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Altro/alterità (other/otherness)
Magazine, OTHERING – Part I - Settembre 2019
Tempo di lettura: 19 min
Jean-François Staszak

Altro/alterità (other/otherness)

Il rapporto dell'Occidente con l'alterità tra definizioni geografiche e discriminazioni sociali.

Alighiero Boetti, Mappa, 1989.

 

In questo articolo, il geografo e studioso francese Jean-François Staszak ci introduce al concetto di otherness, ossia di “alterità”, che è sotteso al più ampio processo di alterizzazione (o “othering”) a cui è dedicato il presente numero di KABUL magazine. In quanto prodotta da un Sé – a livello sociale, un gruppo ristretto – nei confronti di un Altro – il gruppo escluso –, possiamo considerare l’alterità come l’altra faccia della medaglia dell’identità. Se la creazione dell’Altro – quindi l’individuazione della differenza – è una condizione necessaria d’esistenza dell’Io, l’alterità è la subordinazione di questa differenza a una logica che la esclude. Tale connotazione semantica della differenza è la stessa che troviamo, per esempio, nella costruzione sociale dell’identità di genere – diversamente dal sesso biologico, che costituisce la differenza (esclusivamente biologica) tra un essere maschio e uno femmina o intersessuale. La peculiarità dell’alterità, dunque, è la natura univoca e quindi subordinante e discriminatoria che assume il concetto di Altro all’interno della logica occidentale, che sin dalle sue origini è binaria ed è stata applicata ed esportata nel mondo come modello di subordinazione. In particolare, il lavoro di Staszak si concentra sulle costruzioni geografiche che reggono e giustificano le pratiche di alterizzazione, decretando i confini politici, etnici e religiosi di realtà ben più complesse. Parliamo dei confini nazionali ma anche di pratiche di isolamento geografico urbane quali il ghetto, il manicomio, lo spazio domestico, in quanto forme di segregazione dell’Altro “dentro” la società. Le migrazioni sfuggono a queste “performance geografiche”, includendo l’Altro all’interno dello spazio abitato dal gruppo dominante. La ribellione del gruppo escluso e l’identificazione con diverse identità, che contravvengono alla dicotomia tipica del pensiero discorsivo occidentale, sono le strategie messe in luce dall’autore per uscire da un modello divenuto globale, ma le cui giustificazioni riposano ancora su teorie scientifiche, geografiche, etnologiche, storiche oramai delegittimate, poiché appartenenti a un discorso di tipo coloniale.


Abstract 

L’alterità è dovuta meno alla diversità dell’Altro che al punto di vista e al discorso della persona che percepisce l’Altro in quanto tale. Contrapporre Noi, il Sé, Loro e l’Altro significa scegliere un criterio che consente di dividere l’umanità in due gruppi: uno che incarna la norma e la cui identità ha valore, e un altro che è definito in base alle sue colpe, svalutato e suscettibile di discriminazione. Solo gruppi dominanti (come gli Occidentali in tempo di colonizzazione) sono nella posizione di imporre le loro categorie in materia. Stigmatizzandoli in quanto Altri, barbari, selvaggi o persone di colore, relegano le popolazioni che potrebbero dominare o sterminare ai margini dell’umanità. L’alterità di queste popolazioni è fondata in particolare sulla loro presupposta marginalità spaziale. Inoltre alcuni tipi di organizzazione sociale, come la segregazione o le costruzioni territoriali, consentono di mantenere o accentuare la contrapposizione tra il Sé e l’Altro. Per quanto possa sembrare che l’Altro sia talvolta valorizzato, come nel caso dell’esoticismo, tuttavia ciò avviene in modo stereotipato e rassicurante, per riconfortare il Sé nel suo sentimento di superiorità.

 

Peter Morin, Cultural Graffiti, performance, Londra, 2013.

Una nuova questione geografica 

Le questioni dell’Altro e dell’alterità hanno avuto un travolgente successo geografico a partire dagli Ottanta. Ovviamente i geografi si interessavano all’altrove anche prima di allora. Omero ci incantò con le sue descrizioni di terre lontane, sognanti; Erodoto era affascinato dalla società persiana; Ippocrate cercava di spiegare la diversità all’interno della società attraverso l’influenza esercitata dall’ambiente. Gli esploratori d’epoca rinascimentale rimanevano sbalorditi dalle peculiarità delle civiltà che avevano scoperto. A partire dalla fine del XIX secolo e dall’istituzionalizzazione della geografia coloniale in Europa, i geografi cercavano di documentare la particolarità dell’ambiente fisico e delle società tropicali.

Tutti questi approcci tentano di spiegare l’eterogeneità spaziale delle società. Nonostante si dichiarino più o meno oggettive, cercano di dimostrare che la civiltà occidentale sia superiore alle altre e di spiegarne la ragione.

A partire dallo sviluppo della geografia radicale e poi della geografia femminista negli anni Sessanta, i geografi hanno iniziato a nutrire un interesse per i gruppi minoritari che, in questo caso, si distinguono dalla norma (bianca e maschile). Questo atteggiamento, tuttavia, ha più a che vedere con la denuncia dei sistemi di oppressione, piuttosto che con l’indagine dell’alterità di questi gruppi minoritari. Si è dovuto attendere lo sviluppo delle analisi postmoderne, postcoloniali e queer affinché l’alterità divenisse una questione geografica. Per raggiungere questo punto, i geografi si sono dovuti porre domande sulla diversità dei gruppi in termini di costruzione socio-discorsiva, piuttosto che in termini di presupposte oggettività di differenza, come era stato fatto sino ad allora.

Aslı Çavuşoğlu, Downward Straits, 2004.

 

Definizioni 

L’alterità è il risultato di un processo discorsivo per cui un gruppo ristretto (“Noi”, il Sé) costruisce uno o più gruppi esclusi dominati (“Loro”, l’Altro), stigmatizzando una differenza – reale o immaginaria – presentata come una negazione dell’identità e quindi un motivo di potenziale discriminazione. Per dirlo in termini semplici, la differenza appartiene alla sfera del fatto e l’alterità a quella del discorso. Per cui il sesso biologico è la differenza, mentre il genere è l’alterità.
La creazione dell’alterità (detta anche “alterizzare”) consiste nell’applicare un principio che consenta agli individui di essere classificati in due gruppi gerarchici: loro e noi. Il gruppo escluso è coerente solo in quanto gruppo, come conseguenza della sua opposizione al gruppo ristretto e alla sua mancanza di identità. Questa mancanza si basa su degli stereotipi che sono largamente stigmatizzati e ovviamente semplicistici.

L’alterità e l’identità sono due facce inseparabili della stessa medaglia.“…L’alterità e l’identità sono due facce inseparabili della stessa medaglia.” L’Altro esiste solo in relazione al Sé e viceversa.

L’asimmetria nelle relazioni di potere è centrale nella costruzione dell’alterità. Solo il gruppo dominante è in una posizione tale da imporre il valore della sua particolarità (la sua identità) e di svalutare la particolarità degli altri (la loro alterità), mentre mette in atto misure discriminatorie corrispondenti. Per cui se l’Altro dell’Uomo è la Donna, e se l’Altro dell’Uomo bianco è l’Uomo nero, il contrario non è vero (Beauvoir, 1952; Fanon, 1963).

I gruppi esclusi dominati sono Altri proprio perché sono soggetti a categorie e pratiche stabilite dal gruppo ristretto dominante, e perché sono incapaci di prescrivere le loro stesse norme. I gruppi esclusi smettono di essere Altri quando riescono a fuggire all’oppressione forzata esercitata su di loro dai gruppi ristretti – in altre parole, quando riescono a conferirsi un’identità positiva e autonoma (“nero è bello”) e a fare appello alla legittimità discorsiva e a una linea politica, al fine di stabilire norme, costruendo e svalutando, infine, i loro propri gruppi esclusi.

Il potere in gioco è discorsivo: dipende dall’abilità del discorso di imporre le sue categorie. Ma questa abilità non dipende soltanto dal potere logico del discorso, ma persino dal potere (politico, sociale ed economico) di coloro che lo rappresentano.

 

L’Occidente e gli Altri 

Il pregiudizio etnocentrico che crea alterità è senza dubbio una costante antropologica. Tutti i gruppi tendono a valorizzare se stessi e a distinguersi dagli Altri che svalutano. Per esempio, secondo Lévy-Strauss, molti auto-etnonimi (come inuit o bantu) si riferiscono a “persone” o “esseri umani”, considerando i gruppi esclusi alla stregua di non umani.

D’altra parte le forme di questo etnocentrismo sono varie e sono state costruite, nel corso della storia, da un discorso e da una pratica. Alcune costruzioni sono specifiche di certe società (come la dicotomia eterosessuale/omosessuale), mentre altre sembrano universali (come la dicotomia maschio/femmina). Tutte le società, poi, creano il sé e l’altro con la loro propria serie di categorie. La società occidentale, tuttavia, si distingue per due ragioni. Innanzitutto alterità e identità si fondano su una logica binaria. Il pensiero occidentale, la cui logica è stata collegata al principio di identità, alla legge della non-contraddizione e alla legge del tertium non datur sin dai tempi di Aristotele, ha prodotto un numero di coppie binarie che contrappongono un termine connotato positivamente a uno connotato negativamente, e quindi si presta bene alla costruzione del sé e dell’altro. Esistono molte di queste dicotomie: maschio/femmina, Uomo/animale, credente/non credente, sano/malato, eterosessuale/omosessuale, nero/Bianco, adulto/bambino ecc.

In secondo luogo, la colonizzazione ha consentito che l’Occidente esportasse i suoi valori e li vedesse riconosciuti più o meno ovunque attraverso processi di integrazione culturale più o meno efficaci. Le categorie occidentali di identità e alterità, trasmesse attraverso le dichiarazioni universaliste della religione e della scienza, e imposte a forza per mezzo della colonizzazione, sono divenute così pertinenti parecchio al di là dei confini occidentali.

Nonostante questo articolo tratti esclusivamente delle costruzioni occidentali dell’alterità, ciò non significa che altre società non conoscano tale processo. Tuttavia, le loro particolari categorie di sé e di altro sono state diffuse meno ampiamente rispetto a quelle occidentali. Il sistema delle razze, quindi, per quanto sia molto recente e occidentale, si è imposto ovunque come struttura per concepire la diversità umana, al contrario del più antico sistema delle caste, proprio del mondo indiano.

Marwan Rechmaoui, Beirut Caoutchouc, 2004.

 

Gli Altri geografici 

Noi, qui, siamo il Sé; loro, lì, sono gli Altri. Come e perché pensiamo che quelli che si trovano lontano siano sempre più radicalmente diversi, al punto di essere Altri? Come può l’alterità essere essenzialmente geografica?

Nell’Antica Grecia, la forma geografica dell’alterità contrapponeva coloro che parlavano greco ai barbari. Un barbaro era una persona che non parlava greco e che quindi non padroneggiava il logos (e non conosceva la democrazia). La sua cultura era carente e apparteneva a un’altra civiltà.

Se questo tipo di alterità comprende una dimensione geografica, è perché le superfici culturali sono suddivise in blocchi spaziali presumibilmente omogenei (Paesi, zone, continenti ecc.). Tale costruzione dell’alterità si fonda su una gerarchia delle civiltà ed esige il ricorso a un criterio universale che consenta questo paragone. I sistemi linguistici e politici hanno svolto questo ruolo finché l’avvento della Cristianità e dell’Islam, e poi la religione, non le hanno sostituite per contrapporre Noi, i credenti, a Loro, i non credenti. Il Rinascimento e la scoperta di nuove civiltà, specialmente in America, ha riportato in auge la questione, aprendo la strada agli occidentali per la ricerca di mezzi per classificare la società. L’idea del progresso universale, o di una cronologia che sia valida per tutte le società, consente di organizzare le società in una gerarchia che va da quelle più primitive (ottentotti, canachi, san, pigmei) sino a quelle più civilizzate (europei). Dalla fine del XIX secolo in poi antropologia, etnologia e geografia (discipline ancora poco differenziate) cercarono di dare base scientifica a una tipologia di popolazioni e società – una tipologia che corrisponde più o meno esplicitamente a una gerarchia. La teoria dell’evoluzione di Darwin offre uno schema scientifico coerente per spiegare la diversità delle specie per mezzo della diversità dell’ambiente – dove ha luogo la selezione naturale attraverso il relativo isolamento di questi ambienti, che li rende sensibili allo sviluppo di specie diverse.

Al fine di “giustificare” l’alterità dell’Uomo, la teoria di Darwin necessita solo di essere trasposta alle società umane, con lo sviluppo di una gerarchia di ambienti e società diversi e il perfezionamento di alcune specie come princìpi di esclusione. Di conseguenza, il clima e le risorse naturali dell’Europa spiegherebbero perché (una delle?) società più sviluppate del mondo si è sviluppata lì, mentre climi estremi e la mancanza (o l’abbondanza, che funziona ugualmente bene) di risorse naturali caratteristici di tutte le altre parti del mondo avrebbero bloccato l’umanità in queste zone a uno stadio evolutivo primordiale e primitivo.

Chiaramente pensare le civiltà diverse come Altri giustifica la nostra supremazia e legittima la nostra propensione a dominarli. I greci devono andare in guerra contro i persiani, i credenti contro i non credenti, gli europei contro gli indigeni. Nel peggiore dei casi si parla di sterminio o di schiavitù; nel migliore dei casi si diffondono il Verbo, la civilizzazione e il progresso.

La seconda forma geografica di alterità non contrappone le diverse civiltà tra loro. Piuttosto contrappone l’umanità civilizzata (ossia pienamente umana) a quella ancora fuori nella natura (o quasi animale). È il selvaggio – etimologicamente, l’Uomo della foresta – opposto all’uomo di città e di campagna. Questa immagine stigmatizza l’Uomo che non ha (ancora) abbandonato lo stato naturale. Il folklore, in quanto realtà europea, trabocca di questi boscaioli. Villosi e violenti, minacciano i paesani (soprattutto le donne del villaggio). Nel Rinascimento la figura del selvaggio si impone come indicatore di coloro che rappresentavano una forma di umanità inferiore, durante le grandi esplorazioni in Africa e in particolare in America. Si pensa che essi si aggirino nudi, non possano parlare e si dedichino al cannibalismo ecc. Vale persino più la pena di sterminare loro dei barbari, perché la loro capacità di integrarsi all’interno dell’umanità è chiamata in questione. Questa forma di alterità ha una componente spaziale perché la civilizzazione è percepita come una diffusione dalle località centrali (Gerusalemme, la città, l’Europa), mentre i selvaggi si trovano nelle aree lontane (Australia) e negli interstizi (le nostre foreste).

Scolpire l’umanità in razze e il mondo in continenti è il terzo e più recente modello di come l’Europa è stata solita creare una forma spaziale di alterità. Questo modello si serve ancora delle figure del barbaro e del selvaggio, ma istituisce un nuovo criterio che consente a noi Uomini bianchi di contrapporci a loro, Uomini di colore. Il colore della pelle e alcuni segni secondari che l’antropologia fisica ha aiutato a identificare sono utilizzati per distinguere l’Uomo bianco, la fase “superiore” dell’umanità, dalle razze “inferiori”. Ogni razza ha un continente corrispondente, un luogo di nascita naturale da cui può fiorire. La finzione antropologica delle razze e quella geografica dei continenti consentono che queste categorie siano reificate e naturalizzate dando loro una legittimità apparentemente geografica e un falso senso di evidenza (“è ovvio”). Si alimentano vicendevolmente per giustificare la politica coloniale e la dominazione di una razza e di un continente sugli altri. Guardare al di là delle numerose razze è in realtà una forma binaria di alterità; l’opposizione di colonialista/nativo o di bianco/di colore.

L’orientalismo, analizzato da E. Said, comprende tutte queste componenti. L’orientale si distingue per la sua barbarie, selvatichezza e razza. L’Oriente è una finzione geografica che gli conferisce un fondamento geografico. L’orientalismo è il discorso per mezzo del quale l’Occidente costruisce l’alterità dei turchi, dei marocchini, dei persiani, degli indiani, dei giapponesi ecc., riducendo tutti agli stessi stereotipi stigmatizzanti, e conferendosi quindi un’identità in contrapposizione a essi. L’Occidente, quindi, guadagna il diritto, se non il dovere, di dominare l’Oriente, di salvarsi dal dispotismo, dalla superstizione, dalla miseria, dal vizio, dalla schiavitù, dalla decadenza ecc.

 

Organizzazione spaziale

Non tutte le forme di alterità sono pienamente (o anche principalmente) geografiche per natura. Le donne, gli omosessuali e i malati mentali – tutte figure principali dell’alterità in Occidente – devono la loro stigmatizzazione a qualcosa di diverso della loro localizzazione. Dopotutto si trovano in mezzo al sé. Inoltre le migrazioni (in particolare le migrazioni forzate nel contesto commerciale) hanno finito per obbligare gli Altri geografici a venire a vivere qui tra noi. La convivenza dell’Altro e del Sé in uno spazio comune non è scontata. Da un lato, le politiche discriminatorie nei confronti degli Altri sono più difficili da promuovere se le due popolazioni sono mescolate tra loro. D’altra parte, la loro convivenza rende più rischioso mantenere le particolarità (reali o immaginate) e gli stereotipi che distinguono il Sé dall’Altro. In sostanza, sembra che simbolicamente niente possa vincere un’alterità fondata su e giustificata dalla geografia. Sarebbe tutto molto più chiaro se gli uomini venissero da Marte e le donne da Venere. Inoltre, tipi di costruzioni e pratiche spaziali si basano sulla costruzione discorsiva dell’alterità per separare il sé dall’altro.

La segregazione è la più evidente di queste costruzioni. Confinare i neri e gli ebrei nei ghetti impedisce loro di mescolarsi con i bianchi e i cristiani, e quindi di contaminarli. Inoltre confinare gli Altri a una vita comunitaria tra di loro in un ghetto degradato – dove la concentrazione di povertà ed esclusione compensa i loro effetti – crea condizioni favorevoli per lo sviluppo di una miseria visibile e di una cultura specifica. Ciò serve a posteriori come giustificazione per la stigmatizzazione e l’isolamento del gruppo incriminato e conferma il senso di superiorità del gruppo dominante. Il ghetto crea alterità. In aggiunta alle forme “pure” di ghetto create dalla legge, esistono forme di segregazione meno chiaramente delimitate, che sono perpetuate dal mercato fondiario e/o dalla violenza simbolica o materiale dei gruppi dominanti. Ancora una volta, il gruppo ristretto e il gruppo escluso derivano parte della loro identità e della loro alterità da uno spazio più o meno stigmatizzante che è a loro prescritto (per esempio, i quartieri poveri o i sobborghi).

In scala ridotta, le costruzioni che confinano i malati di mente o i condannati nei manicomi o nelle prigioni seguono la stessa logica. Il loro confino li segrega, peggiora le loro condizioni e conferma la loro particolarità. Traggono parte della loro identità – o meglio, della loro alterità – dalla loro prigionia. Il confino domestico delle donne può essere analizzato negli stessi termini: vietando loro l’accesso agli spazi pubblici e riducendo la donna al suo ruolo domestico, la società patriarcale crea e riproduce la diseguaglianza di genere. L’alterità femminile è creata da un discorso ma anche da pratiche e costruzioni spaziali.

Anche le costruzioni territoriali seguono la stessa logica, a parte per il fatto che il loro effetto è meno quello di separare i gruppi preesistenti che di conferirsi reciprocamente un’identità geografica, creando un gruppo ristretto da questa parte del confine e un gruppo escluso dall’altra parte. Questo processo è valido a tutti i livelli: dalle bande che occupano vari quartieri urbani alle nazioni separate da confini statali. Un valore simbolico e materiale viene conferito alle opposizioni linguistiche, religiose, etiche e ad altre ancora: le persone credono di dovere la loro identità al loro territorio, e attribuiscono agli altri le colpe dei loro rispettivi territori. B. Anderson ha mostrato quanto i processi discorsivi e spaziali partecipino alla costruzione di comunità nazionali immaginarie e, quindi, alla costruzione di figure di alterità in base a cui tali comunità si definiscono.

Yukinori Yanagi, Pacific, 1996.

 

Esotismo 

L’esotismo costituisce la forma di alterità più direttamente geografica, in quanto contrappone l’anormalità di un altro posto alla normalità di qui. L’esotismo non è certo un attributo del posto, della persona o dell’oggetto esotico. È invece il risultato di un procedimento discorsivo che consiste in sovrapporre la distanza simbolica e materiale, mischiando l’estraneo e lo straniero, e ciò ha senso solo da un punto di vista esterno. In quanto costruzione dell’alterità, l’esotismo è caratterizzato da un’asimmetria dei suoi rapporti di potere“…l’esotismo è caratterizzato da un’asimmetria dei suoi rapporti di potere”: è occidentale colui che, durante le fasi di esplorazione e poi di colonizzazione, ha definito l’altrove e delimitato l’esotismo. Il mondo esotico è diventato sinonimo di tropicale e persino di coloniale. È fuori questione descrivere l’Europa come esotica fintantoché le menti e le parole sono decolonizzate.

La geografia è un generatore incredibilmente efficace di alterità.

L’esoticismo è caratterizzato invece dall’attribuzione di un valore all’altro, cosa contraria al pregiudizio etnocentrico. Dalla fascinazione di Omero per ciò che è lontano, dalle popolazioni più o meno immaginarie alla nostalgia di Rousseau per il nobile selvaggio, dall’orientalismo romantico degli scrittori e pittori dell’Ottocento al primitivismo di un dipinto di Gauguin, dalla curiosità per il turismo etico al riconoscimento di diritti specifici per le popolazioni originarie, l’Occidente celebra l’Altro e proclama persino la sua superiorità attraverso svariate forme (che non sono sempre inequivocabili). La predilezione per l’esotico si è affermata nel XVIII secolo, quando le turquerie, le chinoiserie e le japonaiserie esotiche diventarono di moda. Nel XIX secolo entrarono a far parte dell’ordine del giorno, con la colonizzazione e l’espansione al mondo tropicale. Sino a quel momento l’esotismo fu essenzialmente caratterizzato dall’importazione di prodotti esotici, dai loro pastiche e dai libri di viaggio e poi dalla letteratura coloniale. Solo alcune persone privilegiate, aristocratici o esploratori abbienti, viaggiarono per fare esperienza dei piaceri delle terre esotiche. Lo sviluppo del turismo di massa negli anni Sessanta ha messo tutti nelle stesse condizioni e ha reso l’esotismo una risorsa principale per molti Paesi. Secondo V. Segalen, l’esotismo è il piacere della sensazione che, consumato dall’abitudine, viene rinvigorito/riacceso dalla novità. Ma Segalen nota che dalla fine del XIX secolo in poi, tutto è già stato visto, e l’esotismo radicale – l’esotismo vissuto dal primo esploratore – è morto. In effetti, T. Todorov sostiene che è paradossale valorizzare o desiderare qualcosa che è sconosciuto. L’esoticismo consiste più nel mostrare l’entusiasmo per qualcosa che si è già visto, detto o dipinto: qualcosa che è stato percepito altrove come pittoresco e poi riprodotto come tale. L’alterità dell’esotico non è l’alterità bruta e brutale del primo esploratore; si tratta dell’alterità insipida – messa in scena e trasformata in merce – del mondo coloniale offertoci in sacrificio come spettacolo, dipinti orientalistici, zoo umani… e danze esotiche. L’esoticismo è meno il piacere del confrontarsi con l’alterità che il piacere di avere la soddisfazione di vedere una versione rassicurante di questo confronto – vero per le nostre fantasie – che ci riconforta nella nostra identità e superiorità.

 

Conclusione

La geografia è un generatore incredibilmente efficace di alterità. Da una parte, alcuni modelli spaziali sono molto efficaci, per quanto discreti, nella costruzione e nel mantenimento dell’alterità. D’altra parte la geografia, come l’antropologia fisica e la storia, ha proposto in passato e continua a fornire storie che costituiscono le fondamenta delle costruzioni discorsive di un insieme di espressioni di alterità. Tuttavia queste storie, invece di essere prese per quello che sono veramente – ossia per finzioni delegittimate dai loro legami ai regimi coloniali – hanno acquisito una patina di inevitabilità, essendosi radicate in un’apparente razionalità scientifica.

Per esempio, una delle argomentazioni più comuni contro la recente dichiarazione della Turchia di stare venendo integrata nell’Unione Europea è che questo Paese non appartiene al continente europeo. Legittimata dalla cosiddetta evidenza della geografia (fisica), questa affermazione tautologica sembra irrefutabile, a meno che si riconosca che i continenti siano delle finzioni geografiche prodotte e utilizzate dall’ideologia coloniale.

Dal momento che l’alterità è consustanziale ai rapporti di potere e ai processi di oppressione, i geografi che se ne occupano devono prendere la responsabilità individuale nell’identificare e studiare i modelli spaziali che si trovano alla base. Una prospettiva critica e riflessiva, quindi, implica necessariamente l’identificazione e la decostruzione delle diverse rappresentazioni geografiche più o meno acquisite e cosiddette scientifiche, che servono da fondamento discorsivo per le pratiche di oppressione.

 

Traduzione di Marta Somazzi

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di Jean-François Staszak
  • Jean-François Staszak è un geografo e docente universitario francese presso l’Université De Genève. Contraddistinte da un approccio costruttivista e da una prospettiva postcoloniale, le sue ricerche approfondiscono i diversi ambiti dell’epistemologia della geografia, della geografia economica e di quella culturale, focalizzandosi nello specifico sulle questioni dell’alterità e dell’esotismo.