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Eterotopie cyberspaziali
Magazine, LOCUS - Part II - Maggio 2021
Tempo di lettura: 18 min
Silvia Cegalin

Eterotopie cyberspaziali

Per una nuova semantica degli spazi tra Facebook e digital cities.

Miao Xiaochun – The Last Judgement in Cyberspace – The Below View, 2006 C-Print 289 x 360 cm.

 

Eterotopie ed eterocronie

«Non abbiamo bisogno di altri mondi, abbiamo bisogno di specchi».

(Stanisław Lem, Solaris)

Se l’autore di Solaris si riferiva all’urgenza di forgiare un mondo riflesso che si sostanziava attraverso la metafora degli specchi, oggi questa propulsione non sembra essere svanita, e l’individuo giace in dimensioni rispecchianti che sfocano la forma del tempo e delle cose, rendendo talvolta vano qualsiasi sforzo di identificazione tra ciò che effettivamente esiste e ciò che è solo apparente.

Gli spazi eterotopici si formano in un’emersione che sconfina dalla quotidianità, in paesaggi in cui i principi di continuità e di normalità si distorcono, creando incrinature fuorvianti che permettono ai luoghi di far emergere la loro alterità. Plasmate sul concetto di utopia, le eterotopie cercano di costruire modelli alternativi, necessari per l’essere umano al fine di valicare la ripetitività dell’ordinario.

Le eterotopie si esprimono perciò in altre possibilità di esistenza, senza tuttavia perdere mai il contatto con il reale, poiché si tratta di spazi che pur essendo collocati in una realtà materica tangibile agiscono attraverso il sovvertimento delle logiche temporali e razionali.

Il concetto di eterotopia appare per la prima volta in un breve riferimento contenuto nel saggio Le mots et le choses di Michel Foucault (1966), e sarà ripreso esaustivamente un anno dopo, nel corso di una conferenza tunisina intitolata Des Espace Autres, durante la quale il filosofo si addentra in modo più profondo nella spiegazione di questo termine, distinguendo i luoghi eterotopici dagli altri ambienti mediante le seguenti caratteristiche.

  1. Le eterotopie sono presenti in tutte le società“…Le eterotopie sono presenti in tutte le società”, siano esse passate, presenti o future.
  2. Variano e si adeguano al tessuto storico e geografico in cui sono inserite, hanno quindi la capacità di modellarsi in base al contesto che in quel momento abitano.
  3. Presentano la possibilità di sovrapporre in un solo spazio diverse localizzazioni di per sé incompatibili e contraddittorie. Intersezione di luoghi antitetici che si verifica per esempio nei teatri, nei cinema, nelle navi da crociera o nei giardini pubblici.
  4. Favoriscono il formarsi di eterocronie, ossia la sovrapposizione di tempi e spazi diversi. È il caso dei musei e delle biblioteche che, attraverso la sospensione del tempo, fanno emergere resti del passato all’interno di una cornice presente. Di conseguenza, gli spazi eterocronici esistono sia nel tempo effettivo, nel qui e ora, sia al di fuori di esso, in quel loro passato che è stato ricostruito e preservato per essere fisicamente insensibile alle devastazioni del tempo.

Oltre a queste peculiarità, in cui Foucault risalta la tendenza eterotopica a coniugare sincronicamente tempi differenti, come una macchina del tempo che non percorre una sola via, negli altri due principi restanti il filosofo si concentra nel far affiorare la natura significante di tali luoghi, segnando lo stretto legame che in essi intercorre tra realtà e fantasia.

  1. La quinta caratteristica è improntata a esaminare la dinamica inclusiva degli spazi eterotopici che, giocandosi sul binomio apertura/chiusura, si presentano isolati e inaccessibili a chiunque; perché l’ingresso nell’eterotopia può essere reso obbligatorio, tramite un atto coercitivo come la reclusione in una clinica psichiatrica o in una prigione, oppure previsto solo dopo la pratica di particolari riti, come nel caso dei luoghi di culto.
  2. Il sesto e ultimo principio si interroga sull’ambivalenza che contraddistingue l’eterotopia, assumendo contemporaneamente sia il ruolo di creatore di spazi illusori distaccati temporaneamente dalla realtà, sia la funzione di formare luoghi destinati all’alterità, tuttavia visibili nel loro grado fattuale.

Questi aspetti possono agire sia separati che in simultaneità; al contempo, però, appare anche evidente quanto le varie tipologie di eterotopia si evolvano e mutino in base alle epoche storiche in cui esse sono inserite. Ed è qui che torna in campo la metafora dello specchio poiché, parafrasando Foucault, l’esperienza fatta allo specchio rafforza l’impressione di esistenza del luogo che in quel momento si occupa fisicamente; tuttavia, questo senso di realtà si definisce proprio grazie allo spazio riflesso situato al di là dello specchio e che viene concepito come virtuale.

Nuove forme eterotopiche stanno proprio emergendo, non tanto in quella parte di specchio reale e presente, ma in quella al di là di esso, ossia in quel mondo riflesso che oggi risalta nel suo ruolo determinante come costruttore di universi altri: il mondo digitale. Universi che all’interno di quest’ottica non sono più definibili esclusivamente come paralleli, bensì conviventi e interagenti con quella parte di mondo riconoscibilmente e palpabilmente concreta.

Di conseguenza, nella contemporaneità a trasformarsi in maniera simultanea con le eterotopie è stata anche la nozione di specchio; similitudine che nel processo di metamorfosi si è rivestita di forme e valori nuovi che l’hanno fatta progressivamente coincidere con i fenomeni della transmedialità offerti dallo schermo virtuale. A fronte di questo, si può pertanto affermare che le nuove eterotopie sono il risultato delle conseguenze di un’era tecnologica che, di giorno in giorno, si definisce come seconda realtà, o persino come realtà prevalente.

 

Il cyberspazio come luogo eterotopico

«Non abbiamo più bisogno di specchi, perché ora abbiamo gli schermi».

Storpiando l’incipit di Lem, otteniamo una descrizione del mondo contemporaneo, contraddistinto dal passaggio dalle eterotopie degli spazi fisici a quelle degli spazi virtuali, cioè all’interno di schermi – i “nuovi specchi” – che si delineano come fautori di realtà alternative.

Marcos Novak, Algorithmic Composition.

La potenza degli schermi massmediatici nel costruire luoghi contrassegnati da una spazialità che non si delinea più necessariamente con la presenza organica dei corpi e delle cose, ma tramite l’impronta digitale di quegli stessi oggetti, veniva già sottolineata nel 1985 dal sociologo Joshua Meyrowitz. Non a caso, nel saggio Oltre il senso del luogo. L’impatto sociale dei media elettronici sul comportamento sociale, Meyrowitz chiariva come i mass media di quegli anni, in particolar modo la televisione e i primi modelli di computer, consentissero agli individui di accedere a situazioni che altrimenti non avrebbero mai potuto esperire nella vita reale, perché fisicamente distanti o socialmente inaccessibili.

Per questa ragione, l’interfaccia schermo, che include oggi anche i monitor di smartphone e tablet, è stata accostata al concetto di eterotopia, proprio per la sua caratteristica di far immergere l’utente in luoghi alternativi a quelli della sua quotidianità. Oltre a ciò, l’esperienza cyberspaziale agìta attraverso lo schermo presenta i medesimi sei principi elaborati da Foucault.

Nel mondo virtuale, infatti, si trovano a coesistere ambientazioni per loro natura inconciliabili, e a interagire soggetti materialmente distanti. Una connessione che non riguarda soltanto gli individui, ma anche tempi e spazi posti a livelli asimmetrici: pensiamo laddove l’ambiente irreale della location di un videogioco si relaziona alla temporalità del mondo reale.

È il caso, per esempio, di quando il processo di gioco (si tratti di una missione o del superamento di un livello) è scandito e regolato dal tempo reale, solitamente attraverso un timer o un countdown, rilevando così quanto tempo è rimasto a disposizione del giocatore per compiere le sue azioni nel cyberspazio. In questo caso, dunque, il fruitore agirà nello spazio virtuale seguendo una temporalità naturale.

Tuttavia, la virtualità trova un più forte rapporto di simbiosi con l’eterotopia nella capacità di distaccamento da una realtà razionale in favore di una inventata, l’elemento illusorio appare perciò anche qui primario, esattamente come lo era per gli spazi eterotopici concretamente esistenti. Per finire, non meno importante il procedimento di entrata e chiusura analizzato da Foucault nel quinto principio, che nella sfera digitale si incarna nelle fasi di attivazione e disconnessione da una piattaforma o dal dispositivo.

Marcos Novak, AlloBio-future vision of neuroarchitecture.

A superare le teorie di Meyrowitz, legate a un’idea di mass media oggi obsoleta, è stato Edward Soja, che ha provato a reinterpretare la nozione di eterotopia inserendola nel contesto multimediale contemporaneo. In Terzo spazio: viaggi a Los Angeles e altri luoghi reali e immaginari, l’urbanista e geografo, in un dialogo intrecciato tra le teorie della triade dello spazio di Henri Lefebvre11In La production de l’espace del 1974, Henri Lefebvre elabora il concetto di spazio vissuto: teoria fondamentale che ha consentito di valutare gli spazi anche per la loro componente relazionale. Superando la mera concezione di fisicità, Lefebvre interpreta gli spazi come fenomeni sociali, posizionando le esperienze vissute e le connessioni interpersonali che da essi si instaurano, affianco ai principi di rappresentazione e concettualizzazione. Unione da cui si svilupperà la dialettica della triade dello spazio, rispettivamente suddivisa in spazi percepiti, concepiti e vissuti.
e la concezione eterotopica foucaultiana, inaugura la teoria del “terzo spazio”, inteso come luogo d’eccellenza dove gli opposti si fondono. Nel terzo spazio oggettualità, soggettività, astrazione, concretezza, razionalità e inimmaginabile si intersecano l’un l’altro attraverso un moto continuo che non ammette intervalli. L’essere umano si trova così immesso in una spazialità che perde il concetto di separatezza, fluttuando in uno stato di continua riformazione, dove i confini si dissolvono.

Marcos Novak, architettura liquida, 1999.

È su questa idea di spazio trascendente che si instaura una reciprocità tra la trialettica spaziale di Soja e le eterotopie che si generano nel cyberspazio. In Dopo la metropoli. Per una critica della geografia urbana e regionale (2007), lo studioso rintraccia nelle esperienze virtuali eventi caratterizzati – esattamente come nel terzo spazio – da una natura fortemente transitoria e che si situano con fluidità tra livelli di realtà differenti; una comunione tra spazi fisici, mentali e sociali da cui emerge l’immagine di un’esistenza iperconnessa che si manifesta, però, non più dal vivo ma tramite gli schermi. È proprio grazie a questo dispositivo e alla sua componente transreale che il fruitore può sperimentare le eterotopie virtuali in cui si verifica un quasi totale annullamento della distinzione tra finzione e realtà, e delle classiche limitazioni che si incontrano nel mondo che è invece soggetto alle regole corporee.

A coincidere con le teorie di Soja sono anche gli studi di Manuel Castells. Da sempre attento alle dinamiche di “quel che succede dentro gli schermi”, in La nascita delle società in rete (2002), introducendo il concetto di flussi, fa una disamina ulteriore, affermando:

«Lo spazio dei flussi è l’organizzazione materiale delle pratiche sociali di condivisione del tempo che operano mediante flussi. […] In tale rete, nessun luogo è a sé stante, perché le posizioni sono definite dallo scambio di flussi all’interno della rete. La rete di comunicazione, quindi, è la configurazione spaziale fondamentale: i luoghi non scompaiono ma la loro logica e il loro significato vengono assorbiti dalla rete».22Manuel Castells, La nascita delle società in rete, Università Bocconi Editore, Milano, 2002 [1996], pp. 472-473.

Un tempo senza tempo e uno spazio dei flussi, dove Castells ribadisce l’abilità dei nuovi sistemi tecnologici nel costruire aree di condivisione in cui la spinta all’espansività demolisca qualsiasi principio di margine; ed è in questa “comunanza despazializzata”33Nozione presente in John Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Il Mulino, Bologna, 1998.
che l’eterotopia si estende nel cyberspazio, realizzandosi in maniera più forte del reale stesso.

 

Facebook & eterotopia: il modello social

Se il cyberspazio presenta somiglianze con gli spazi fisici, in Lost in space: Into the digital image labyrinth la studiosa di new media McKenzie Wark trasla l’asserzione foucaultiana di “luogo senza luogo”44Si veda Michel Foucault, Of other spaces, «Diacritics», 16, 1, 1986, pp. 22-27.
all’interno della rete, individuando in essa la capacità, già in precedenza sottolineata, del mondo virtuale di collegare in un unico immenso spazio mondi differenziati che, nella loro commistione, fanno vivere al fruitore l’entrata in un mondo dominato da tensioni eterotopiche. E ad oggi qual è l’esempio migliore di cyberspazio eterotopico se non Facebook?

Il social, nato ormai quasi vent’anni fa (2004), è una piattaforma interessante da analizzare perché in esso si coniugano, in una modalità affatto banale, sia strutture reali che eterotopie.

Marcos Novak,Turbulent topologies, 2009.

In una ricerca condotta dalla coppia di studiosi Robin Rymarczuk e Maarten Derksen, intitolata Different spaces: exploring Facebook as heterotopia (2014), emerge infatti l’idea di Facebook quale modello social eterotopico. Il primo livello eterotopico che i due ricercatori individuano riguarda il sistema di accesso messo a disposizione dal social network. Esattamente come nelle eterotopie classiche, anche Facebook consente l’immersione solo dopo aver effettuato la registrazione e l’identificazione, cioè dopo aver dichiarato i propri dati anagrafici e aver ricevuto, da parte di terzi, il consenso per l’accesso. Basandosi sul modello di apertura/chiusura, Facebook costruisce le proprie regole tramite funzionalità, restrizioni e possibilità che lo rendono un luogo pregno di contraddizioni. Se da una parte, grazie alla componente di gratuità offerta, consente l’accesso a chiunque abbia un dispositivo elettronico, dall’altra la libertà di espressione data agli iscritti è in verità il risultato di monitoraggi costanti e termini di utilizzo che si stipulano prima di venire ammessi.

Se le condizioni pattuite non vengono rispettate, l’estromissione o la sospensione temporanea dell’account è immediata: il confine tra accessibilità ed espulsione appare quindi alquanto labile. Al contrario, se si tenta volontariamente di cancellare il proprio account dalla piattaforma, la procedura, per quanto semplice, non è comunque immediata, ma ben celata tra le impostazioni. Prima di “sparire” definitivamente dal network, Facebook concede infatti all’utente un periodo di 30 giorni di sospensione dell’account, periodo nel quale l’utente può cambiare idea e procedere con la riattivazione del profilo. La frase di commiato presenta inoltre toni piuttosto perentori, alla chiusura dell’account infatti si leggerà:

«Se ritieni che non utilizzerai più Facebook e desideri che il tuo account venga eliminato, ce ne occuperemo immediatamente. Tuttavia, tieni presente che non sarà possibile riattivarlo in seguito né recuperare i contenuti o le informazioni che hai inserito. Se desideri ancora che il tuo account venga eliminato, clicca su “Elimina il mio account”».

Ma, una volta cliccato su “Elimina”, comparirà la frase: «Stai per cancellare definitivamente il tuo account. Confermi la scelta?». Ma perché non ne eravamo già sicuri?

Come si evince, queste sono frasi che tentano in tutti i modi di sviare l’utente dall’intenzione di togliersi da Facebook. Nonostante ciò, dopo la seconda riconferma sarà richiesto l’inserimento della password, e l’azione di chiusura del proprio account – dopo i 30 giorni di sospensione – potrà dirsi conclusa. Non escludendo che l’utente possa procedere, ogni qual volta lo desideri, a un’altra iscrizione, sancendo in questo modo una propria rinascita digitale.

Su Facebook emerge poi un altro principio eterotopico che si riscontra in una qualità del tempo eterocronica. I confini temporali del mondo reale si sospendono in favore di un accumulo di dimensioni passate e presenti che abitano senza conflitto un medesimo spazio. Rymarczuk e Derksen affermano che la questione del tempo vissuto su Facebook non riguarda tanto il tempo trascorso materialmente in esso, quanto il tipo di temporalità che si sviluppa attraverso le varie applicazioni che consentono la formazione di eterocronie in parte definibili “diverse” rispetto a quelle pensate da Foucault. Facebook è infatti costruito su un modello lineare, chiamato timeline o diario, che raggruppa frammenti di presente pronti a rivivere in qualsiasi momento attraverso un commento, una reazione esterna o la funzione “visualizza i tuoi ricordi”. Diversamente dalla sua configurazione passata, oggi Facebook ha assunto le sembianze di una vera e propria storia narrata“…oggi Facebook ha assunto le sembianze di una vera e propria storia narrata”, di cui noi, con le nostre storie e i nostri ricordi periodicamente riportati all’attenzione dall’algoritmo, siamo protagonisti. Ecco dunque instaurarsi tempi eterocronici che, a differenza delle eterotopie foucaultiane, agiscono su uno stesso formato, il wall (“muro”) appunto, e attraverso contenuti che non riguardano una storia in generale ma il nostro vissuto personale, il nostro io più intimo, situando l’esperienza di Facebook su un livello introspettivo oltre che informativo.

Un’ulteriore particolarità consiste nel fatto che il presente attuale è destinato, già dopo la pubblicazione di un nuovo post, a trasformarsi in passato, creando all’interno di Facebook tempi destinati a mutare il proprio status temporale a una velocità assente nelle eterotopie del mondo reale. Consentendo di muoversi tra livelli temporali asimmetrici, attraverso una modalità cronologica, ben segnalata con date e ore, Facebook apre a una logica che, tuttavia, concede devianze che la definiscono come la piattaforma eterocronica per eccellenza. Facebook, infatti, custodendo i dati e le memorie degli utenti, anche di quelli inattivi, in un certo senso li rende eterni.

le eterotopie tradizionali sono, ad oggi, in buona parte del mondo sospese.

I profili degli utenti deceduti restano infatti per la maggior parte attivi, consentendo agli altri utenti non solo di visitarne la pagina, ma anche, dove consentito, di interagire con essi, o meglio con i loro avatar. Come sostiene Deborah Rogers in I poke dead people: The paradox of Facebook (2009), tale esperienza genera un gap emotivo alquanto intenso poiché, a causa dell’onnipresente traccia virtuale delle persone defunte e la costante riesumazione, ogniqualvolta se ne senta la mancanza, di immagini, ricordi, frasi e video presenti nei loro diari, l’elaborazione del lutto rischia di non avvenire, senza contare il fatto che, quando indicato, Facebook continuerà a notificare regolarmente il giorno del loro compleanno.

Sebbene negli ultimi anni sia stata aggiunta l’opzione “inserisci contatto erede” o si possa richiedere, con tempistiche non immediate, l’eliminazione dell’account, l’eternità digitale, in contrapposizione con l’effettiva mortalità dell’essere umano, resta uno tra i nodi più conflittuali da risolvere. Questa analisi evidenzia che la presa di consapevolezza di ciò che succede nel mondo reale con Facebook è rimandata in quanto: «Facebook fa collassare la vita passata, la vita presente e l’aldilà in qualcosa di molto altro»,55Robin Rymarczuk, Maarten Derksen, Different spaces: Exploring Facebook as heterotopia, «First Monday», 19(6), 2014, p. 10.
creando uno scarto enorme tra percezioni emotive effettive e indotte, in cui l’eterocronia esprime la propria potenza seduttiva.

SENSEable city lab, RealTimeRome-Madonna Concerto, 2006.

 

Digital cities e alterazione delle eterotopie “classiche” con il Covid-19

Con l’analisi delle eterotopie virtuali, come Facebook per esempio, si sono riscoperte nuove possibilità di relazioni tra gli esseri umani e gli spazi. Spazi dove i confini appaiono sfumati in un’interferenza in cui vita online e offline si intersecano facendo emergere ciò che in The Onlife Manifesto. Being Human in a Hyperconnected Era (2015), Luciano Floridi molto intuitivamente ha definito condizione “onlife”. Con il termine “onlife” il filosofo intende l’impossibilità di separare le esperienze agite nella virtualità con quelle esperite nella realtà, in quanto, ad oggi, si agisce in una modalità ibrida caratterizzata da una super connessione di momenti che appaiono come interagenti. E in questo periodo fortemente influenzato della pandemia da Covid-19, oltre che il parallelismo tra virtuale e reale, anche il binomio tra spazio pubblico e privato ha subito una radicale trasformazione.

Un dato che emerge in concomitanza con la diffusione del Covid-19 è che le eterotopie tradizionali, ossia quelle elaborate da Foucault (biblioteche, musei, teatri ecc.) sono, ad oggi, in buona parte del mondo sospese. L’affermarsi della pandemia ha del tutto ridefinito le idee di spazio pubblico e privato, isolando e modificando la natura delle eterotopie originarie in favore di cyberspazi che si realizzano sulla rete.

Nel momento in cui i luoghi collettivi delle città sono stati chiusi al pubblico, gli spazi digitali hanno radicalizzato la propria pervasività nel nostro substrato quotidiano, dal lavoro alla scuola, allo shopping, agli aperitivi su Zoom con gli amici. Nel mondo digitale non mancano inoltre i princìpi eterotopici del mondo fisico. Soprattutto in questi ultimi tempi, infatti, sebbene fosse una tendenza già in auge, abbiamo assistito al proliferare di vere e proprie città digitali (o digital cities).

SENSEable city lab, wikicity-rome.

In Designing Digital Space, Daniela Bertol e David Foell spiegano che le digital cities sono, prima di tutto, un luogo simbolico in cui si ripropongono le strutture cittadine, siano esse architettoniche o relazionali, ma in forme ibride e fluide, mancanti cioè di un luogo di potere centralizzato. La novità delle città digitali consiste infatti nel reggersi su un’idea di open space e condivisione che si esplica in modi di vivere, immaginare e mappare la città che replicano, seppur in modo diverso, le rappresentazioni immaginative, utopiche ed eterotopiche idealizzate da Foucault.

Le digital cities consentono inoltre una relazione con gli spazi in cui le eterotopie, esattamente come rilevato per i cyberspazi, favoriscono l’opportunità di “vivere” la città con tempi e interazioni che nel mondo reale non sarebbero realizzabili. Luoghi liquidi che, richiamando la nozione di architettura liquida di Marcos Novak66Marcos Novak (1957) è un architetto, artista, compositore e teorico che impiega tecniche algoritmiche per progettare ambienti intelligenti reali, virtuali e ibridi. Obiettivo della sua ricerca è cercare di espandere la definizione di architettura includendo lo spazio elettronico e il cyberspazio. Ha definito i concetti di “architetture liquide” e “transarchitettura” (letteralmente, attraversamento dello schermo per arrivare nello spazio virtuale), risaltando le strutture smaterializzate e astratte abitanti del mondo immersivo, e tentando di creare una visualità alternativa.
, assumono l’aspetto di esseri animati e pulsanti, i quali grazie a una continua espansione valicano le ristrettezze constatabili nelle costruzioni materiali, proponendosi come modelli in cui l’essere umano – in questo caso il cittadino a cui sono stati sottratti i propri spazi pubblici – si reinventa nelle sue azioni e nei suoi spostamenti.

A fronte di ciò, il raggio di possibilità delle e nelle città digitali sembra essere infinito“…il raggio di possibilità delle e nelle città digitali sembra essere infinito”, e riguarda soprattutto l’edificazione di paesaggi plasmati da una visione immaginifica, che nell’invenzione di architetture sperimentali, quasi fantastiche, si innalzano, immergendo il visitatore in spazi impossibili da incontrare nella vita reale. Una transarchitettura – per dirla ancora con le parole di Novak – che, nella fusione tra elementi virtuali e concreti, fluisce aprendosi a molteplici potenzialità.

Oltre al fattore estetico visuale, un’altra peculiarità delle digital cities è la propensione al dialogo tra attori animati e inanimati. In esse, qualsiasi cosa o persona può diventare costruttore di dinamiche; l’immateriale è perciò inserito, proprio come gli esseri viventi, nei processi evolutivi della città, assumendo quel valore aggiunto che nella realtà non possiede, e riconfermando così il sesto principio eterotopico.

In concomitanza con l’emergere di scenari irreali, si conferma anche una qualità del tempo che, proprio come nelle eterotopie classiche, si deforma, facendo assumere ai “diversi momenti” una sincronia identificabile con l’eterocronia. È pertanto all’insegna della fluidità temporale e dell’iperconnessione che le città digitali si disegnano, potenziando ancora di più, grazie al loro statuto di città, le caratteristiche emerse nel cyberspazio.

Vivere contesti cittadini tramite molteplici livelli è ciò che ha provato a fare nel 2007 il team del Senseable City Laboratory del MIT, dando vita al progetto artistico WikiCity Roma.77http://senseable.mit.edu/wikicity/rome/.
L’obiettivo del progetto è quello di far navigare gli utenti in una città in realtà aumentata basata su una rete open source in cui si possa interagire, creare e condividere informazioni. L’approccio adottato è interessante, poiché tenta di annullare i dislivelli presenti all’interno della società, rendendo tutti gli utenti attivi e persino in grado di assumere il ruolo di sviluppatori, interagendo in tempo reale in una mappa che si trasforma costantemente.

In una contemporaneità, la nostra, in cui gli spazi pubblici appaiono sospesi, con un’inevitabile, e talvolta, pericolosa chiusura nei propri spazi privati, la necessità di incontrarsi, evadere e scavalcare i confini del reale è fiorita nell’aldilà virtuale, nel cyberspazio che tutto può e tutto ha. Ma da dove si accede per entrare nella virtualità se non dagli spazi privati? E dove sono situati i dispositivi tecnologici e gli schermi se non nelle nostre case? Nella dialettica tra pubblico e privato, il cyberspazio rappresenta sì una contraddizione, ma anche la via – al momento l’unica – per “uscire” metaforicamente dal proprio habitat privato, nei fatti pur restandovi, amalgamando in un unico paesaggio realtà e cyberspazio da cui affiorano dimensioni intermedie che, trasformando l’idea classica di spazio, la rende materia plasmabile.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Silvia Cegalin
  • Silvia Cegalin è laureata in Discipline dello spettacolo dal vivo a Bologna. Scrittrice e articolista freelance interessata alle arti digitali e performative e con un'attenzione verso i fenomeni culturali underground, i suoi articoli sono apparsi in Alfabeta2, Menelique, Philosophy kitchen, Kasparhauser e Punk Vanguard Magazine.
Bibliography

Manuel Castells, La nascita delle società in rete, Università Bocconi Editore, Milano, 2002 [1996].

Michel Foucault, Of other spaces, «Diacritics», 16, 1, 1986, pp. 22-27.

Henri Lefebvre, La production de l’espace, «L’Homme et la société», 31-32, 1974, pp. 15-32.

Robin Rymarczuk, Maarten Derksen, Different spaces: Exploring Facebook as heterotopia, «First Monday», 19(6), 2014.

John Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Il Mulino, Bologna, 1998.