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H.P. Lovercraft, Arthur Conan Doyle, millenarismo cibernetico, accelerazionismo, Deleuze & Guattari, stregoneria e tradizioni occultiste. Come sono riusciti i membri della Cybernetic Culture Research Unit a unire questi elementi nella formulazione di un «Labirinto decimale», simile alla qabbaláh, volto alla decodificazione di eventi del passato e accadimenti culturali che si auto-realizzano grazie a un fenomeno di “intensificazione temporale”?

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Hypernature. Tecnoetica e tecnoutopie dal presente

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Strategie di comunicazione culturale ai tempi degli Yuppies: il caso studio di Per/for/mance sulle pagine di «La Repubblica»
Magazine, ASSEDIO – Part II - Ottobre 2020
Tempo di lettura: 21 min
Carolina Gestri

Strategie di comunicazione culturale ai tempi degli Yuppies: il caso studio di Per/for/mance sulle pagine di «La Repubblica»

Quando un giornalista di «La Repubblica» adottò un metodo di comunicazione innovativo quanto efficace. Nicola Garrone raccontava ai suoi lettori le performance di un giovane Paul McCarthy e di Chris Burden, paragonandole alla cultura pop italiana degli inizi degli anni ’80.

 

Cover Per/for/mance – «High Performance» – #10 Vol. III, n. 2 – 1980.

«Chi l’avrebbe immaginato che Carter con tutto quello che ha da fare, campagna elettorale ecc. trovasse il tempo per concludere con un suo discorso ai romani la settimana della Performance Art Festival11Una rassegna di performance svolta prima a Firenze e poi a Roma nel marzo del 1980.
? Eppure è successo. Giuro, l’ho visto e sentito. A meno che sia stato un trucco di quelli che fa Diabolik quando cambia personalità per i suoi piani criminosi indossando maschere di gomma a prova d’identikit. Magari, la maschera del presidente Carter con i suoi quarantotto denti in sorriso permanente che Paul Mc Carty [sic!], in pigiama da spiaggia a quadretti, spostava lentamente come un periscopio, dava più nel mascherone da carnevale di Viareggio o da vignetta caricaturale iperrealista di Mad che nel ritratto formato tessera, nel calco preciso da Museo delle Cere. Tuttavia l’effetto di più vero del vero, anche per il tono amichevolmente minaccioso (con le sue ambigue offerte di alleanza contro Firenze e Milano) del discorso che sembrava ricalcato da Verdone o pronto per un inserto speciale del Male, ha creato un curioso effetto di satira in presa diretta sulla realtà» (N. Garrone, Concerto per Laurie: violino elettrico… e registratore, in «La Repubblica», rubrica Stasera a Roma, 13 marzo 1980, p. 21).

«Paul McCarthy altro californiano ‘hardcore’, che tuttavia sarebbe piaciuto al Tinto Brass di Caligola» (N. Garrone, Ruspe e utilitarie come in un rodeo, «La Repubblica», rubrica 
Stasera a Roma, 11 marzo, 1980, p. 21).

«Per la serata romana, Burden aveva organizzato sul terreno vago dell’ex Mattatoio, alla luce dei fari delle macchine degli spettatori, uno spettacolare tiro alla fune fra una ruspa e un grappolo di Cinquecento con relativi proprietari al volante. La lotta era chiaramente impari ma, alla fine, seguendo un po’ il copione della performance in stile di Giochi Senza Frontiere prevedeva la vittoria delle Cinquecento che, novelle David contro Golia, in una puzza di frizioni e di motori surriscaldati riuscivano a riportare indietro, metro dopo metro, il gigantesco trattore» (Garrone, Ruspe e utilitarie come in un rodeo, cit.).

Nel marzo del 1980 Nicola Garrone descriveva così ai lettori de «La Repubblica» le performance ideate da Chris Burden e Paul McCarthy per la rassegna itinerante “Per/for/mance: La Settimana della Performance Americana”22Il festival era a cura di Pamela Zulli, allora coordinatrice dell’area relativa alle arti performative, il WPA (Washington Project for the Arts), sostenuta dalla collaborazione di Lynda Burnhalm, co-fondatrice dellla rivista «High Performance magazine» di Los Angeles. Sì, artisti e curatori provenivano dagli Stati Uniti, ma il format era tutto italiano: la prima settimana della performance art si era tenuta a Bologna presso la Galleria di Arte Moderna nel 1977 ed era stata succeduta da altre quattro edizioni, dunque tra il pubblico dell’arte contemporanea e gli addetti ai lavori quel titolo, Settimana della Performance, aveva già acquisito una sua chiara identità. Questa volta però lo staff era diverso, non più Renato Barilli, Francesca Alinovi e Roberto d’Aolio a coordinare le giornate del festival, nonostante appaiano dei loro contributi nel catalogo, ma un’americana che con questa rassegna itinerante tra Firenze e Roma si poneva l’ambizioso obiettivo di presentare un campione rappresentativo della scena performativa statunitense in Europa. Di questa manifestazione itinerante possediamo scarsa documentazione: riviste specializzate dell’epoca come «Flash Art» e «Segno» riportano solo brevemente le fasi dell’evento, tra la stampa di settore degno di nota è solo un reportage ben approfondito pubblicato, non casualmente, su «High Perfomance magazine», periodico assente da ogni biblioteca italiana. Il catalogo dedicato invece ricostruisce senza entrare nello specifico delle nuove produzioni, probabilmente perché pubblicato precedentemente all’evento. La ricostruzione di questa rassegna dunque è possibile solo grazie allo spoglio dei quotidiani di allora come «La Repubblica», «Paese Sera», «Il Corriere della Sera» e «l’Unità», che ha erroneamente descritto Paul McCarthy (uno dei Beatles), e offre lo spunto per avviare un’analisi su come l’arte contemporanea possa essere comunicata bene, nel caso di Garrone, anche attraverso la stampa non specializzata. Cfr. P. Zulli (a cura di), Per/for/mance: La settimana della Performance Art americana, (Firenze, Teatro l’Affratellamento, 1-6 marzo, 1980), Parretti Grafiche, Firenze, 1980.
. La tappa romana, oggetto del reportage di Garrone, si svolse tra il terreno dell’ex Mattatoio, oggi sede di MACRO Testaccio, e l’antistante teatro Spazio Uno.33Spazio Zero, che spesso viene definito negli articoli come «circo» o «tendone», era stato appena rinnovato. L’organizzazione fu affidata, oltre che al suddetto teatro, all’ARCI e all’Opera Universitaria, che riuscirono a mettere in piedi una rassegna internazionale con un budget minimo di nemmeno dieci milioni di lire, facendo pagare l’ingresso al prezzo unico di 2.000 lire. Il ruolo che Spazio Zero occupava nella Roma degli anni ’80 è ben raccontato da Renato Nicolini, giornalista e allora Assessore alla cultura, in un articolo dedicato alla memoria di Lisi Natoli, fondatore del teatro: «Mi ritorna in mente Spazio Zero, la tenda (che era stata ceduta ad altri ormai da qualche anno) di Lisi e Silvana Natoli – nel cuore di Testaccio, a pochi metri dal vecchio Mattatoio. Oggi può sembrare incredibile, ma per qualche anno, gli ultimi della direzione Squarzina del Teatro di Roma, quella tenda è stata epicentro e simbolo di una nuova managerialità, intrecciata all’Estate romana che prolungava fuori stagione. Con il sostegno dall’assessorato alla cultura , non solo dall’assessore, ma dai suoi giovani dipendenti, come Gianfranco Capitta, Enrico Mastrangelo, Lello De Lio, arrivati al Comune attraverso la «285», la legge firmata Tina Anselmi per avviare al lavoro i giovani. Ricordo, uno per tutti, il «Progetto Germania» firmato Franco Quadri – attraverso il quale sono arrivati a Roma per la prima volta molti grandi registi tedeschi, compresa, se non ricordo male, la coreografa Pina Bausch. Lo spirito di Spazio Zero era correttivo, se non alternativo, all’eccesso di burocratismo e di conformismo che incrostava, appesantendolo, il carattere pubblico del Teatro di Roma, in sintonia con quanto di nuovo si muoveva invece in Europa all’inizio degli Anni Ottanta, gli anni di Jack Lang» 
(R. Nicolini, Lisi Natoli un artista di teatro che colorò l’estate romana, «l’Unità», rubrica, Spettacoli, 25 ottobre 2004, p. 
21).
Gli elementi che fin dall’inizio caratterizzano la ricerca degli artisti californiani – l’utilizzo della maschera, della messa in scena per denunciare gli aspetti più ignobili della classe dirigente e della quotidianità, della farsa, del gioco, delle armi, dei motori – sono qui paragonati a nomi noti di personaggi reali, come Carlo Verdone, o di fantasia, come Diabolik, di trasmissioni televisive di grande successo come Giochi senza frontiere, e di riviste italiane e internazionali come «Mad» e «Il Male».

Perché il giornalista ha deciso di citare questi specifici esempi? Questi accostamenti sono solo divertenti o rivelano in realtà vari livelli di lettura di opere complesse?

 

La maschera: Paul McCarthy come Diabolik

Alfred E. Neuman, volto di MAD magazine – La sua maschera è stata più volte utilizzata nelle performance di McCarthy.

«Mi recai in Europa, dove ero stato chiamato a realizzare due performance. In aeroporto comprai questa maschera di Jimmy Carter. Qualcuno mi raccontò di quanto i Fiorentini odiassero Roma, così decisi di fare questa performance a Firenze: mi presentai come Carter e dissi di quanto fossero belli gli Uffizi, e quanto fossi grato di essere a Firenze perché Roma invece era solo un bordello da distruggere con una grande rivoluzione. In qualità di presidente degli Stati Uniti, promisi ai Fiorentini consiglieri militari e tutte le armi di cui avevano bisogno per dichiarare guerra a Roma. Dopo andai a Roma e feci il contrario. Il giorno seguente venni contattato dalle Brigate Rosse – volevano intervistarmi per il loro giornale!» (G. T. Turner, Paul McCarthy: Inside and Outside, «Flash Art», n. 217, marzo–aprile 2001, p. 90).

McCarthy indossava le maschere rendendo palese la loro caratteristica claustrofobica: la prospettiva obbligata, l’inquadratura che costringe a una visione parziale di ciò che ci circonda. La maschera rappresenta un filtro sia per chi la indossa, sia per chi la guarda. Sia chi si trova sul palco, sia chi si trova in platea riceverà dei messaggi filtrati: l’attore a causa dell’oggetto indossato, il pubblico a causa del messaggio connotato nel ritratto della maschera. Uno scambio sincero tra le due parti è impossibile, così come è impossibile credere che le notizie che riceviamo non vengano prima veicolate dal filtro/maschera dei mass media. Ed è per questo che come afferma Michele Robecchi su «Mousse»: «McCarthy ha individuato nell’uso della maschera una delle ragioni per cui la differenza tra oggetto e performance è minima. I fori della maschera gli permettono una visibilità limitata, creando una specie di cornice naturale intorno all’azione, come quando si usa una telecamera. Si tratta di una giustificazione tecnica poco illuminante, che però serve per soffermarsi su un altro punto: la maschera non ha solo una funzione scenografica o di protezione, diventa anche un processo di impersonificazione fisica e spaziale. All’interno della maschera diventa difficile respirare, la voce cambia. Vista dalla prospettiva dell’artista, diventa una componente architettonica restrittiva, come le pareti e i mobili che lo circondano».

L’artista perdendo la sua identità44«L’artista, oggi, è possessivo ed egocentrico: espressione di un nuovo umanesimo desocializzato, che fa della misura micro dell’individuo il centro catalizzatore di ogni esperienza. Non sono io ad espandermi verso l’ambiente, ma è l’ambiente che viene addosso a me, e si modella sulle mie dimensioni fisiche e umane, sul mio essere insignificante. L’io di nuovo al centro del cosmo, intendendo sempre il cosmo però, come cosmesi artificiale della pelle del pianeta» (F. Alinovi, Cosmesi della pelle del pianeta, in L’arte mia, Il Mulino, Bologna 1984, p. 188). L’idea di una nascita dell’estetica del narcisismo era molto diffusa nella critica degli anni ’70 e ’80, infatti Francesca Alinovi non fu la sola a registrare questo nuovo atteggiamento degli artisti. Nel 1976 Rosalind Krauss, pubblicò sulla rivista «October» un articolo dal titolo Video: The Aesthetics of Narcissism, dove focalizzandosi sulla produzione artistica di Vito Acconci, delineò la personalità del performer. La critica inizia il suo scritto analizzando l’opera-video dal titolo Centers, del 1971, dove l’artista indicava il centro della telecamera che lo stava riprendendo per ventidue minuti e quindici secondi. L’artista immobile puntava il dito indice esattamente al centro del monitor, secondo Krauss, per attirare l’attenzione su di sé. Lo schermo, in questo caso, viene utilizzato allo stesso modo con cui ci si pone davanti a uno specchio, ovvero con funzione tautologica. Nell’immagine di se stesso Acconci manifestava il suo narcisismo, mettendosi in primo piano, generalizzando la sua condizione, come se fosse l’unica possibile, una ricerca autoriferita. La critica intuisce un capovolgimento, un cambio di prospettiva, che non era del tipo tradizionale a cui siamo abituati. Acconci, infatti, non utilizzava il suo stato psicologico come soggetto della sua opera, ma come mezzo per arrivare a essa, dunque il mezzo del video (opera) è il narcisismo (psicologia dell’artista).
 Dunque, sia per Krauss che per Alinovi, il narcisismo e l’egocentrismo dell’artista aveva a che vedere con lo spazio che si circoscriveva su di lui, un catalizzatore di attenzione che utilizzava a suo piacimento ogni cosa: dalla tecnologia, alla moda, all’arredamento, fino al teatro, al fine di creare la messa in scena del suo presente.
rappresenta l’uomo generale, lo stereotipo, o le caratteristiche di un personaggio noto reso famoso da radio e rotocalchi. La maschera dunque nelle performance di McCarthy è un elemento imprescindibile, il soggetto protagonista che permette all’artista di raggiungere il suo fine: mostrare e denunciare le inclinazioni più atroci del genere umano.

Strip da «Diabolik, chi sei?» – 1968.

In un articolo commemorativo del primo numero di Diabolik del 2010, pubblicato su «La Stampa», si legge una descrizione delle finalità dell’eroe mascherato sorprendentemente simile a quella ricondotta alle performance di McCarthy: «(Diabolik) finirà di esistere solo il giorno in cui questa società non avrà più bisogno di uomini come lui per rilevare le proprie contraddizioni».

Chi era Diabolik nel 1980?

La storia di Diabolik ha inizio nel 1962, quando «l’Italia […] non era solo la musica dei Beatles, l’eros delle prime minigonne e la voglia di rivoluzione: era chiusura mentale, perbenismo, paura del nuovo. Era il pretore di Lodi che faceva sequestrare i ‘giornalini istigatori del crimine’, erano le denunce, i processi, era il deputato democristiano Agostino Greggi che portava i fumetti alla Camera non per leggerli, ma per montarci sopra un’interrogazione parlamentare» (G. Tiberga, Cinquant’anni dopo c’è ancora bisogno di uno come Diabolik?, «La Stampa», 31 ottobre 2012).

«Diabolik fomenta la nascita dei problemi sociali!», si pensava, incredibile da credere oggi come oggi. Diabolik uscì in edicola per la prima volta nel 1962 e passò sotto silenzio. Considerato dai più come violento e un cattivo esempio per i giovani italiani, fu marchiato con il simbolo ‘vietato ai minori’. L’inchiesta che ne seguì, con tanto di interrogazione al parlamento, fece sì che intorno al nome di Diabolik si alzasse un’enorme polemica che lo condusse a una grande popolarità e a un conseguente innalzamento delle vendite, tanto da raggiungere 2.410.000 copie vendute negli anni Settanta.55Nel numero «Diabolik chi sei?», il protagonista mascherato ripercorre le vicende che hanno caratterizzato la sua infanzia: l’abbandono, il naufragio che lo portò a crescere solo, senza punti di riferimento, fino all’adolescenza quando fu affidato a un boss della malavita, proprietario dell’intera isola su cui Diabolik era naufragato da piccolo. King aveva assoldato un numeroso gruppo di collaboratori, scienziati che lavoravano per lui. Tra questi c’era il dottor Lopez che aveva scoperto la formula per «creare maschere di plastica talmente sottili e plasmabili che si potevano adattare al volto come una seconda pelle, permettendo a chi le calzava di assumere all’istante le sembianze volute». (C. Scaringi, Il mito Diabolik, Gremese, Roma 2007, pp. 8-10). E fu proprio Diabolik a tentare il primo esperimento che si rivelò un successo, tanto che le maschere sono da considerarsi come una delle sue armi più pericolose e ricorrenti.

Garrone, cosciente della popolarità del ladro mascherato, della sua valenza politica, utilizzò il nome di Diabolik sì per il suo comune utilizzo delle maschere66Ibid.
, ma anche perché, così come McCarthy, le sue vicende sono uno specchio della realtà, rilevatori delle contraddizioni della società.

 

La satira: Paul McCarthy come «Il Male»

– Mi dia Paese Sera.

– A lei

– Ma.. non è quello di oggi…non c’è Tognazzi!

– No… quello lì è il Paese Sera del Male

– Ah, quello del Male, ho capito.

(Vincino, Il Male. 1978-1982: I cinque anni che cambiarono la satira, Rizzoli, Milano 2007, pp.143-144)

La parodia alla campagna politica che stava realmente intraprendendo Carter negli Stati Uniti era palese, e McCarthy voleva denunciarne il ‘camaleontismo’, uno dei tanti mali della classe politica. Interessante come questo suo continuo riferirsi alla satira sia ricondotto alla sua passione per «Mad Magazine» nelle riviste specializzate, mentre nei quotidiani, popolari, il riferimento satirico sia un periodico locale, «Il Male», di cui sicuramente McCarthy non aveva mai sentito parlare, ma che i cittadini romani conoscevano molto bene. La cosa più importante per un giornalista che scriveva su «La Repubblica».

La rivista raggiunse l’apice di popolarità nel 1979, quando il grafico Marcello Borsetti ebbe l’idea di creare le false copertine dei quotidiani più letti dell’epoca. Utilizzando le due pagine centrali della rivista come se fossero la prima pagina di un giornale e ricopiando i formati di impaginazione originali, attraverso un lavoro di copia e incolla realizzati con letraset (trasferibili), colla e forbici. Un processo lunghissimo che invece oggi richiederebbe solo qualche minuto di lavoro. Come afferma infatti Vincino, direttore del periodico, negli ultimi anni: «molti ci hanno imitato, ma con uno spirito che non era il nostro, ossia partendo da questo discorso: ‘Ah, ah, ah! Facciamogli dire una stronzata all’Unità o al Corriere’. I falsi de Il Male erano un’altra cosa, erano una ricerca sull’energia desiderante, su cosa desiderava la gente in un determinato momento […]» (Ivi, p. 139).

L’idea di inscenare un finto arresto del capo delle Brigate Rosse, quando le prime pagine dei quotidiani erano da tempo occupate da fatti di cronaca nera legati ai loro attacchi terroristici, spacciando Ugo Tognazzi, uno degli attori più controversi e amati del pubblico dell’epoca, come la mente malvagia, orchestatrice della guerriglia, ne è un chiaro esempio.

«Il 3 maggio del 1979 le edicole di tutta Italia esponevano le prime pagine di tre dei maggiori quotidiani nazionali: ‘Il Giorno’, ‘Paese Sera’ e ‘La Stampa’, in edizione straordinaria, avvisavano i lettori che il capo delle BR era stato finalmente arrestato. Come accade spesso in queste vicende, si trattava di un insospettabile: Ugo Tognazzi. Immaginate lo sgomento generale e la curiosità degli Italiani che si precipitavano in edicola dopo aver sbirciato in tram il giornale di un vicino. Si trattava naturalmente di uno scherzo, grottesco quanto perfettamente orchestrato, opera di un gruppo di pazzi che nell’Italia degli anni di piombo, come lo Yellow Submarine, inondava di colori un paese grigio, spaventato e irrigidito. Era la redazione del ‘Male’, la rivista satirica che divenne celebre grazie alla sua sfrenatezza, alla sua totale libertà d’espressione e, soprattutto, alle sue modernissime incursioni mediatiche» (Ibid.).

22 settembre 1980 – «Chicago Times».

Garrone, mentre scriveva il suo articolo, aveva sicuramente in mente:

– il falso di «The Times», luglio 1979, in cui Carter dichiarò le dimissioni ammettendo «Io sono il più intelligente o uno dei più intelligenti americani, e nonostante questo sono incapace di risolvere la crisi economica ed energetica. In una situazione complicata dalla crisi petrolifera mi sembra ingiusto pensar di poter risolvere tutti i problemi da solo. […] Forse quello di cui abbiamo bisogno è una guida europea per il nostro paese»;

– la copertina che «Il Male» aveva dedicato il 12 dicembre 1979 a Jimmy Carter;

– il falso de «Il Corriere della Sera», 26 luglio, 1979, dove a fianco a una fotografia, con tanto di credit fotografico di Eta Beta, ritraente il presidente al mare, a sguazzo su una ciambella gonfiabile, compaiono titoli di disperazione «Misteriosa scomparsa del presidente Carter: si teme per la sua vita», «Un’unica traccia nel suo messaggio: ‘All’America. all’uomo. vado dove nessuno è mai stato’. Immediata mobilitazione dei Servizi di Sicurezza – Washington presidiata dalla Guardia Nazionale […]», «Stati Uniti a soqquadro: Jimmy come back», «Tu vuò fa l’americano: Il comunicato della redazione del Male subito dopo il discorso di Carter», fino al trafiletto intitolato «Smiling Jimmy», redatto dal noto giornalista Ruggero Orlando, che registra l’opinione comune «Dio voglia che questo benedetto Jimmy sia presto ritrovato in vita. La sua scomparsa è ancora più terrificante se si pensa che mai, nella storia degli Stati Uniti, un presidente è scomparso così, senza lasciar tracce. Ma ormai, i tempi corrono sui binari a noi non congeniali. Oggi tutto è più difficile da comprendere, e non ce ne lamentiamo. […] Certo, non si può dire che la sua popolarità fosse particolarmente alta. Ben lontani erano i tempi in cui per lui il termostato dei sondaggi saliva a dismisura. […] Carter scomparso, un dilemma americano. Lui era un simbolo. È diventato la vittima della crisi ‘del’ sistema, non ‘nel’ sistema. Lui avrebbe voluto parlare ai popoli del mondo dei diritti umani» (R. Orlando, Smiling Jimmy, «Il Male», 26 luglio 1979).

Ma la reale vicinanza tra la satira del periodico e quella di McCarthy risiede nella capacità di saper prima registrare le paure, le volontà e le idee delle persone, e poi metterle in scena esorcizzandole con una grottesca ironia. Come si legge nelle prime pagine del libro dedicato alla rivista, «Il Male non è un giornale di piccola satira italiana, perché il mondo è il suo teatro, il mondo nella sua contemporaneità storica e letteraria» (Vincino, cit., pp. 151-152). Lo stesso vale per le rappresentazioni di McCarthy: «Immagino si possa dire che Paul è un Automatista ma il suo lavora affonda le radici non tanto negli archetipi junghiani, quanto piuttosto nelle convenzioni sociali» (Mike Kelley).

Paul McCarthy e il cinema italiano: Carlo Verdone e Tinto Brass

Carlo Verdone aveva acquisito grande popolarità nel 1978 per i suoi sketch comici all’interno del programma televisivo Non stop, varietà trasmesso dalla RAI. È il 1980 a segnare la carriera dell’attore, quando a gennaio esce nelle sale Un sacco bello, di cui Verdone è attore e regista. Un film che grazie alla collaborazione con Sergio Leone ed Ennio Morricone, raccoglie giudizi positivi sia dalla critica sia dal pubblico, vincendo un Globo d’Oro, un David di Donatello e un Nastro d’Argento. Il film, nonostante la ripresa di personaggi già portati sul palco di Non Stop, riflette in modo tragicomico sulla società italiana e su come il clima creato dagli attentati delle BR influisse ormai superficialmente sulle vite dei romani.77Il 1980, infatti, è stato un anno di transizione, l’Italia è ancora avvolta dalla cortina degli anni di piombo: dal 1975 al 1980 si assiste all’acuirsi di questa guerriglia. Una strategia militare precisa, quella delle BR, divisa per colonne e cellule regionali, che proprio nel 1980 iniziarono a essere scoperte grazie a un commando di polizia dedicato. Nonostante ciò, ‘paura’ e ‘orrore’ continuano a essere le parole più presenti sulle prime pagine dei quotidiani:
– 12 febbraio 1980, Roma, Università La Sapienza: due brigatisti, Bruno Seghetti e Anna Laura Braghetti, uccidono Vittorio Bachelet, professore ordinario di Diritto pubblico dell’economia.
– 15 febbraio 1980, Cagliari, pressi della stazione ferroviaria: viene fermato un uomo a seguito di una sparatoria, fermato per accertamenti dalla Polizia insieme a una donna. Si scopre in seguito che la coppia, Antonio Savasta ed Emilia Libera, sono i brigatisti recatisi in Sardegna per studiare la possibilità di fondare una colonna sarda delle BR;
– 21 febbraio 1980, Torino: Rocco Micaletto, componente del comitato esecutivo, e Patrizio Peci, allora dirigente della colonna torinese poi collaboratore della polizia;
– notte del 28 marzo 1980, Genova, appartamento di via Fracchia: i carabinieri irrompono nell’abitazione, grazie alla collaborazione di Peci. A seguito di uno scontro a fuoco vengono uccisi i quattro brigatisti presenti all’interno: la proprietaria dell’appartamento, un membro del comitato esecutivo e responsabile principale della colonna genovese, e due militanti della colonna di Torino.
Nonostante il susseguirsi di eventi di cronaca nera c’era la speranza e la volontà di far tacere coloro che perseguitavano in un’ossessiva ricerca di ribaltamento, che parlavano a slogan incitando gli operai con motti di propaganda come ‘Colpirne uno per educarne cento’. Il Jimmy Carter di Paul McCarthy, con la sua conferenza stampa, era lo specchio di questo malcontento generale.
 Gli attentati purtroppo erano talmente frequenti da essere considerati di routine, tali da non stravolgere più il corso degli eventi. Verdone alla fine del film riesce a restituire con estrema semplicità come fosse possibile in quegli anni vivere in una città come Roma, dove si era talmente abituati a sentire l’esplosione di una bomba che si veniva infastiditi da quel rumore quanto di notte da uno schiamazzo per strada o dalla radio a tutto volume di una macchina in sosta, per cui era sufficiente chiudere la finestra di casa per restarne fuori. «Martu??! Martucci?! Com’hai detto? E non t’ho sentito c’è stata na bomba! Vabbè ma… ma allora ce veresti?! Martu aspetta un attimo che chiudo la finestra. Non ci sto a capì più niente».

Il blitz di via Fracchia – Genova – «Secolo XIX» – 1980.

Gli italiani, convinti di andare al cinema per un’ora di svago, si ritrovarono inaspettatamente a tu per tu con dei personaggi caricaturali portavoce delle loro debolezze, come racconta l’attore e regista Antonio Panero: «L’importanza di Un sacco bello fu rappresentata dal modo con il quale Verdone riuscì a fotografare perfettamente linguaggio, atteggiamenti e pensieri di un’epoca alquanto confusa. Con Un sacco bello venivano sancite tutte le debolezze e le fragilità dell’uomo non più ‘conquistatore’ ma ‘disarmato’» (C. Verdone, A. Panero, Tutto Verdone, Gremese Editore, Roma 1999, p.5).

La stessa caducità dei principi morali e delle sicurezze dell’essere umano viene concentrata nella pellicola Caligola di Tinto Brass, che Garrone utilizza come riferimento per descrivere l’altra performance che McCarthy realizzò a Roma.

«I remember running down a dark street in Rome with a crowd of people, following Paul McCarthy dressed like a pig» (
L. F. Burnham, High Perfomance, Performance Art and Me, in «The Drama Review», MIT Press, n.1, Spring 1986, p. 32).

L’azione di McCarthy, che si svolse sulla piazza antistante all’ex Mattatoio, fu letta sia in chiave satirica che pornografica, tanto che questo aspetto venne rafforzato accostando al nome dell’artista quello del famoso regista erotico Tinto Brass, che a quei tempi era nella sale con Caligola. Film spartiacque nella carriera del regista, che ha segnato il passaggio dalla produzione di film impegnati, metafora della società dell’epoca, al puro cinema erotico. L’intento del regista sembra essere chiaro fin da subito, appena si viene a conoscenza che il Caligola di Brass viene interpretato da Malcolm McDowell. Una scelta strategica, un attore che ormai era intrappolato nel ruolo che lo aveva reso celebre: la personificazione della violenza, del male, del declino di ogni principio umano raccontato nella pellicola di Stanley Kubrick A Clockwork Orange (1971).

«Portare sullo schermo Malcolm McDowell significava presentare (o ripresentare) un ritratto immutabile, il simbolo perpetuo di un destabilizzante apologo sulla violenza e sul cinismo della società contemporanea. Ma anche il ritratto del fallimento dell’uomo sociale e del tempo dell’impero romano, così come stava succedendo negli anni Settanta. Il Caligola di Brass, imperniato su questo specifico attore e giocato sul parallelismo di due momenti storici di involuzione, diventa così il segno dell’inevitabile ‘caduta’ dell’uomo. […] Caligola coglie l’attimo nascente della fine di un sogno di potere. E il maschio cambia» (S. Iori, Tinto Brass, Gremese Editore, Roma 2012, pp. 20-22).

Arrestato Ugo Tognazzi. È il capo delle BR – Falso di «Il Male» – versione «Paese Sera» – 1979.

In Caligola dunque si mostravano gli eccessi, le violenze gratuite, le esplicite scene sessuali, i limiti di un uomo terrorizzato davanti a un Impero che gli sta sfuggendo di mano. La crisi di Caligola, il vuoto di cui si circonda, che si formalizza in banchetti, scene orgiastiche corali coreografate e scenografie da colossal, adornate da dettagli che affondano nella sfera del kitch, è lo stesso vuoto analizzato da McCarthy con l’ausilio di manichini, bambole, maschere. Si tratta in entrambi i casi di una proiezione facilmente fallace, di paure reali in un contesto spettacolare.

«Nel mio caso [l’utilizzo del manichino] si riferisce alla paura del virtuale, la paura di non essere in grado di discernere un essere umano reale da un manichino. Manichini, statue di cera, robotica o manichini meccanizzati creano questa realtà virtuale, e non si può dire ciò che è reale. Ha a che fare con la paura della perdita di sanità mentale. Non sono sicuro di che cosa questo abbia a che fare con qualsiasi tipo di ‘verità’, ma è quello che ho scelto di imitare. O di sovvertire»
 (G. T. Turner, Paul McCarthy: Inside and Outside, cit.). Non a caso, tra tutti i film che il giornalista poteva citare riporta proprio quello più recente, dunque più scandaloso agli occhi dei contemporanei, ambientato a Roma, con un retroscena politico-satirico, in modo da rendere più partecipe la cittadinanza alla performance e avvicinarla al suo vero messaggio: la denuncia della classe dirigente.

Caligola (1979) – still da video Youtube.

Chris Burden e Giochi Senza Frontiere

Chris Burden a Roma organizzò, presso il terreno dell’ex Mattatoio, un tiro alla fune dove ai capi di questa non si trovavano due uomini, come sarebbe comune pensare, ma una ruspa da una parte e una serie di Cinquecento, con relativi proprietari al volante, dall’altra. La sfida, all’apparenza impari, si concluse, secondo copione, con la vittoria delle utilitarie italiane. Una gara bizzarra che il giornalista di «la Repubblica» Nicola Garrone vide somigliante al programma televisivo di grande successo in quegli anni, chiamato Giochi senza frontiere. Una sorta di parodia delle olimpiadi, in cui città e paesi di vari stati europei si facevano gara in giochi da campus estivi. La manifestazione iniziò a essere trasmessa ogni estate a partire dal 1965. I giochi si interruppero solo nel 1982, per mancanza di idee da parte degli autori. Come spesso accade dietro gli avvenimenti sportivi, anche Giochi Senza Frontiere nasconde una strategia politica. A idearle fu infatti Charles De Gaulle, allora Presidente della Francia che sperava di rafforzare i rapporti di amicizia con gli stati confinanti al fine di attuare con maggiore serenità la proprie ambizioni. Il perché Garrone abbia deciso di affiancare all’azione di Chris Burden Giochi Senza Frontiere non si limita alla dietrologia propagandistica. Dati alla mano, è infatti possibile capire quanto potesse essere semplice far leva sull’attenzione dei lettori de «La Repubblica» citando la trasmissione. L’Italia era stata infatti l’unica nazione ad aver partecipato a tutte le edizioni estive e ne aveva vinte quattro (1970, 1978, 1991 e 1999). Negli anni ’70 era lo show più seguito dagli italiani, nel 1978 ebbe picchi di oltre 20 milioni, un risultato auditel che ha segnato la storia della televisione. Lo dimostra il fatto che la partita degli europei Italia–Germania dello scorso luglio ha registrato i 16 milioni di spettatori e che la finale dei mondiali 2006 non ha superato i 24.

S. A. – Al Teatro Circo Spaziozero una rassegna di performance: Lo straniero quotidiano, in «la 
Repubblica», Rubrica Stasera a Roma – sabato 8 marzo.

La performance di Burden non fu letta solo in senso goliardico. Il tiro alla fune tra il camion e le utilitarie fu visto anche come un gesto di sfida: «GO HOME… non ci facciamo colonizzare dal trattore di Burden… queste cose le faceva Mattiacci nel ’69» (Garrone, Ruspe e utilitarie come in un rodeo, cit. p, 21).

Con questa frase Sargentini sottolineava la volontà e il diritto di conservare il primato italiano, ma soprattutto il suo, dato che, lo ricordiamo, l’azione di Mattiacci con il trattore era avvenuta al garage de L’Attico qualche mese dopo la sua inaugurazione. In quegli anni, e il sondaggio tra i fiorentini e l’iniziativa di assedio con l’ausilio delle forze armate statunitensi appoggiate dal Carter di McCarthy ne sono l’esempio, la paura di una colonizzazione americana era evidente.88Enzo Bargiacchi su «Segno» sottolineava quanto sarebbe stato interessante mettere a confronto con gli artisti d’oltreoceano i grandi performer ‘nostrani’, per cui nel campo musicale potevano essere ‘schierati’ Chiari, Cardini, Vismara, Mayr, tutti fiorentini che avrebbero dato un forte contributo alla rassegna. (E. Bargiacchi, Settimana della performance art americana, «Segno», n. 5, marzo aprile 1980). Della stessa opinione, dunque di una scena artistica italiana sacrificata per dare spazio a quella americana, era anche Carlo Bertocci su «Flash Art» (C. Bertocci, Per/For/Mance: Settimana della Performance Art Americana, «Flash Art», n. 98- 99, Biennale Venezia, estate 1980). Chi invece vide questa occasione internazionale come un’occasione di aggiornamento e di comparazione per spronare la scena artistica dell’Italia fu il critico teatrale Giuseppe Bartolucci, tra coloro che con più passione hanno scritto e sottolineato il rapporto tra performancespettacolo e teatro .

«Si è parlato spesso a sproposito quest’anno di invasione, di colonizzazione da parte di gruppi e registi stranieri in Italia99Proprio Caligola ad esempio, film girato interamente a Roma da Tinto Brass, fu oggetto di contestazioni e vicende giudiziarie. Dato che il montaggio era stato affidato a un regista americano, succeduto a Brass per controversie sorte sul set, i diritti d’autore del film risultano americani. Per maggiori info.
 ma così si rischia di ricadere nel vecchio vizio dell’autarchia lasciandosi passare sotto il naso treni carichi di ottime informazioni su quanto sta avvenendo non solo fuori, ma anche qui da noi, nei nostri stessi teatri e cantine» (S. A., Al Teatro Circo Spaziozero una rassegna di performance: Lo straniero quotidiano, in «La 
Repubblica», Rubrica Stasera a Roma, sabato 8 marzo, p. 21).

 

Banner pubblicitario «Floating Piers» – in Bresciaoggi.com Un sacco bello – 1980.

Burden era solito provocare fastidio nel pubblico, giocandoci in maniera sadica, cosciente di scatenare con le sue ‘armi’ le paure inconsce dell’essere umano. Il sinistro modo di divertirsi dell’artista non era fine a se stesso, infatti in questo modo si faceva portavoce di una comunità silenziosa, terrorizzata dal presente. Secondo Clothier si trattavano di veri e propri atti etici, capaci di far risvegliare le coscienze sopite, attraverso un rumore di ruspa, di volano o di fucile.

«In passato l’opera di Burden parve a molti altamente offensiva e minacciosa, eccessiva per i rischi che imponeva e vantaggiosa per i propri fini nel suo apparente sensazionalismo. Io direi, al contrario, che si tratti di un’arte profondamente morale che raggiunge il suo effetto attraverso lo scherno e l’aggressione. Potrebbe facilmente diventare moralistica» (P. Clothier, Chris Burden L’artista come eroe Peter Clothier, in «Flash Art», n. 94-95, febbraio-gennaio 1980).

L’opera di Burden era frutto del suo tempo, gli anni ’70, che negli Stati Uniti erano caratterizzati dalla ‘violenza’ della musica punk, dai film horror che iniziarono a entrare di diritto nella storia del cinema, e soprattutto dalla ‘paura della strada’: gli attentati erano all’ordine del giorno, i contestatori della guerra del Vietnam non si opponevano più in maniera pacifica come nel decennio precedente, ma attraverso sabotaggi e azioni di sommossa. Per tali motivi è particolarmente significativa la descrizione del lavoro dell’artista scritta da Nancy Buchanan sulla rivista «High Performance»: «Credo che uno degli aspetti più potenti e importanti del lavoro di Chris Burden non sia tanto il suo rapporto con l’estetica europea, quanto il fatto che esso sia così profondamente americano, infallibilmente legato al suo tempo, e che riesce perciò a fare il punto di questa cultura e a rispecchiarne l’essenza».

 

Caligola – stll da video Youtube.

E oggi?

V. Tosoni – Lago d’Iseo, camminare sull’acqua con Christo, la Repubblica.it – 16 giugno 2016.

Oggi purtroppo appare impensabile un’analisi di questo genere su un quotidiano, in cui con semplicità, attraverso punti di riferimento pop, e dunque accessibili a ogni target di pubblico, si cerchi di avvicinare e incuriosire i lettori a una mostra o a una rassegna. Spesso sui giornali vengono pubblicati titoli ridicoli, seguiti da testi frutto di semplici copia e incolla dai comunicati stampa che sono divulgati dagli uffici stampa. Basti pensare al caso Cattelan-Christo, due artisti che da sempre godono di grande attenzione da parte dei mass media, criticati e osannati, e al ‘miracolo’ della passeggiata sulle acque. La cosa che appare interessante però è che entrambi i lavori siano stati seguiti da titoli molto simili tra loro. Il fatto che questo sia avvenuto a neanche un mese di distanza tra l’inaugurazione di MANIFESTA 11 e di Floating Piers non sembra essere un caso.

E se Cattelan avesse previsto i titoli dei giornali, vista la larga tempistica con cui è stato comunicato il progetto? Se quell’opera avesse battuto Christo in velocità sul calendario? Già perché, se ci si pensa, chi è stato tra i due a far camminare per primo sulle acque il pubblico? Cattelan! Anzi, Cattelan sembrerebbe essersi preso talmente gioco della stampa italiana, cosciente del modo gretto con cui divulga le opere di grandi artisti internazionali, da sbeffeggiarli potendo dire «sì, Christo vi ha fatto camminare sulle acque, ma io l’ho fatto prima di lui e anzi una disabile ci è riuscita prima di una massa di 1.200.000. E per di più su una semplice zattera, a fronte dei vostri chilometri e chilometri di piattaforma!».

 

Schema di gioco – Giochi Senza Frontiere – Cortina – 1973.

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di Carolina Gestri
  • Carolina Gestri è storica dell’arte, docente e curatrice. Dal 2015 è coordinatrice di VISIO – European Programme on Artists’ Moving Images, progetto di ricerca promosso dallo Schermo dell’arte strutturato in una mostra e una serie di seminari. È co-fondatrice di KABUL magazine. È docente di Fenomenologia delle arti contemporanee e di Exhibition Planning rispettivamente nei corsi di Design della comunicazione visiva di IED Firenze e di Multimedia Arts di Istituto Marangoni Firenze.
Bibliography

F. Alinovi, Cosmesi della pelle del pianeta, in L’arte mia, Il Mulino, Bologna 1984.
S. A., Al Teatro Circo Spaziozero una rassegna di performance: Lo straniero quotidiano, in «La 
Repubblica», Rubrica Stasera a Roma, sabato 8 marzo.
E. Bargiacchi, Settimana della performance art americana, «Segno», n. 5, marzo aprile 1980.
C. Bertocci, Per/For/Mance: Settimana della Performance Art Americana, «Flash Art», n. 98- 99, Biennale Venezia, estate 1980.
P. Clothier, Chris Burden L’artista come eroe Peter Clothier, «Flash Art», n. 94-95, febbraio-gennaio 1980.
N. Garrone, Ruspe e utilitarie come in un rodeo, «La Repubblica», Rubrica 
Stasera a Roma, 11 marzo, 1980.
N. Garrone, Concerto per Laurie: violino elettrico… e registratore, «La Repubblica», rubrica Stasera a Roma, 13 marzo 1980.
S. Iori, Tinto Brass, Gremese, Roma 2012.
R. Nicolini, Lisi Natoli un artista di teatro che colorò l’estate romana, «l’Unità», rubrica Spettacoli, 25 ottobre 2004, p. 
21.
R. Orlando, Smiling Jimmy, «Il Male», 26 luglio 1979.
C. Scaringi, Il mito Diabolik, Gremese, Roma, 2007.
G. T. Turner, Paul McCarthy: Inside and Outside, «Flash Art», n 217, marzo–aprile 2008.
C. Verdone, A. Panero, Tutto Verdone, Gremese, Roma 1999.
Vincino, Il Male. 1978-1982: I cinque anni che cambiarono la satira, Rizzoli, Milano 2007.
P. Zulli (a cura di), Per/for/mance: La settimana della Performance Art americana, (Firenze, Teatro l’Affratellamento, 1-6 marzo, 1980), Parretti Grafiche, Firenze, 1980.

SITOGRAFIA
F. Burnham, High Perfomance, Performance Art and Me, «The Drama Review», MIT Press, vol. 30, n.1, Spring 1986.
R. Krauss, Video: The Aesthetics of Narcissism, «October», Spring 1976.
M. Robecchi, Paul Mccarthy: Bossy Paul, «Mousse», anno 3 , n. 12 gennaio-febbraio 2010.
G. Tiberga, Cinquant’anni dopo c’è ancora bisogno di uno come Diabolik?, «La Stampa», 31 ottobre 2012.