come circa 90 società sono responsabili della gestione dell’economia dei combustibili fossili, e un numero di molto inferiore di governi è responsabile per le guerre umanitarie e geopolitiche intraprese per mascherare il controllo delle risorse naturali e delle riserve di energia del mondo. Le politiche ecologiche devono affrontare le disuguaglianze di questo nostro presente neocolonialista, così come secoli di colonialismo hanno innescato il cambiamento climatico.

L’accumulazione tramite espropriazione si verifica quando l’economia dei combustibili fossili nei cosiddetti paesi sviluppati crea un inquinamento atmosferico che, causando il surriscaldamento globale, minaccia oggi l’esistenza dei piccoli stati insulari come Kiribati e le Maldive, crea scompiglio nel delta del Bangladesh e scioglie il permafrost in Alaska. O quando i rappresentanti del green capitalism – che danno alle pratiche societarie post 1970 una parvenza estetica ambientalista – comprano porzioni di foresta pluviale nell’Amazzonia brasiliana per piantare monocolture di eucalipto (deserti verdi privi di vita) per produrre biocombustibile che costringe le comunità indigene e dei Quilombola (ex schiavi afrobrasiliani) lontano dalle loro terre, fino a quel momento caratterizzate da biodiversità e gestite autonomamente. Che cosa sono questi se non casi di vero e proprio colonialismo societario contemporaneo?

Qualsiasi decolonizzazione della natura deve considerare le attuali ecologie finanziarie della nostra democrazia, con un occhio rivolto alla contestazione del costante flusso di denaro corrotto che dalle società arriva oggi in politica. Se gli sgravi servono a rispettare un qualunque tipo di principio equo tra nazioni ricche e povere, allora i paesi agiati devono ridurre le emissioni di qualcosa come l’8 o il 10% l’anno, a partire da ora, sino ad arrivare a quelle che Kevin Anderson e Alice Bows-Larkin chiamano «le radicali e immediate strategie di decrescita negli Stati Uniti, nell’Unione Europea e nelle altre nazioni ricche». Klein scrive: «C’è ancora tempo per evitare un riscaldamento catastrofico, ma solo uscendo dalle leggi del capitalismo così come sono strutturate ora. Questa è senza dubbio la migliore argomentazione che ci sia mai stata per cambiare tali leggi».

Oltre all’analisi critica delle pratiche societarie e alla struttura internazionale delle politiche economiche che privilegiano l’economia rispetto all’ambiente (inclusi gli accordi commerciali che al momento operano sotto la WTO e la World Bank), abbiamo bisogno di decolonizzare persino la nostra concettualizzazione della natura utilizzando i mezzi politici appropriati. Ciò si può fare rigettando la naturalizzazione della finanza (come se questa fosse universalmente data), capovolgendo la filosofia della “personalità aziendale” tramite cui le entità economiche controllano la vita, trasformando le nostre leggi al fine di introdurre un’integrazione biocentrica degli esseri umani con il loro ambiente in modo che, come richiedono molti gruppi di popolazioni indigene, il diritto a esistere della natura sia riconosciuto e rinforzato, e reinventando le politiche economiche di una decrescita selettiva affinché il nostro sistema sociale sia ecologicamente sostenibile ed equo.

“Se una Rivoluzione Verde deve accadere”, spiega l’attivista e professore di letteratura Nicholas Powers, “dobbiamo scambiare l’immaginario apocalittico con una profezia utopistica, per creare un ‘selvaggio’ culturale che apra spazi orizzontali in cui le persone possono entrare per aggregarsi al carnevale”. Sono convinto che l’arte, data la sua lunga storia di sperimentazioni, invenzione immaginativa e pensiero radicale sia in grado di giocare un ruolo centrale nella trasformazione qui in atto. Nel suo significato più ambizioso e ad ampia portata, l’arte mantiene la promessa di innescare esattamente questo genere di cambiamenti percettivi e filosofici, proponendo nuovi modi di comprendere se stessi e il proprio rapporto con il mondo, allontanandoci dalle tradizioni distruttive della colonizzazione della natura.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di T.J. Demos
  • T. J. Demos è docente presso il Dipartimento di History of Art and Visual Culture (HAVC) presso l'UC, direttore e fondatore del Center for Creative Ecologies, storico dell’arte e scrittore focalizzato sull’arte contemporanea e la cultura visiva in relazione alla globalizzazione, alla politica, alle migrazioni e all’ecologia.