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Il museo come forma simbolica del mondo: dal Trocadero al Musée de l’Homme
Magazine, POST - Part II - Marzo 2017
Tempo di lettura: 14 min
Simona Squadrito

Il museo come forma simbolica del mondo: dal Trocadero al Musée de l’Homme

Due paradigmi a confronto: dai surrealisti etnografici di «Documents» a una nuova visione dell’uomo e della cultura.

Spedizione Dakar-Dijbout, maschere, Dogon, 1931.

 

Questo mio articolo prende le mosse dall’idea che il museo non rappresenti affatto un’istituzione neutra ma corrisponda piuttosto a precisi costrutti ideologi, a una determinata visone di mondo. Il ‘cosa mettere’ e il ‘come metterlo’ all’interno del museo sono questioni di importanza fondamentale, poiché ogni oggetto presente al suo interno andrà a costituire e avallare una determinata forma simbolica di mondo. Il museo quindi non mostrerebbe la società, l’arte o la scienza, ma la loro costruzione attraverso la musealità e, come sostiene lo storico francese Dominique Poulot, il museo «mette in risalto la costruzione ideologica degli oggetti e delle esposizioni, confrontandola tanto con la storia delle discipline quanto con i valori e i divieti sociali».11D. Poulot, Musei e Museologia, Jaka Book, Milano 2008, p. 106.

Un esempio paradigmatico di come determinate culture in determinati contesti vengano rappresentate dall’istituzione museale ci è fornito dalla storia di due musei etnografici di Parigi: il Trocadero e il Musée de l’Homme. Inoltre questa storia fornirà una lettura piuttosto esplicativa e convincente di un determinato contesto storico e sociale in cui è avvenuto uno slittamento di paradigma sul rapporto che vi è tra scienza e arte, e sulle modalità di rappresentare la cultura.

Una cartolina del Trocadero di Parigi.

A metà degli ’30 il Trocadero si avvia a una decisiva trasformazione, diventando il Musée de l’Homme. I presupposti ideologici, filosofici e artistici che stanno alla base di queste due istituzioni, pur condividendo una radice comune, sono radicalmente opposti, e segnano un preciso cambiamento verso l’orientamento moderno dell’ordine culturale mostrando l’affermarsi di un nuovo paradigma scientifico.

Se il Trocadero dialoga con l’esperienza surrealista e con quello che Clifford definisce «surrealismo etnografico», il nuovo Musée de l’Homme diventa un fattore costitutivo della condizione moderna della cultura, con una visione più specialistica sia di quest’ultima sia dell’arte e della scienza.

Occorre altresì ricordare che la definizione attuale di museo, seppur con alcune modifiche e derive, obbedisce all’enunciazione elaborata dall’ICOM nel 1974: «Il museo è un’istituzione permanente, senza fine di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, e che effettua ricerche sulle testimonianze materiali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e, in particolare, le espone a scopo di studio, di educazione e di diletto».22Poulot, ivi, p. 17.
Nel corso degli anni Novanta, però, l’enunciazione delI’ICOM subisce delle revisioni che segnano l’assenza di una precisa identificazione del museo e della museologia, contrariamente alle certezze della generazione precedente. I motivi principali di tali ‘revisioni’ sono da ricercare nel fatto che il museo è diventato un’istituzione che garantisce il «consumo turistico e dell’economia del tempo libero», una caratteristica della cultura postmoderna che, come sostiene l’antropologo americano Clifford Geertz, ha trasformato il discorso colto e disciplinare in un ‘genere vago’. La mutazione dei musei altro non è che uno dei tanti simboli della cultura di massa nell’età del capitalismo contemporaneo.

 

Membri della spedizione Dakar-Djibouti 1931. Fotografia scattata al museo etnografico del Trocadero. Da destra a sinistra: André Schaeffner, Jean Mouchet, Georges Henri Rivière, Michel Leiris, Ukhtomsky, Marcel Griaule, Éric Lutten, Jean Moufle, Gaston-Louis Roux, Marcel Larget.

Il Trocadero e il nuovo Musée de l’Homme

Il Trocadero (Musée d’Ethnographie du Trocadéro), fondato nel 1878, negli anni Venti è un luogo ricco di oggetti insoliti e curiosi di ogni parte del mondo. Tutto ciò che è bizzarro, proveniente da luoghi esotici e lontani confluisce lì e – si potrebbe dire – tutto viene esposto alla rinfusa al pubblico. In questo museo è possibile trovare anche oggetti d’arte, sebbene manchi una coerente collocazione di tale materiale. Il Trocadero, secondo una sua linea coerente, risponde ai gusti estetici dei surrealisti, ed è proprio qui che nel 1906 Picasso inizia a conoscere e a osservare l’art nègre.
La collezione esposta all’interno del museo, come ci racconta Clifford in I frutti puri impazziscono, mancava di una «visione scientifica e pedagogica aggiornata, il disordine in cui versava il museo ne faceva un luogo dove si poteva andare per trovare curiosità, oggetti feticizzati». Ma Clifford prosegue affermando che tali ‘mancanze’ hanno favorito «l’apprezzamento degli oggetti come opere d’arte isolate anziché come artefatti culturali. Dopo la prima guerra mondiale, quando esplodeva l’entusiasmo per il primitivo, lo scandaloso museo divenne temporalmente un museo di ‘arte’».33J. Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino 2016, p. 163.

Nei primi anni Trenta il direttore del Trocadero, Paul Rivet, noto etnologo francese, assume per la gestione organizzativa del museo G. H. Rivière, allora studente di musica e attivo collaboratore della sovversiva e anarchica rivista surrealista «Documents». I due, insieme, riorganizzano l’intera struttura, compiendo i primi passi fondamentali per la trasformazione dell’istituzione. Si organizzano mostre d’arte africana, oceanica, eschimese. Vengono inoltre esposti gli oggetti che arrivano in Francia a seguito della celebre spedizione Dakar-Gibuti. Il Trocadero diviene così un luogo sempre più esclusivo e chic.

Spedizione Dakar-Dijbout, maschere, Dogon, 1931.

Tuttavia, una volta portata a termine la supervisione dei restauri del museo, l’ambizioso Rivet decide di inaugurare un nuovo progetto: lo smantellamento del vecchio Trocadero, con l’intento di far sorgere un nuovo museo, appunto il Musée de l’Homme: «La vecchia struttura bizantineggiante doveva essere smantellata per fare spazio a un edificio ideale che avrebbe sublimato il cosmopolitismo anarchico degli anni Venti in un’unità monumentale: ‘l’umanità’».44Clifford, ivi, p. 166.
Non a caso, insomma, il Musée de l’Homme è pensato in modo da favorire il diffondersi di una nuova visione dell’uomo. Alla base del progetto di Rivet vi sono le idee di Mauss, il suo «uomo totale» e la sua concezione di «fatto sociale totale». Quest’ultima nozione mette in risalto la tensione esistente tra l’oggetto, da una parte, e la società, dall’altra: l’oggetto è rappresentante della società, ma non è in grado di testimoniare nulla se privo di un’adeguata contestualizzazione. Percepiti quasi fossero tutti dei documenti, gli oggetti sono infine pensati come qualcosa che ha il potere di testimoniare una data cultura. Il tutto – pensa Mauss – è più grande delle parti: in un dato sistema, gli elementi sono dipendenti, messi in un rapporto funzionale, e dunque non vanno presi separatamente, ma devono piuttosto essere considerati nella loro relazione intima col resto della società a cui appartengono. È la cultura nel suo insieme a dare senso agli oggetti. In un saggio del 1948, Rivet sostiene che la missione del Musée de l’Homme fu quella di mostrare che «nello studio dell’uomo, i confini tra etnografia, archeologia e preistoria sono ‘assolutamente artificiali’. Egualmente artificiali sono le classificazioni delle realtà umane in base alle divisioni della geografia politica. L’umanità è un tutto indivisibile nello spazio e nel tempo. La scienza dell’uomo non dev’essere più suddivisa arbitrariamente. È giunta l’ora di abbattere gli steccati».55Clifford, ivi, p. 167.

La creazione di siffatti luoghi stabilisce un nesso cruciale tra arte ed etnografia. Il marchio del museo è l’ambizione di rappresentare l’umanità nella sua interezza e in tutti i suoi aspetti. Questo museo presenta l’uomo in molte delle sue manifestazioni, da quelle fisiche e archeologiche a quelle culturali ed etnografiche. Il supporto tecnico, pronto a servire a tale scopo, è fornito dai laboratori tecnici e dalle istituzioni pubbliche che assumono concretezza in nuovo museo: il Musée d’Histoire Naturelle e l’Institut d’Ethnologie. Sul cornicione del nuovo museo sono incise le parole di Paul Valéry: «Ogni uomo cerca senza saperlo, come respira. Ma l’artista è cosciente del suo creare. Questo atto ne impegna tutto l’essere. Egli è fortificato dalla sua amata sofferenza».

Joséphine Baker e George-Henri Rivière nel Salon de Musique del Musée d’Ethnographie du Trocadéro, 1933. Fotografia di Boris Lipnitzki.

Il Musée de l’Homme pone l’accento sul valore d’uso dell’oggetto. È dunque in atto una ricontestualizzazione di tutto il materiale in termini d’uso: l’immagine data dell’uomo è liberale e sintetica. Incorniciati da una visione progressista dell’uomo, «nel Musée de l’Homme vigeva la proibizione formale, imposta da Rivet, di trattare esteticamente gli artefatti. La nuova istituzione doveva bonificare l’eredità del Trocadero e degli anni Venti, epoca in cui i contesti dell’arte e della scienza trapassavano l’uno nell’altro».66Clifford, ivi, p. 169.

Il fatto di considerare gli artefatti come fonte di conoscenza, piuttosto che come meri oggetti di curiosità o come oggetti d’arte, rende possibile, secondo questi intellettuali, il riconoscimento di un valore umano e culturale in precedenza negato. Occorre tuttavia precisare che in tale museo il ‘primitivo’ e il ‘popolare’ non sono considerati ed esposti allo stesso modo, cioè insieme. Gli oggetti d’arte non sono visti come capolavori, ma come rappresentanti di una determinata cultura, accompagnati per questo da etichette esplicative. L’obiettivo è quello di fornire idee chiare al visitatore del museo. Ma se questi sono i presupposti ideologici, culturali e filosofici che stanno alla base del nuovo museo, quali sono invece i presupposti che hanno animato lo spirito Trocadero? Qual è insomma il suo contesto?

 

Copertina del primo numero della rivista «Documents».

Il surrealismo etnografico

Il periodo storico è quello degli anni Venti e Trenta: i due temi centrali sono l’etnografia – termine usato generalmente come orientamento culturale che attraversa l’antropologia moderna e al contempo espressione di un tipo di atteggiamento partecipante – e il surrealismo, concepito come estetica che valorizza il frammento e le collezioni bizzarre. Etnografia e surrealismo si sviluppano di pari passo. Si osserva, per cominciare, che le discipline scientifiche non hanno ancora perso del tutto contatto con la letteratura e l’arte. In questo periodo, l’etnografia è percepita come qualcosa di insolito ed esotico; il surrealismo non è ancora un movimento molto conosciuto e diffuso, e soprattutto non si è ancora caratterizzato come movimento artistico. La nozione di inconscio elaborata da Freud e la teoria einsteiniana della relatività contribuiscono a modificare il clima culturale dell’epoca, influenzando ogni campo del sapere, dalla scienza all’arte, così come la devastante esperienza della prima guerra mondiale lascia in eredità un senso di straniamento, in particolare rispetto a ciò che va di solito sotto l’accezione di normalità.

Molti intellettuali disillusi provano a opporre alla società occidentale diverse forme di cultura, e tutto ciò che ha a che fare con il ‘primitivismo’ suscita curiosità. Adesso, a rientrare nella normalità vi è la possibilità di trasgredire e sovvertire: la realtà non è più percepita come ambiente familiare. Il mondo, almeno in un certo senso, è pensato in modo surrealista. Paesi distanti e poco conosciuti come l’Africa, l’Oceania e l’America Meridionale diventano serbatoi ispiratori di nuove concezioni e credenze. L’alterità – il confronto con l’altro, seppur mediato attraverso semplici oggetti esotici quali feticci che rimandano a sogni di terre inesplorate – diviene elemento distintivo dei modi di pensare di ciò che Clifford definisce come «surrealismo etnografico».

Giustapposizioni di immagini caratteristiche all’interno della rivista «Documents».

La realtà, dunque, non è più percepita come stabile, e nella sua messa in discussione l’altro diviene un’alternativa possibile, così come possibile diventa il relativismo culturale. Agli artisti non resta altro che mettere assieme i vari pezzi delle diverse culture, fonderle e assemblarle come se fosse possibile dar vita a un grande collage: «per ogni consuetudine o verità locale c’era sempre un’alternativa esotica, una possibilità di raffronto o contraddizione. Al di sotto (psicologicamente) e al di là (geograficamente) della realtà consueta esisteva un’altra realtà. Il surrealismo condivideva questa condizione ironica con l’etnografia relativista».77Clifford, ivi, p. 147.

Interpretare il surrealismo come etnografico suggerisce di pensare a un possibile cambiamento rispetto all’idea della centralità dell’artista considerato come autentico creatore, o come colui che è l’unico in grado di cogliere i segni della realtà più autentica e profonda. L’atteggiamento del surrealista etnografico è aperto alle altre culture e alle interpretazioni che esse favoriscono. La realtà è sì concepita come un tutto, ma tale tutto è percepito come eterogeneo: la verità non abita in luoghi esclusivi alla portata di pochi, è invece dislocata nel tutto, pronta a essere identificata nei modi più bizzarri.

È bene precisare che l’atteggiamento dei surrealisti è inverso a quello degli etnografi che fanno ricerca sul campo. Se i surrealisti tendono a fare della realtà quotidiana qualcosa di estraneo, gli etnografi rendono familiare ciò che è estraneo: in entrambi gli schieramenti, tuttavia, la dialettica che si instaura è tra il familiare e l’estraneo: «L’umanesimo antropologico inizia con il diverso e lo rende – nominandolo, classificandolo, descrivendolo, interpretandolo – comprensibile, familiare. Viceversa, la pratica del surrealista etnografico aggredisce il familiare, provocando l’irruzione dell’alterità: l’inaspettato».88Clifford, ivi, p.174.
Sia gli etnografi sia i surrealisti rifiutano la distinzione tra cultura alta e bassa.

Il «surrealismo etnografico è un costrutto utopico, un’affermazione circa le possibilità insieme passate e future dell’analisi culturale»,99Clifford, ivi, p. 175.
in cui l’elemento cruciale è probabilmente «l’analisi corrosiva della realtà che viene caratterizzata come locale e artificiale, e dall’offerta di alternative […]. Il surrealista etnografico, a differenza sia del critico d’arte sia dell’antropologo suo contemporaneo, si delizia delle impurità culturali e dei sincretismi perturbanti».1010Clifford, ivi, p. 158.
Il suo interesse è orientato pertanto sia verso ciò che è comunemente ritenuto bello sia verso il brutto. L’atteggiamento portato avanti dai surrealisti etnografici è orientato dunque verso un relativismo estremo.

Giustapposizioni di immagini caratteristiche all’interno della rivista «Documents».

È nella rivista «Documents», fondata nel 1929 e attorno a cui gravita Georges Bataille, che arte ed etnografia giungono a intrecciarsi. Il presupposto della rivista è quello di considerare la realtà nella sua dimensione apparentemente frammentata, ed è qui che gli etnologi e i surrealisti lavorano assieme: «Nel sottotitolo di ‘Documents’ – ‘Archéologie, Beaux Arts, Ethnographie, Variétés’ – l’intruso era ‘Etnographie’. Denotava una radicale messa in questione delle norme e alludeva all’esotico, al paradossale, all’insolito».1111Clifford, ivi, p. 156.
 Nella rivista pubblicano personaggi come Carl Einstein, Michel Leiris e Marcel Griaule. Lo stesso nome – Documents – suggerisce una visione che sottostà alla cultura: essa è qualcosa di collezionabile.
L’adozione di una prospettiva etnografica è uno degli elementi centrali della proposta elaborata da Bataille. «Documents» si presenta come una sorta di esposizione etnografica di testi, immagini, oggetti, etichette, copertine di fumetti, fotografie di divi del cinema. Con tutto ciò convive l’etnografico, fatto di riti, miti, culture primitive, che assumono qui un valore espressivo e immaginario, non come momento puramente documentaristico, come vorrebbe invece l’antropologia. I suoi collaboratori percepivano la cultura come «un sistema di gerarchie estetiche e morali, il compito del critico radicale consisteva nella decodificazione semiotica, al fine di delegittimare e poi espandere o dislocare le categorie usuali».1212Clifford, ivi, p. 157.

Il metodo usato dalla rivista è quello della giustapposizione, l’accostamento delle immagini è arbitrario, inaspettato, vengono impiegati il collage e il montaggio del frammento – tutto ciò al fine di produrre uno sconvolgimento percettivo. A essere denunciata è l’idea di una correttezza nella disposizione dei simboli, degli artefatti, delle immagini. Si pone, allora, la questione di cosa mettere insieme a cosa.

L’informe del corpo è nella rivista una tema figurativo: si cerca di creare una tradizione a partire dagli scarti o dai fantasmi del mondo e della stessa storia dell’arte. La domanda, o il bisogno, a cui le immagini provano a rispondere non è più confinata al dominio dell’estetica, ma acquista una portata antropologica. La giustapposizione è usata per perturbare e stravolgere i luoghi comuni. Ancora: le immagini presentate sembrano voler sconvolgere il lettore della rivista, provocando in lui un senso di straniamento. Come afferma Clifford: il surrealista, tanto quanto l’etnografo, ha la licenza di sconvolgere, «nel suo sovversivo, quasi anarchico atteggiamento documentario rivela un orizzonte epistemologico per gli studi culturali del nostro secolo. […] La realtà, dopo i surrealisti anni Venti, non avrebbe mai più potuto essere vista come semplice e continua, descrivibile empiricamente o in modo induttivo».1313Clifford, ivi, p. 162.

Museo etnografico del Trocadero, 1934.

L’esperienza di «Documents» serve a spiegare e rendere più manifeste le aree verso cui convergono il surrealismo e l’etnografia nel periodo – si è detto – degli anni Venti. Più tardi, molti dei collaboratori diventeranno ricercatori sul campo e organizzatori di musei. Nel ’37, Bataille, allievo di Mauss, e altri personaggi di spicco quali Benjamin o Kojève, danno vita al Collège de Sociologie. Sembra vogliano dimenticare, così facendo, l’esperienza surrealista e del Trocadero. Si cerca, tra l’altro, di contenere le contaminazioni e in qualche modo di evitare imbarazzanti ibridi. Ci si vuole allontanare dall’eredità surrealista, rifiutando di essere identificati con questa, tentando, nello studio dei processi culturali, di conciliare il rigore scientifico con l’esperienza personale.

Dalla lettura di questa vicenda si può avanzare l’idea che i confini tra arte e scienza siano confini ideologici e sottoposti a mutamenti, e che, per tale motivo, le classificazioni non possano avanzare pretese di univocità e stabilità. Ogni museo, in un determinato contesto, produce degli strumenti di conoscenza sempre in rapporto con oggetti specifici e con esperienze determinate.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Simona Squadrito
  • Simona Squadrito è curatrice e critica d'arte, vive e lavora a Milano. Dopo il conseguimento della laurea magistrale in Filosofia e Storia delle Idee all'Università degli Studi di Torino ha intrapreso un percorso lavorativo e formativo nelle arti visive, conseguendo nel 2020 il master di secondo livello in Museologia Museografia e Management dei Beni Culturali. Presidente dell'Associazione culturale Casagialla, è stata dal 2015 al 2020 direttore di Villa Vertua Masolo. È cofondatrice di "REPLICA. L'archivio italiano del libro d'artista" e cofondatrice dell'associazione culturale KABUL magazine. Dal 2014 scrive e collabora per diverse testate e piattaforme digitali.
Bibliography

J. Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino 2016.
B. Groys, Il sospetto. Per una fenomenologia dei media, Bompiani, Milano 2010.
M. Mauss, Manuale di etnografia, Jaka Book, Milano 1969 [1947].
D. Poulot, Musei e Museologia, Jaka Book, Milano 2008.
SITOGRAFIA
C. Cagliani, Il museo tra passato e presente, 2015.
A. Mauuarin, De «beaux documents» pour l’ethnologie. Expositions de photographies au musée d’Ethnographie du Trocadéro (1933-1935), «études photographiques», 33, 2015.