Antony Gormley, SLUMP II, 2019.
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Rappresentare il corpo nell’arte
Magazine, ANATOMIA – Part I - Ottobre 2020
Tempo di lettura: 29 min
Dobrosława Nowak

Rappresentare il corpo nell’arte

Excursus storico-critico sulla rappresentazione del corpo umano nell’arte del passato e in quella contemporanea: dalla svolta del Modernismo alla ricerca dell’identità femminile in Anna Uddenberg e del postumano in Stelarc e Martyna Czech.

Gino de Dominicis - Calamita Cosmica (1990). Gino de Dominicis – Calamita Cosmica (1990).

 

Hans Bellmer – The Doll (1936).

Sin dall’inizio di tutti gli sforzi creativi umani, abbiamo utilizzato, quando non persino sfruttato, l’immagine del corpo umano. Le pitture rupestri di Lascaux, dove accanto agli animali compaiono diverse figure di esseri umani, risalgono a circa 17.500 anni fa. Il corpo umano è infatti fondamentale per la comprensione ed espressione del nostro posto nell’universo.

In questo saggio, ripercorrendo la storia dell’arte, analizzerò opere realizzate in epoche diverse, concentrandomi sui lavori più recenti in cui è rappresentato il corpo umano, assoluto protagonista di un’enorme quantità di opere contemporanee. Dalla pittura e scultura all’installazione, alla videoarte e alla performance, il corpo nell’arte interpreta vari ruoli, dall’essere soggetto di un ritratto al diventare presenza attiva in eventi partecipativi. I mezzi per rappresentare il corpo sono i più disparati: un dipinto, un video, una scultura e, a partire da un certo momento nella storia dell’arte, persino il corpo stesso dell’artista, dapprima attraverso la nascita della performance art e dell’happening, grazie ai quali sorgono numerosi interrogativi su una prima inedita forma di indissolubile identificazione tra l’artista e il suo prodotto (body art). Scopo di questa analisi sarà pertanto comprendere per quali ragioni e in quali modi gli artisti contemporanei rappresentino il corpo umano.

 

Quando è iniziato tutto?

Durante i secoli di arte figurativa che vanno dal Rinascimento al Realismo, passando da Barocco, Neoclassicismo e Romanticismo, gli artisti occidentali sembrano non avere mai espresso un approccio pienamente disinvolto nei confronti del corpo umano. I dipinti di queste diverse epoche hanno infatti cercato sempre di esprimere, nel modo più accurato possibile, le caratteristiche del modello assunto come protagonista. Corpo, viso e sguardo esprimevano la forma umana come verità oltre il visibile e il tangibile. Il disegno si fondava sulle correlazioni delle proporzioni umane ritenute ideali con la geometria. Piuttosto che porsi come una libera interpretazione creativa dei soggetti osservati, per questi artisti la rappresentazione della figura umana si atteneva a specifici criteri e canoni di bellezza e simmetria.

Nell’arte, il corpo umano comincia invece a liberarsi con l’impressionismo e il post-impressionismo, quando per la prima volta le opere ci mostrano consapevolmente una forma umana raffigurata in modo meno aderente ai tradizionali canoni proporzionali e dotata di maggiore vitalità, ritratta con i suoi sentimenti e le sue angosce, all’interno di scenari prevalentemente naturali.

 

Ernst Ludwig Kirchner – Reclining Nude in Front of Mirror (1909-1910).

La grande svolta modernista

In seguito, con l’avvio del Modernismo, si fanno strada nuovi mezzi di espressione. Nel fauvismo, nell’espressionismo e nel cubismo, niente conta di più dello sguardo personale dell’artista sulla realtà. Come spiega Mic Anderson su Encyclopaedia Britannica:

«Gli obiettivi centrali dei cubisti erano di scartare le convenzioni del passato per imitare semplicemente la natura e di avviare un nuovo stile per evidenziare la piatta dimensionalità della tela. Tale effetto è stato ottenuto attraverso l’uso di vari punti di vista contrastanti per dipingere immagini di oggetti comuni quali strumenti musicali, brocche, bottiglie e figure umane».11Questa e le successive traduzioni in italiano sono a cura dell’autrice.

Proseguendo, il Futurismo viene a configurarsi come un movimento che paragona gli esseri umani alle macchine, celebrando un ideale di velocità, cambiamento e innovazione della società, e rifiutando in blocco le forme e le tradizioni artistiche e culturali del passato. Su «Smithsonian Magazine», Paul Trachtman descrive efficacemente i rapidi mutamenti sociali e culturali in atto durante questa epoca:

Jacob Epstein- Torso in metal from the rock drill (1913-14).

«Negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale, l’Europa sembrava stesse perdendo la presa sulla realtà. L’universo di Einstein sembrava fantascienza, le teorie di Freud mettevano la ragione nella morsa stretta dell’inconscio e il comunismo di Marx mirava a capovolgere la società, collocando il proletariato al vertice. A scollarsi erano persino le arti. La musica di Schoenberg diventava atonale, le poesie di Mallarmé mescolavano sintassi e parole sparse sulla pagina, e il cubismo di Picasso creava un pasticcio di anatomia umana».

Questa epoca vede la nascita del dadaismo, in cui la forma umana viene spesso rappresentata come mutila o fatta per sembrare meccanica o fabbricata, rappresentazione questa che, secondo la curatrice Leah Dickerman, è strettamente correlata all’ingente numero di veterani gravemente feriti e mutilati dell’epoca e, conseguentemente, all’improvvisa espansione dell’industria protesica. Ancora Trachtman scrive:

«L’artista berlinese Raoul Hausmann ha realizzato un’icona dada con il manichino di un parrucchiere e altre varie stranezze – un portafoglio in pelle di coccodrillo, un righello, gli ingranaggi di un orologio da tasca –, e lo ha intitolato Mechanical Head (The Spirit of Our Age) (1919-20). Altri due artisti berlinesi, George Grosz e John Heartfield, hanno trasformato in scultura il manichino a grandezza naturale di un sarto, aggiungendo una rivoltella, un campanello, un coltello, una forchetta e una croce di ferro dell’esercito tedesco; gli hanno messo una lampadina funzionante come testa, un paio di dentiere all’inguine e un candelabro come gamba artificiale».

Con il Surrealismo teorizzato da André Breton, a sua volta influenzato da L’interpretazione dei sogni (1899) di Sigmund Freud, l’arte raggiunge le visioni oniriche più profonde e, in certi casi, più oscure, giocando senza restrizioni con la nozione di corpo umano. Attraverso l’opera In Voluptas Mors (1951), Salvador Dalì rappresenta il corpo umano nella sua indissolubile tensione tra morte e sessualità, mentre Hans Bellmer, con la sua serie di bambole, si impegna nella creazione di sculture provocatorie, spesso grottesche, raffiguranti bambole femminili pubescenti, ribellandosi in questo modo ai canoni e agli standard di bellezza imposti all’epoca dal regime nazista.

Henry Moore – Mother and Child (1936).

Successivamente, un progressivo distacco dalle rappresentazioni figurative del corpo umano contraddistingue movimenti quali l’Espressionismo astratto, il Minimalismo e la Color Field Painting – mentre in precedenza un simile disinteresse era già stato espresso da movimenti come il Neoplasticismo, il Costruttivismo e il Suprematismo. Tuttavia, in questi stessi anni, l’interesse per la corporeità umana si mantiene intatto, per esempio, nell’opera e nella ricerca di un artista come Henry Moore, individualista eclettico ispirato dall’arte antica e primitiva (sculture egiziane, sumere, precolombiane, africane, messicane ed etrusche), dalle opere di Amedeo Modigliani, Constantin Brâncuşi e Picasso, nonché dall’arte rinascimentale italiana.

Bruce Nauman – Self Portrait as a Fountain – 1966.

 

 L’opulenza dell’arte concettuale: da “Self Portrait as a Fountain” (1966) a “The Artist is Present” (2010)

Marcel Duchamp ha attraversato le diverse correnti del fauvismo, del cubismo e del dadaismo, sino a farsi pioniere dell’arte concettuale. La sua rilevanza e importanza teorica per i futuri artisti concettuali è stata riconosciuta dall’artista statunitense Joseph Kosuth nel suo saggio del 1969, Art after Philosophy, dove afferma: «Tutta l’arte dopo Duchamp è concettuale (in natura) perché l’arte esiste solo concettualmente». Con Duchamp, infatti, è emersa la necessità di «rimettere l’arte al servizio della mente». Come dimostrato dall’evoluzione della storia dell’arte successiva, ciò significava anche rimettere in movimento il corpo.

Un importante riferimento al più celebre ready-made duchampiano, Fountain (1917), considerato punto di avvio dell’arte concettuale, è costituito dall’autoritratto di Bruce Nauman intitolato Self-portrait as a Fountain (1966). In un unico, semplice scatto, la performance dell’artista diventa scultura, fotografia e opera d’arte concettuale in un intricato messaggio a più livelli. Come scrive l’artista Jacolby Satterwhite su «Artforum», l’opera:

«È arrivata solo due anni dopo la desegregazione ufficiale statunitense delle fontane, le quali non erano mai state soltanto degli innocenti oggetti sradicati. L’autoritratto era, ovviamente, un remake del ready-made duchampiano del 1917. Le intenzioni di Nauman erano alquanto ironiche e ammiccavano alla storia; tuttavia, egli era consapevole del fatto che il suo corpo fosse una fonte carica di una catena metonimica abbastanza confusa da fondere insieme il più oscuro dei concetti politici con la più chiara delle ricerche oggettive: il proprio corpo come scultura».

A partire dal ventesimo secolo, ravvisiamo dunque un cambiamento significativo sia nel modo in cui il corpo viene generalmente percepito, sia nelle modalità in cui è utilizzato nell’arte, soprattutto nel momento in cui, con l’arte concettuale, l’attenzione si sposta dall’opera al suo artefice, l’artista, così come evidenzia con queste parole Vilma Torselli: «Se, come avviene appunto nell’arte concettuale, l’opera d’arte non è necessaria, anzi viene abolita, l’attenzione si sposta allora sull’artefice, che riassume in sé stesso ciò che resta della nozione di arte».

Seguendo questa scia, negli anni ’60, con la nascita della Performance e della body art e dell’happening, si diffondono opere create solo attraverso l’uso del corpo, rappresentato anche nella sua assenza, come nel caso delle ricerche di Davor Džalto, Antony Gormley e Andy Warhol.

Yves Klein – Anthropometries of the Blue Epoch – 1960.

Un importante influsso sullo sviluppo della performance art è dato dalle fotografie, scattate nel 1950 da Hans Namuth, che ritraggono il pittore statunitense Jackson Pollock mentre realizza la sua cosiddetta “action painting”. Con la tela poggiata sul pavimento del proprio studio, Pollock si serve della tecnica del dripping per riversare la pittura sulla superficie. Questa sperimentazione corporea della pittura continua per tutti gli anni ’50 nelle ricerche di artisti come Yves Klein, nelle cui opere vediamo offuscarsi i confini tra pittura e performance.

Parallelamente, la nascita, negli anni ’60, della body art sancisce un cambiamento inedito ed epocale nelle modalità di utilizzo del corpo all’interno dell’arte, da qui inteso anche come strumento politico di protesta o di provocazione, come ancora evidenzia Torselli:

Alicja Zebrowska – video Tajemnica patrzy (The Secret is Looking) (1995).

«Era una forma espressiva degli anni ’60 […], sorta in Europa e diffusa poi in America e in Giappone, in un periodo in cui la crisi del movimento astrattista e concettualista esigeva un rinnovamento totale e clamoroso, anche utilizzando, come spesso accade, le forme della protesta e della provocazione. Nella negazione completa dei mezzi espressivi già sperimentati, rifiutati perché divenuti sterilmente incapaci di rappresentare le esigenze contemporanee, l’artista si rivolge allo strumento espressivo più elementare ed essenziale, il corpo umano, spesso il proprio […]».

Ad abbattere e superare ulteriormente queste barriere sempre più scontornate sono pionieri dell’arte contemporanea quali Yves Klein, Carolee Schneemann, Yayoi Kusama, Charlotte Moorman e Yoko Ono. In questo medesimo periodo, artisti d’avanguardia22Tra gli altri, Allan Kaprow, Joseph Beuys, Nam June Paik, Wolf Vostell, Claes Oldenburg, Jim Dine, Red Grooms e Robert Whitman.
 danno luogo agli happening, incontri misteriosi e privi di copione tra artisti e loro amici in diversi luoghi specifici, incorporando esercizi di assurdità, azioni performative, costumi, nudità e vari atti casuali e apparentemente sconnessi. Sulla stessa scia, il Vienna Action Group, costituito nel ’65 da Hermann Nitsch, Otto Mühl, Günter Brus e Rudolf Schwarzkogler, esegue diverse azioni di body art incentrate sulla rappresentazione di veri e propri tabù sociali (per esempio, la mutilazione genitale).

Riprendendo ancora Torselli, il corpo dell’artista-sciamano diventa così simbolo manifesto del sillogismo arte=vita:

«In una performance che non si ripete mai assolutamente uguale, un attore-esecutore, il body-artist, inseguendo la realtà nel suo aspetto più strettamente attualistico, esibisce il proprio corpo teatralizzando un’esperienza fisica che ha nell’artista stesso il prodotto finale, anziché creare oggetti artistici, abolendo categoricamente ogni barriera tra arte e vita […]».

Emilio Bianchic, Uh La Lá LA la lA, 2016

A partire dal 1995, insieme agli studi del critico d’arte e curatore francese Nicolas Bourriaud, comincia a delinearsi chiaramente una particolare forma d’arte che mette al centro dell’esperienza nientemeno che il corpo dello spettatore. Questa arte, definita relazionale (o, più tardi, arte socialmente impegnata, community based art, arte partecipativa ecc.), viene codificata da Bourriaud all’interno del volume Estetica relazionale (1998); termine, quest’ultimo, apparso per la prima volta nel ’96 nel catalogo della mostra Traffic, da lui curata presso il CAPC Musée d’Art Contemporain de Bordeaux.

Definita come «un insieme di pratiche artistiche che prendono come punto di partenza teorico e pratico l’insieme delle relazioni umane e il loro contesto sociale, piuttosto che uno spazio indipendente e privato»33Cf. Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, postmediabooks, Milano, 1998.
, l’arte relazionale ha le proprie radici nell’arte concettuale, nel movimento Fluxus e nella pratica dell’happening, e si basa su tecniche performative che trasformano l’osservatore in partecipante attivo, e dunque l’artista da creatore a facilitatore. Tra gli artisti individuati da Bourriaud ricordiamo: Rirkrit Tiravanija, Philippe Parreno, Vanessa Beecroft, Maurizio Cattelan, Jes Brinch, Henrik Plenge Jacobsen, Christine Hill, Carsten Höller, Noritoshi Hirakawa, Pierre Huyghe.

In queste ricerche, più che un forte interesse nei confronti del corpo, c’è, da parte degli artisti, la volontà di far immergere lo spettatore all’interno dell’opera, abolendo del tutto le barriere tra “io” e “tu” e dando vita a un “corpo collettivo”. Piuttosto che un incontro tra l’opera e lo spettatore, l’arte relazionale produce infatti incontri tra soggetti, il cui significato è elaborato collettivamente.

Jala Wahid, Born from and Buried in Baba Gurgur (2018). Damien Hirst – Hymn (1999-2005).

Diversi anni dopo, nel 2010, Marina Abramović continua le nobili tradizioni sia dell’arte relazionale che della performance art con l’opera The Artist is Present, una performance organizzata al Museum of Modern Art di New York come parte della retrospettiva dedicata all’artista. L’opera si è svolta dal 14 marzo al 31 maggio 2010, diventando in questo modo la performance più lunga di Abramović, durante la quale l’artista ha trascorso circa 700 ore immobile. La performance prevedeva che l’artista restasse seduta in silenzio e immobile, davanti a una sedia di volta in volta riempita dai visitatori, che potevano in questo modo trovarsi faccia a faccia con l’artista, a una distanza molto ravvicinata in grado di creare tra i due uno spazio intimo e pregno di pathos.

Pochi anni prima, nel 2006, l’artista inglese Martin Creed realizza Work No. 503 (Sick Film), primo di una serie di video in cui presenta una serie di giovani uomini e donne ripresi nell’atto di vomitare. Qui l’artista esplora il corpo umano e i suoi processi, cercando di suscitare disagio nello spettatore, una ricerca espressa da Creed anche in alcuni altri suoi video incentrati sulle funzioni corporee di base, come il sesso e la defecazione. In ognuno di questi film, il corpo è posto su uno sfondo rigido e sterile, per focalizzare tutta la nostra attenzione su tali funzioni fondamentali che siamo soliti mantenere nello spazio recondito della nostra privacy. A proposito della sua opera del 2007, Work No.837 (Sick Film)Creed afferma:

«Il vomito è un buon esempio di come cercare di ottenere qualcosa dall’interno verso l’esterno; è doloroso, e anche lavorare può essere doloroso; è persino incontrollabile. Voglio fare un lavoro che sia più simile a un vomito che a una ruminazione».

Michele Gabriele – Hiding the Worst Part of Me For You and it Cause Me Dermatitis (2018).

A proposito del rapporto tra arte e corpo umano nella body art, nella sua intervista per «Qantas Magazine», citando Robert Hughes, il direttore della National Gallery of Australia, Nick Mitzevich, afferma:

«L’arte chiude il divario tra te e tutto ciò che non sei tu, e in questo modo passa dal sentimento al significato. La Live Art, e in particolare la Body Art, è spesso vissuta al livello emotivo, fisico e liminale. Spesso è dopo la performance che il significato e la potenza prendono vita e diventano parte di te, e potrebbero anche cambiarti lievemente».

Nell’arte contemporanea, l’utilizzo del corpo viene dunque spesso a costituire anche un pretesto per affrontare questioni politiche e sociali legate alla costruzione dell’identità, così come ci dice Paul Hobson, direttore della Modern Art Oxford, parlando a proposito della serie di cortometraggi prodotti in collaborazione con Google Arts & Culture:

«Il corpo umano è fondamentale per il modo in cui comprendiamo aspetti dell’identità come genere, sessualità, razza ed etnia. Gli individui in genere adattano e alterano la loro immagine corporea per conformarsi o ribellarsi alle convenzioni sociali e per esprimere messaggi agli altri intorno a loro. Poiché il corpo è un luogo per esprimere l’identità, molti artisti usano il corpo come un modo per commentare la politica dell’identità […], così come per sviluppare nuovi concetti di arte».

 

Anna Uddenberg – Venus of Our Times, (2016).

Che cosa c’è di nuovo? Il buon vecchio Internet

Nel 1969 Internet inaugura il suo dominio globale con ARPANET (suo progenitore), stravolgendo letteralmente il mondo più di quanto avrebbe mai potuto fare qualsiasi movimento artistico. Oggi ci sono 4,54 miliardi di utenti Internet, che nel 2020 rappresentano il 59% della popolazione mondiale. Ogni giorno questi utenti sono costantemente bombardati da immagini di tutti i tipi, e molte di queste rappresentano appunto corpi umani.

Tra gli artisti più interessanti che oggi affrontano l’argomento, la svedese Anna Uddenberg sviluppa la sua ricerca sul corpo attraverso una serie di sculture che incarnano un ideale femminile contemporaneo e ipernormalizzato, così come ben delineato da David Andrew Tasman in un articolo pubblicato su «Flash Art»:

«Le sue sculture figurative – spesso flessibili, vestite di indumenti complessi e succinti, e contorte in maniera improbabile in pose suggestive o esplicite – incarnano la tensione e gli standard ipernormalizzati di un’identità femminile neoliberale, rafforzata dall’immaginario commerciale della cultura delle merci, dalle celebrità influencer dei social media, dall’ascesa della tv dei reality di fine secolo e dalle sottoculture erotiche oggi più facilmente accessibili che mai grazie all’ubiquità di Internet. Le sue figure sono distorte da queste forze nella misura in cui diviene evidente l’assurdità di ciò che equivale a una fantasia collettiva – e le richieste inattuabili che pone al corpo. Sebbene la critica di Uddenberg all’argomento sia una delle più coese della sua generazione, rappresenta anche una pratica con legami sottili ma importanti con il passato».

Il cambiamento, però, non è solo quantitativo, ma anche qualitativo:

«Come sottolinea la sociologa Tiziana Terranova, il passaggio dai vecchi ai nuovi media, o dal “Set” al “Net” è indicativo di un conflitto tra due diversi tipi di forza culturale: “la cultura della rappresentazione e dello spettacolo e la cultura della partecipazione e della virtualità”».44Josephine Berry, Human, all too Posthuman? Net Art and its Critics, «Intermedia Art», 2000.

Martyna Czech – Beggar of Love (Zebraczka milosci) (2016-2018).

Per molti versi la ricerca di Uddenberg è riconducibile a quella corrente artistica definita per la prima volta da Maria Olson nel 2008, e in seguito ulteriormente elaborata dal critico Gene McHugh nel 2009, come “post-Internet”, un termine che la distingue dalla precedente Net Art di fine anni ’90, caratterizzata dalla consuetudine di utilizzare Internet come mezzo. La post-Internet Art, a cui vengono solitamente associati, tra gli altri, artisti quali Petra Cortright, Jon Rafman, Ryan Trecartin, Amalia Ulman e Artie Vierkant,55Cf. https://www.artsy.net/gene/post-internet-art.
 esprime una tendenza attuale nella critica contemporanea nel riconoscere l’inevitabile impatto che Internet ha sulla cultura e sull’arte. Post-Internet non fa riferimento a un tempo successivo, a un “dopo” Internet, ma piuttosto a un tempo “su” Internet, ed essendo Internet divenuta parte così essenziale della nostra vita possiamo dedurre che ogni opera d’arte sia, in qualche modo, associata a essa.

 

Che cosa stiamo per diventare?

Nell’enorme quantità di movimenti artistici già percorsi e di mezzi espressivi a nostra disposizione, è chiaro che immaginare oggi un futuro per l’arte contemporanea sia un’impresa di non facile portata.“…è chiaro che immaginare oggi un futuro per l’arte contemporanea sia un’impresa di non facile portata.” Abituati, come siamo, a immaginare un’evoluzione lineare della storia ritmicamente connessa all’evoluzione umana, nel momento in cui ci troviamo ad analizzare il ritmo differente con cui procedono e si sviluppano le macchine, nella loro evoluzione esponenziale, entriamo in difficoltà. Come spiega bene David Simpson in occasione della TED Our Posthuman Future (Il nostro futuro postumano), i computer «raddoppiano la potenza di elaborazione all’incirca ogni anno. […] Tra trent’anni saranno un miliardo di volte più capaci di quelli che abbiamo oggi». Saremo in grado un giorno di applicare la medesima considerazione alle arti, anche e soprattutto in virtù della loro connessione sempre più profonda con le macchine e le nuove tecnologie? Che cosa diventeremo noi, e cosa diventerà l’arte?

Un punto di partenza per essere in grado di formulare una prima risposta plausibile a queste domande è l’intervento del gennaio 2017 di Rosi Braidotti in occasione della conferenza intitolata Posthuman, All Too Human:

«Che cosa stiamo per diventare? Che tipo di soggetti siamo in procinto di diventare? Soggetti di conoscenza, soggetti di diritto, soggetti di desiderio, soggetti… Con tutto l’apparato della filosofia francese, per il quale nutro enorme amore, ammirazione e rispetto, la tradizione più denigrata e meno compresa, non solo del pensiero politico, ma anche della filosofia, della filosofia della scienza, è la comprensione del corpo, la comprensione degli affetti e delle passioni. E più che mai, penso, abbiamo bisogno di tornare al materialismo corporeo dei francesi […], una grande tradizione di materialità corporea e di epistemologia incorporata che penso possa vederci attraverso l’arrivo dei secoli bui».

La comune sensazione di urgenza di analizzare che cosa diventeremo è più che comprensibile. Ancora di più oggi, in concomitanza con l’attuale crisi sanitaria di Covid-19, dove distanziamento sociale e sconvolgimento economico spingono la maggior parte di noi a concentrarsi su sé stessi come esseri organici. Nonostante tutti i miglioramenti impetuosi della “materia umana”, al momento il virus è imbattibile, e i corpi si dimostrano fortemente vulnerabili. A dispetto di ogni possibile narrazione postumana, siamo ancora fatalmente mortali. Tuttavia, la nostra attenzione nei confronti del corpo umano continua a crescere e a esprimersi all’interno della società, nella cultura e nell’arte contemporanea.

 

Il corpo umano nell’arte contemporanea più recente

Negli ultimi anni, numerose ricerche artistiche hanno fatto emergere un rinnovato interesse, di matrice figurativa, nei confronti del corpo umano, così come ha notato nel 2019 Brett Reichman, docente universitario del Dipartimento di Pittura del San Francisco Art Institute:

«Durante i periodi di conflitto sociale e politico, la libertà individuale e l’etica culturale sono messe in discussione dalle questioni che riguardano il corpo. A tale riguardo, negli ultimi anni si è intensificato un forte interesse per la pittura figurativa, insieme al rinnovato scopo dell’artista di dipingere le persone».

Analizzando un cospicuo corpus di opere d’arte contemporanee in cui il corpo umano è messo in risalto come elemento preponderante della rappresentazione, sono arrivata a individuare alcuni schemi comuni e ricorsività tra un lavoro e l’altro.

Da un lato, riscontriamo una rappresentazione frammentata del corpo umano, che ha per oggetto teste, mani, piedi o altre parti del corpo smembrate, quando non persino deformi (si vedano a questo proposito i lavori dei seguenti artisti: Marta Pierobon, Christine, Metodo Milano; Zoe Barcza e Anna Uddenberg, Cruising, M/S Mariella; Michele Gabriele, Clumsy and Milky: encoding the last quarter of a pose, White Noise Gallery; Anastasia Bay e Habima Fuchs, Contemporary Archaeology, G/ART/EN; Lionel Maunz, Dead Eden, Lyles & King; Jala Wahid, Franticek Klossner, Ronit Baranga, Lewis Hammond, Enej Gala, Jana Euler, Clément Rodzielski, Ádám Horváth, Horizont Gallery ecc.). Queste parti del corpo vengono spesso presentate in circostanze raccapriccianti, mentre ci fissano attraverso buchi nel pavimento o mentre strisciano sui muri. Altre volte si riempiono di piante (come nel caso delle teste di Marco Giordano per la mostra Living in Imagination, Galeria Wozownia), o si vestono di un’estetica cross-gender (la serie del 2016 di Emilio Bianchic intitolata Uh La Lá LA la lA). Tuttavia può anche accadere che il corpo umano acquisisca le sembianze di un animale, per esempio un cervo, come succede nell’opera di Isabelle Albuquerque, Orgy for 10 People in One Body, presentata nel 2020 alla mostra Sextet (Nicodim Gallery); oppure, che assuma dimensioni gigantesche, come nell’opera di Damien Hirst intitolata Hymn (1999-2005), che vede a sua volta come suoi precursori Gino de Dominicis, con Calamita Cosmica (1988), e Susanne Ussing, con I Drivhuset, Ordrupgaard (1980).

Dall’altro lato, invece, nelle attuali rappresentazioni artistiche della corporeità, incontriamo frequentemente organi sessuali (vagine e falli giganteschi), scene “forti” di atti sessuali, elementi organici come escrementi, e tutta una nutrita serie di altri elementi che appartengono alla sfera dell’intimità (si vedano i lavori di Ambera Wellmann, Agata Słowak e Max Maslansky, e la mostra Homebound di Urara Tsuchiya presso Ada Project, Roma). Tutto ciò che un tempo veniva etichettato come intimo, privato, oggi, in molte rappresentazioni artistiche, non lo è più, e sulla scena assume un ruolo e una posizione di primo piano. A proposito dei dipinti di una tra le pittrici polacche più promettenti della nuova generazione – Martyna Czech –, Piotr Policht afferma:

«I suoi lavori sono molto più diretti, schietti e brutali. Le scene sono ben inquadrate, come nelle fotografie accidentali. […] Come dichiara lei stessa, si interessa a stati d’animo e sentimenti estremi. Nei dipinti di Martyna Czech non ci sono personaggi ambigui e grigie sfumature morali. C’è odio, amore, vendetta, sofferenza, morte. L’uomo è un amico o – molto più spesso – un traditore, un nemico e una creatura assolutamente schifosa. Innanzitutto nei confronti degli animali, che nei suoi quadri vengono spesso vendicati».

Young Boy Dancing Group (2016). Sarah Lucas – Why Should I (2019).

Debuttando nel 2014, «quando nel gremito e sudato Club Silencio […], i suoi fondatori si infilarono un laser verde lime nel retto cominciando a girare per la sala», lo Young Boy Dancing Group si caratterizza per l’uso sorprendente di alcuni oggetti di scena che gli hanno presto fatto guadagnare una fama virale. Sin dall’esordio, la troupe si esibisce indifferentemente in luoghi underground, così come all’interno di istituzioni. Le sue performance sono del tutto improvvisate, e perseguono il solo obiettivo di immergersi nell’estasi dell’intimità, condividendo con il pubblico un’esperienza di caos pregno di carica sessuale e abbattendo ogni barriera con lo spettatore.

Particolare attenzione al tema della corporeità umana, analizzata dal punto di vista dei suoi effetti nella costruzione delle categorie che definiscono l’identità (come per esempio il sesso, il genere e il colore della pelle), è data, come si è detto, nelle opere di Anna Uddenberg, la quale non si limita a focalizzarsi solo sui rapidi sviluppi delle attuali tecnologie e sui loro effetti nella cultura, ma estende la sua ricerca all’analisi del ruolo sfavorevole che le donne ricoprono nelle nostre società. A tal proposito si veda per esempio l’opera del 2016 intitolata Venus of Our Times e presentata alla nona edizione della Biennale di Berlino. Più in generale, come evidenzia Anna Gritz su «Kaleidoscope»: «Le sue figure appaiono lacerate dall’assoluta impossibilità di conciliare le fiducia di auto-miglioramento, spiritualità, attrazione sessuale e realizzazione personale e professionale».

Quando facciamo riferimento a simili questioni, indagate soprattutto dai femminismi e da una certa tipologia di ricerche artistiche, è opportuno ricordare il lavoro dell’artista polacca Alicja Żebrowska intitolato Original Sin (1993-’94), un’installazione video contenente alcuni primi piani di una vagina al cui interno vengono inseriti diversi oggetti, tra cui un bottone, una Barbie e un dildo. Emblematica la scena della Barbie, applicata in modo da simulare una sorta di “nascita”, confondendo il piano strettamente anatomico con quello sessuale.

Tra le artiste che lavorano con la nozione di corpo, ricordiamo anche l’iconica Sarah Lucas del movimento Young British Artists, le cui opere combinano umorismo e immagini provocatorie per sfidare le aspettative sul genere e sulla sessualità; o, ancora, Tracey Emin, artista britannica nota per le sue opere toccanti che indagano dettagli autobiografici attraverso una varietà di media.

Tra le artiste femministe che in Polonia si occupano di corpo, sfidando le politiche discriminatorie del governo di ultradestra guidato da Jarosław Kaczyński, che in più occasioni ha dimostrato di privare le donne dei loro diritti fondamentali66Per approfondire si veda il precedente articolo scritto dall’autrice e pubblicato su «KABUL magazine».
, ricordiamo Agata Zbylut. Attraverso un approccio che potremmo definire “universale”, l’artista indaga sé stessa nel ruolo di donna appartenente a una complessa e travagliata società dell’Europa Orientale. Utilizzando in maniera prolifica i social media (tra cui Instagram), Zbylut si pone come oggetto di ricerca, eseguendo interventi estetici e trasformazioni sul proprio corpo (lontano dalle tipiche immagini cosmetiche del “prima e dopo” a cui siamo abituati), ed esponendo il proprio punto di vista nelle captions. Attraverso questi interventi cerca di mettere in risalto che cosa significhi essere donna in un paese come la Polonia, dove con il presente governo ultradestra, è ancora più difficile essere semplicemente una donna.

Lee Bul – Cyborg W1-W4 (1998). Stelarc – Ear On Arm (2006).

Un ulteriore approccio impiegato da diversi artisti che lavorano con l’idea della corporeità umana è quello che si esprime in un certo filone fantascientifico orientato verso il futuro e popolato di cyborg, mutanti, strane macchine simili agli umani, in un vasto repertorio di immagini in cui si tenta di indagare i possibili effetti che gli strumenti tecnologici di domani avranno sui corpi degli esseri umani. Si veda, per esempio, l’opera di Renaud Jerez; o, ancora, la ricerca dell’artista australiana Patricia Piccinini, che nel 2016 è stata insignita, dal «The Art Newspaper», del titolo di artista più popolare al mondo, grazie alla mostra tenuta a Rio de Janeiro che ha attirato oltre 444.000 visitatori da tutto il mondo. Un ulteriore esempio di questo approccio è dato da Stelarc, artista cipriota naturalizzato australiano e visiting professor presso la Brunel University School of Arts. L’artista, che nelle sue opere utilizza strumenti medici, protesi, elementi di robotica, Internet e realtà virtuale, ha impiegato dieci anni per trovare un chirurgo disposto a impiantargli nel braccio un orecchio di cartilagine umana, riuscendo così a esasperare le pratiche di body modification in senso postumano. A proposito di questa operazione di chirurgia, Stelarc dichiara:

«Sono sempre stato incuriosito dall’idea di creare una protesi molle utilizzando la mia pelle, da intendere come trasformazione permanente dell’architettura corporea. Il presupposto è che se il corpo viene alterato ciò può significare regolare la propria consapevolezza. Progettare un’architettura anatomica alternativa, che sia in grado di funzionare anche telematicamente. Di certo, ciò che adesso è importante non è la sola identità del corpo, bensì la sua connettività – non la sua mobilità o posizione, ma la sua interfaccia. In questi progetti e in queste performance, una protesi non è vista come un segno di mancanza, ma piuttosto come un sintomo di eccesso. Man mano che la tecnologia prolifera e si microminiaturizza, diventa biocompatibile sia in scala che in sostanza, ed è incorporata come componente del corpo. […] Questi sono oggetti protesici che aumentano l’architettura del corpo, ingegnerizzando sistemi operativi estesi di corpi e frammenti di corpi, spazialmente separati ma connessi elettricamente».

Yang Shaobin (1990).

Concludendo questa breve disamina degli artisti che si occupano di corpo con un occhio – potremmo dire – “orientato al futuro”, l’ultimo approccio che mi sembra interessante citare è quello dell’artista sudcoreana Lee Bul, tra le prime a trasportare le creature della sottocultura fantascientifica nell’arte contemporanea, attraverso una rappresentazione che riprende visivamente l’impianto estetico della statuaria classica. Ne costituiscono un esempio i suoi fluttuanti cyborg in marmo bianco, ritratti privi degli arti e in pose che ricordano quelle delle sculture classiche.

Accanto a queste numerose ricerche in cui è possibile riscontrare alcuni elementi concettuali e visivi per certi versi comuni, naturalmente ne esistono altrettante che si esprimono più su un versante strettamente individualistico, di ricerca personale. Ne è un esempio l’opera dell’artista Yang Shaobin, «attento osservatore di ciò che lo circonda e del contesto mondiale globalizzato» – scrive Tereza de Arruda – e «testimone dei suoi tempi» in un particolare contesto sociale – quello cinese – che ha attraversato negli ultimi anni un lungo e travagliato periodo di crescita e riconoscimento internazionale, culminato nel 2008 con la celebrazione dei Giochi Olimpici di Pechino. Scrive ancora de Arruda:

«Le scene di guerra o i campi di battaglia sono diventati un luogo comune nel cinema e in televisione, nonché, purtroppo, caratteristica costante dei notiziari quotidiani. La guerra è uno spettacolo mediatico estetico. Soprattutto dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre, che ha portato immediatamente alla guerra in Iraq e a una discussione partecipata a livello internazionale, molte sono state le pressioni sui paesi perché prendessero posizione. […] Come i reporter di guerra, Yang Shaobin continua a guardare e riferire gli eventi, indifferente ai segni psichici o fisici lasciati, o alle mutilazioni».

In ultimo, ma non per importanza, la pandemia. Sebbene l’eco di questo periodo di crisi si ripercuoterà nel lontano futuro, già oggi l’argomento è ragione di analisi e ricerca anche nell’arte contemporanea. Per esempio, la Alone Gallery di Long Island è il primo spazio espositivo progettato per essere vissuto in isolamento, sviluppato proprio in risposta alle sfide poste dal Covid-19. La galleria non prevede personale, e i visitatori possono visitare la mostra insieme a non più di tre partner alla volta. Fluttuando da solo al centro dello spazio vuoto, l’inquietante Josh (2010) di Tony Matelli trasforma la galleria in una stanza di autoriflessione. A proposito di Josh, leggiamo Jacquelyn Davis su «Artforum»:

Urara Tsuchiya – Homebound (2020).

«Josh sembra amplificare una condizione ambivalente che deriva dal distacco psicologico richiesto a chiunque desideri ricominciare daccapo. Nell’opera, una figura pallida e maschile che indossa un abbigliamento da bel tempo fluttua appena al sopra del suolo, apparentemente non influenzata dalla gravità. Molto è trasmesso attraverso i volti delle creazioni umanoidi di Matelli; il volto di Josh, per esempio, appare congelato e rassegnato».

Ricontestualizzato al 2020, Josh, nel suo stato di immobile sospensione, potrebbe facilmente apparire come uno dei numerosi corpi umani nell’epoca della pandemia. Tuttavia, in questa inquietante e incerta situazione del presente, c’è anche chi, come Urara Tsuchiya nella già citata mostra Homebound del settembre 2020 presso Ada Project (Roma), riesce a intravedere un bagliore di positività, attraverso la rappresentazione scultorea di alcune piccole figure umane e animali riprese in atti sessuali in grado quasi di esprimere tenerezza.

 

Ambera Wellmann – In medias Res (2019).

Conclusioni

Dopo aver passato in rassegna alcune delle ricerche artistiche sul corpo più incisive della storia e del presente, una prima considerazione conclusiva che possiamo trarre è la seguente: l’arte di oggi non è più coraggiosa o scandalosa e promiscua di quella del passato. L’arte è, in ogni epoca, un riflesso limpido del proprio tempo e da esso attinge a piene mani. Quella che a prima vista potrebbe sembrarci l’espressione di un’ansia corporea tipica del XXI secolo (con parti del corpo smembrate, una sessualità abbagliante, l’esplorazione dei propri tabù ecc.) non è altro che una viscerale attenzione sul corpo che ritorna ciclicamente pressoché in tutte le epoche.

Ma per quale ragione questa attenzione era ed è così comune? La risposta è perfino banale: dopo tutto, la nozione dell’“avere un corpo” riguarda ognuno di noi. Ma ciò non significa che la sensibilità umana ad alcuni argomenti resti immutata nel tempo, o che le minacce non cambino o aumentino. Il punto cruciale di questa argomentazione è che l’arte che studia e analizza la corporeità umana non è cambiata nel tempo in misura qualitativa, ma in termini quantitativi, il che equivale a dire che in questo momento la risposta degli artisti a ciò che percepiamo come minaccia per il corpo umano è alta forse più di quanto non sia mai stata in passato, e lo vediamo dall’estremo bisogno di continuare a mostrare i corpi, di scomporli e analizzarli sia nei termini della loro presenza che in quelli della loro assenza.

Tony Matelli – Josh (2010).

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Dobrosława Nowak
  • Dobrosława Nowak è scrittrice, ricercatrice, artista e curatrice. Laureata in Fotografia (2013) all'Università dell'Arte di Poznań (Polonia) e in Psicologia (2015) all'Università di Adam Mickiewicz a Poznań. Nel 2018 ha frequentato il corso "Ultime Tendenze nelle Arti Visive" all'Accademia di Belle Arti di Brera. Scrive d'arte per varie riviste in inglese, italiano, polacco e francese. Nata in Polonia, vive e lavora a Milano.