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Su ciò che ci lega al mondo
Magazine, PLANARIA - Part II - Giugno 2023
Tempo di lettura: 25 min
Marco Mattei

Su ciò che ci lega al mondo

Filosofia dell’entanglement.

Kyung Hee Im, Don’t Touch, Entanglement, 2021. Courtesy l’artista.

  1. Legàmi

«L’arte è una delle precondizioni della vita. Arte e vita ci sono da sempre».

(Alva Noë) 

Con una sentenza che non lascia spazio a discussioni, senza fornire ragioni né argomenti a sostegno della sua presa di posizione, il filosofo inglese Robin Collingwood ha affermato una volta: «L’arte è la principale nonché la più fondamentale tra le attività della mente». L’affermazione è forte non soltanto perché ci dice qualcosa sulla natura dell’arte; ma anche perché – anzi, soprattutto – pretende di dirci qualcosa sulla natura degli esseri umani. Noi siamo le nostre menti. Qualsiasi cosa si intenda con questa frase. La mia mente è ciò che più mi è intimo, è qualcosa di così profondamente mio che tracciare una distinzione tra essa e me è superfluo, se non impossibile. Qualsiasi cosa sia la mente, il soggetto è quella mente. Perciò, dire che la principale, nonché la più fondamentale, tra le attività della mente, è l’arte significa anche dire che i soggetti, gli individui, le persone, gli esseri – qualsiasi termine vogliamo usare per identificare quelle creature che associamo comunemente alle menti – sono essenzialmente arte. In altri termini , le parole “arte” e “vita” sono coestensive, indicano lo stesso fenomeno… sono entangled, inestricabili. Nel suo nuovo libro, in uscita il 27 giugno, il filosofo Alva Noë scrive che: 

«Noi stessi, noi esseri umani, siamo un evento, un divenire, un qualcosa in continuo accadimento. […] Quelle cose che più conosciamo, che ci rendono ciò che siamo – la nostra personalità, le nostre qualità mentali – sono esse stesse costituite dall’arte, o dall’arte e dalla filosofia. Noi stessi, quindi, siamo fatti della stessa materia dell’arte. Viviamo nell’entanglement. […] L’arte è una delle precondizioni della vita. L’arte non viene prima della vita in senso temporale, ma non le è nemmeno successiva. Arte e vita ci sono da sempre». (Noë, 2023)

Il senso profondo di questa affermazione, si scoprirà, svela la natura dell’essere umano come un fenomeno estetico, ma per comprenderlo al meglio bisogna procedere con ordine, e partire da molto lontano. Occorre partire da una constatazione, potremmo dire, banale: gli esseri viventi agiscono. Vivere, in un certo senso, significa agire. Tutti gli esseri viventi sono in grado di compiere azioni su e nel mondo, e questa è una facoltà sorprendente poiché è proprio attraverso l’azione che essi strutturano e modificano l’ambiente e il mondo che li circonda, e possono addirittura cambiare la pressione selettiva dell’evolu

zione: un paradigma noto ai biologi come costruzione di nicchia (Laland, 2009). Utilizzando un termine tecnico, potremmo dire che l’agire organizza il mondo. Organizzazione, naturalmente, non è da intendere in senso manageriale – la parola va letta nel suo significato etimologico: da organo, e quindi organismo. In questo senso organizzare significa formare organi e di conseguenza strutturare organismi. Dall’azione siamo passati alla strutturazione degli esseri viventi: tramite l’azione la vita si struttura. Così, gli organismi non sono solo oggetti passivi ma anche soggetti attivi dell’evoluzione. Sono lontani i tempi della sopravvivenza del più forte o, per rendere giustizia a Darwin, del più abile ad adattarsi. Questo nuovo paradigma stravolge l’immagine contemplativa della natura che da sempre abbiamo: l’evoluzione stessa – e quindi la natura stessa degli esseri che si evolvono, cioè gli esseri viventi – è un processo partecipativo. Allo stesso modo, attraverso l’azione, gli individui possono creare forme e oggetti apparentemente ex nihilo: l’idea nella testa del compositore diventa una suite tangibile che viene ascoltata nei teatri; la visione sognata dall’ingegnere diventa l’aereo che ridisegna le distanze del mondo. 

Coëtivy Master (forse Henri de Vulcop), La filosofia presenta a Boezio le sette arti liberali, c. 475-525.

La riflessione filosofica si è sempre e costantemente posta come atto contemplativo, come una ricerca della verità. La realtà va indagata alla ricerca del suo principio primo, delle regole che la governano. Il pensiero si è così relazionato nei confronti del cosmo, come lo sguardo nei confronti di un paesaggio. La stessa parola teoria può essere fatta risalire al verbo greco theoreo, “io osservo”. Questo implica una concezione di profonda staticità del pensiero rispetto al mondo – una sorta di guardare ma non toccare metafisico – dove la verità è unica, immutabile, da sempre già presente. Tuttavia queste riflessioni sulla natura dell’agire ci suggeriscono piuttosto un modo diverso di vedere il cosmo. Ernst Bloch, filosofo marxista famoso per i suoi studi sull’utopia e la speranza, scrive: «Non c’è realismo degno di questo nome se astrae da questo elemento fondamentale della realtà: la sua incompiutezza» (Bloch, 2018), evidenziando un aspetto spesso trascurato quando si parla di scienza, filosofia e verità: la realtà non esiste. O meglio, non esiste in quanto entità completa e statica, che tutto include – così come vuole il pensiero contemplativo – poiché la realtà è sempre in continuo mutamento, in continuo aumento; in poche parole… è sempre incompleta. Così, da un pensiero contemplativo, bisogna passare a un pensiero speculativo, o in qualche modo attivo, che riconosca l’enorme portata organizzativa degli esseri. Studiare che cos’è una mente – e quindi che cos’è l’arte – significa anche tener ben presente questa cornice, una visione che paga i suoi debiti al pragmatismo americano di John Dewey in primis, ma anche a Heidegger. In questo modo, una delle dicotomie più nascoste, e quindi più radicate, del pensiero occidentale viene scardinata: quella tra statico e dinamico. Il mondo, il cosmo, non è un’entità statica che i soggetti possono contemplare: “mondo” e “io” sono entità inestricabili, che si compenetrano, si influenzano, si costruiscono a vicenda. Così come la realtà è incompleta, anche l’io è sempre in fieri, essere una persona significa essere un processo in continua costruzione. Questa è la prima manifestazione dell’entanglement – il primo di quei nodi che ci legano al mondo.

non c’è percezione senza movimento

Jan van Eyck, Ritratto di un uomo con turbante rosso, 1433.

È sulla base di queste considerazioni che occorre intendere le riflessioni di Alva Noë, che cerca di dare una risposta in armonia con l’enattivismo – una metafisica della coscienza teorizzata da Francisco Varela, rivoluzionaria dal punto di vista sia scientifico che filosofico secondo cui percepire, essere coscienti, è anzitutto muoversi, agire nella realtà quindi essere incarnati in un determinato contesto – alla domanda «Che cos’è l’arte?». A questo punto non bisogna stupirsi del tentativo di indagare l’arte a partire da una metafisica della mente. Percepire il mondo significa navigarlo, non c’è percezione senza movimento; ma non c’è nemmeno arte senza percezione – che sia visuale, tattile, acustica, del gusto o dell’olfatto – l’arte dipende dai sensi e dunque una filosofia della coscienza è necessariamente una filosofia dell’arte. E, spingendo ancora più in là la dicotomia tra statico e dinamico, Noë si concentra sull’arte come pratica organizzativa. Che cos’è una pratica organizzativa? Gli esseri viventi sono intimamente strutturati, organizzati. Consideriamo, ad esempio, la maniglia di una porta: ogni volta che ci troviamo davanti a una porta, se è stata progettata con cura, non ci fermiamo a riflettere su cosa sia quell’oggetto. Semplicemente, la afferriamo e spingiamo. La maniglia possiede una affordance che ci suggerisce come dev’essere utilizzata e qual è il suo scopo. Ma questo solo perché la maniglia è stata pensata e realizzata in base a come è fatto il nostro corpo, a come funziona la nostra mente, a come è organizzata la società. Una maniglia è una tecnologia profondamente immersa nell’ambiente umano, ed è per questo motivo che non ci fermiamo a interrogarci riguardo la sua esistenza. E l’essere umano è tecnico per natura: come l’antropologia sostiene da tempo, la tecnologia ci è intima. Siamo designer naturali. La tecnologia non solo estende ciò che possiamo fare: estende anche ciò che siamo. Non siamo solo soggetti attivi della tecnologia, ma anche oggetti passivi, siamo organizzati dalla tecnologia. Il sistema legale, una “tecnologia mentale”, è sì un’invenzione umana, ma ci organizza anche (Gallagher, 2013): ci dà un modello entro il quale si strutturano la nostra azione e il nostro modo di pensare. Siamo intimamente organizzati dalla tecnologia. Questo è uno dei sensi più immediati della nostra organizzazione. Le nostre azioni sono strutturate, organizzate, da ciò che è intorno a noi. E, come abbiamo detto, vivere è agire; dunque, se l’agire è organizzato lo è anche la vita. Un altro modo in cui le nostre esistenze sono organizzate è attraverso le abitudini. Molto di ciò che facciamo nella vita di tutti i giorni non richiede alcun tipo di pianificazione o riflessione, lo facciamo e basta, è un’abitudine. Il termine latino habitus, da cui deriva l’italiano “abitudine”, è imparentato anche con il termine “abito”. Questo perché l’abitudine, come un vestito, si mostra: per Aristotele l’abito è quella parte visibile del nostro comportamento. La questione è sottile: le abitudini ci organizzano, e dunque ci rendono ciò che siamo: non a caso, per il filosofo Bill Pollard, le abitudini fanno parte della natura della persona (Pollard, 2006). D’altronde, il comportamento di una persona – cioè il suo abito – è la prima manifestazione del suo essere. L’abitudine, dunque, è l’attività pratica di un individuo con un determinato abito; vale a dire, il modo di comportarsi di un individuo a seconda del suo carattere. In questo senso nell’individuo, sostiene Aristotele, il carattere è una «seconda natura», una natura acquisita, perché dipende sì da questioni naturali, ma anche e soprattutto da attività, da pratiche, esterne alla natura, come le pratiche sociali e tecnologiche. Ecco che si manifesta un altro entanglement: quello tra due livelli di esistenza, il naturale e il tecnologico. Una traduzione migliore del termine habitus, secondo me, potrebbe essere la parola “stile”.

Lo stile è quindi una categoria cognitiva e ontologica di primaria importanza. Nella sua accezione originaria, il termine si riferisce allo stilo, o alla penna, con cui tracciamo un segno; per estensione, si riferisce al modo distintivo in cui chiunque impugna una penna, uno strumento o – allargando al massimo il significato – il modo in cui ci si incarna. Non a caso le persone si possono riconoscere anche dai loro segni. Questo fenomeno si riscontra nella letteratura e nell’arte in tutte le sue varietà. Persino nel campo dell’abbigliamento, dell’arredamento e del design si parla frequentemente di stile . Il punto fondamentale è che l’azione porta con sé l’impronta stilistica reale e percepibile del suo autore. Tutti noi, in un modo o nell’altro, siamo sensibili allo stile: nell’arte, nell’abbigliamento, nel linguaggio, nel design, nel carattere e così via. E siamo anche tutt ə, in qualche misura, allo stesso modo insensibili allo stile, non curandocene, vivendolo passivamente. Si tratta di un ambito in cui è possibile affinare i propri poteri di discriminazione, ma anche trascurarli. I poteri di discriminazione rilevanti sono di natura estetica. E questa sensibilità estetica allo stile ha un campo di applicazione molto più ampio di quello che comunemente si pensa: dobbiamo questa scoperta a Husserl e Merleau-Ponty. L’idea che ciò che esiste (o meglio, ciò che esiste per noi, nel dominio dell’umano) sia segnato dallo stile, era prominente in Husserl: «Tutto ciò che è insieme nel mondo», scriveva, «ha un modo universale di appartenersi. Grazie a questo, il mondo non è semplicemente una totalità, ma un’unità onnicomprensiva, un tutto (anche se infinito)». E Husserl caratterizza questa unità come uno «stile complessivo» e come una sorta di abitudine al mondo. Lo stile del mondo si manifesta nel modo in cui gli oggetti e le situazioni si riferiscono implicitamente gli uni alle altre, si annunciano le une alle altre o vanno insieme, o nel modo in cui l’agire di una persona è espressione, in un certo senso, di chi o cosa essa sia. Per questo, il mondo naturale stesso è, come dice Merleau-Ponty, «l’orizzonte di tutti gli orizzonti e lo stile di tutti gli stili» (Merleau-Ponty, 1946; p. 429). La sensibilità allo stile è una sensibilità alle interconnessioni significative ma non del tutto definibili tra le cose, le interconnessioni che danno al nostro mondo, come dice il filosofo francese, la sua unità. Esiste quindi un certo tipo di comprensione del mondo, un certo tipo di sensibilità al suo significato, che è, appunto, una questione di stile. Lo stile, quindi, ci organizza a livello intimo. Non solo nel giudizio, ma anche nella percezione e, in generale, nella vita mentale. Seguendo Noë, farò due esempi: quello delle immagini e quello della danza. 

Élisabeth Louise Vigée Le Brun, Marie Antoinette in a chemise dress, 1783. Courtesy the Metropolitan Museum of Art.

Le immagini – rappresentazioni visive realistiche o fittizie del mondo – sono ovunque, soprattutto nell’ambiente popolato da social media e pubblicità in cui siamo immersi. C’è un vero e proprio mercato delle immagini. Ed è proprio tramite le immagini che noi vediamo. Si potrebbe pensare che la vista – il vedere – sia un concetto biologico. La provocazione di Noë è che il vedere è già da sempre entangled con l’estetico. Il modo in cui esperiamo il nostro corpo vestito, per esempio, è in parte modellato dalla familiarità con le rappresentazioni del corpo vestito nella storia del ritratto. In Seeing Through Clothes, Anne Hollander richiama l’attenzione sul fatto che, quando ci guardiamo allo specchio, è come se ci guardassimo in un quadro: ci prendiamo come se fossimo raffigurati. Hollander osserva che quando ci guardiamo in questo modo ci componiamo nella cornice dello specchio, come se stessimo dipingendo una sorta di autoritratto provvisorio (quello che oggi chiameremmo un selfie). L’immagine, dice, «fornisce lo standard in base al quale viene valutata la percezione di noi stessi» (Hollander, 1993). E questa è un’esperienza valida in qualsiasi campo; ed è alla base dei problemi sulla rappresentazione politica e psicologica dei corpi. È tramite la storia del ritratto che abbiamo scoperto il corpo come oggetto da mostrare. Così, nel movimento opposto, il vestirsi è un tentativo di organizzare il modo in cui siamo visti, ed è in questa dialettica che si trova un ulteriore livello dello stile. Di conseguenza, le immagini ci hanno portato a vedere gli oggetti. È attraverso l’estetico che scopriamo l’ontologico. E, se non sembra strano che senza linguaggio non potremmo avere determinati pensieri – che il nostro pensiero è strettamente ed essenzialmente connesso e reso possibile dalle parole, dall’avere un linguaggio –, la stessa cosa vale per le immagini. Linguaggio e immagini sono entrambi una tecnologia mentale, e così le immagini permettono a loro volta la creazione di un pensiero specifico; in questo caso il pensiero visuale. Ci tengo a sottolineare che tali questioni di stile non sono affatto superficiali; anzi, non c’è niente di più intimo. Contrariamente a certe “metafisiche della profondità”, quali la psicanalisi o la filosofia cristiana, l’enattivismo riconosce che sono le superfici, i luoghi di incontro e di scambio, i luoghi di contatto, i posti ontologicamente più pregnanti. Questo meccanismo tramite cui le immagini organizzano la nostra vita è il risultato della tecnologia-immagine. L’arte, al contrario, non è una pratica organizzativa, spiega Noë, bensì una pratica ri-organizzativa. Tramite l’arte esplicitiamo ciò che di solito non notiamo: i modi in cui la tecnologia, l’abitudine e tantissimi altri fenomeni ci organizzano e come noi decidiamo di ri-organizzarci esplicitamente. L’arte è uno strumento inutile, si potrebbe dire, senza una funzione, “una tecnologia pervertita”. Il design, la tecnologia, si ferma e l’arte inizia quando non riusciamo a dare per scontato proprio quello sfondo delle tecnologie e delle attività che ci sono familiari. Quando parlo, non mi soffermo sui rumori che escono dalla tua bocca; il tuo linguaggio è una trasparenza attraverso la quale ti incontro in modo istintivo. Il design, almeno quando è ottimale, è trasparente proprio in questo modo; scompare dalla vista e viene assorbito dall’applicazione. L’arte, al contrario, per Noë, rende le cose strane, sconvolge l’apparenza e lo fa di proposito. Così facendo, svela proprio ciò che opera in profondità. Se normalmente guardiamo il mondo, è attraverso la pittura e la fotografia che lo vediamo, le immagini portano a galla i meccanismi stessi della visione; se quando siamo felici danziamo, è attraverso la coreografia che indaghiamo cosa significa muoversi; se nella vita di tutti i giorni ci vestiamo, è attraverso la moda che ci costruiamo come persone, che decidiamo come apparire. Nel dipingere un quadro non è l’oggetto finale ad avere valore – la stima di questo è più una questione sociale –, è l’esperienza stessa del dipingere a porre l’accento sulle qualità estetiche della vita. Non c’è bisogno di particolari capacità tecniche, né di altro: conta un certo atteggiamento – il voler indagare l’esperienza. Alla stessa maniera, l’outfit non è il fine della moda: l’arte del vestirsi comporta un certo atteggiamento volto a indagare la cura e la costruzione del sé. L’arte è dunque uno strumento strano perché è tramite essa che indaghiamo e mettiamo in scena quegli aspetti della vita che normalmente sono dati per scontati. L’arte ci svela noi stessi. L’arte è un’attività di creazione, perché per natura e cultura siamo organizzati in attività di creazione. “… L’arte è un’attività di creazione, perché per natura e cultura siamo organizzati in attività di creazione. “L’opera d’arte, quindi, non esiste per come la intendiamo normalmente, è un attrezzo che ci offre l’opportunità di portare alla luce tutto ciò che la vita nasconde nello sfondo. 

Noë parla anche di danza e del danzare. Tutti gli esseri umani ballano. Ballare è un fenomeno naturale. Muovere il corpo, scuotersi, percepire la propria presenza nello spazio. I modi in cui normalmente balliamo non sono pianificati. Non ci mettiamo a riflettere quando balliamo, lo facciamo e basta. Ma la coreografia, o la danza come arte, è diversa. Perché nella coreografia l’artista sceglie di mettere in mostra – e quindi di riflettere, criticare, suggerire, far notare – i modi in cui normalmente ci muoviamo al fine di rendere espliciti quei gesti che facciamo senza pensarci. Se ballare è muoversi, la coreografia è uno studio esplicito del movimento. Quindi, procedendo con il parallelismo, se è tramite le immagini che vediamo, è attraverso la danza che ci muoviamo. E infatti poi i modi in cui balliamo solitamente sono influenzati dalle coreografie che vediamo rappresentate. Un esempio banale: il twerking. Fino a venti anni fa, durante un pranzo nuziale, nessuno avrebbe twerkato. Si tratta di un chiaro esempio di coreografia che esprime una ri-organizzazione, con tutte le conseguenze sociali e politiche che si porta dietro. Nuovamente, dunque, notiamo un entanglement tra quelle che sono le pratiche artistiche e la nostra esistenza come persone, come abiti, come stili.

Uno dei punti cruciali cui questo discorso allude è chiaramente quello dell’identità di genere. Il genere è qualcosa che noi mettiamo in scena [enact], non nel senso teatrale del termine, ma nel senso in cui mettiamo in scena le nostre vite coscienti per la teoria enattivista. In questo senso, il genere – non userò la parola “identità”, perché darebbe erroneamente l’idea di qualcosa di statico – è uno stile. E non c’è nulla di più intimo dell’espressione di genere. Tuttavia, contro la retorica della profondità, il genere è un terreno di scontro estetico, cioè accade in superficie. Il genere ci organizza tramite immagini, desideri, abiti, stili che troviamo ovunque intorno a noi. E dunque qui arriviamo all’ultimo, più importante entanglement: quello tra vita e arte. Se l’arte è una pratica riorganizzativa, cioè che mette in primo piano ciò che è sullo sfondo, portare alla luce questi meccanismi che di solito operano nell’oscurità è a tutti gli effetti una pratica artistica. O, detto in parole ancora più esplicite, la teoria di Noë ci porta ad affermare l’abbacinante conseguenza che costruirsi come individuo è una pratica artistica. Non abbiamo solo una responsabilità morale nei nostri confronti, ma anche – e soprattutto – una responsabilità estetica. Curare il proprio stile, il proprio carattere, in poche parole essere un individuo, è una questione artistica. Così, l’entanglement tra arte e vita di cui parlava Collingwood è finalmente reso esplicito. Nelle parole di Nietzsche, è solo come fenomeno estetico che la vita può essere compresa. 

È evidente che questa visione preveda una teoria della mente fortemente sociale e comunitaria. Prima di concludere, quindi, sarà necessario esplorare questa dimensione, e vedere cosa può dirci su molti problemi che si affacciano nel dibattito contemporaneo, come la sempiterna questione delle intelligenze artificiali. 

 

  1. Indivisibili

L’idea che le menti siano uniche, discrete e separabili da quelle degli altri individui è stata incredibilmente popolare nella tradizione filosofica occidentale. Ovunque, da Agostino a Kant, si possono trovare espressioni di un simile pensiero. La mente cartesiana, per esempio, è notoriamente individuale: io penso, dunque, io sono. «Che cos’è che io sono? Sono una cosa pensante», scrive Descartes nelle Meditazioni, poi aggiunge: «Quando qualcuno dice: “Io penso, dunque sono o esisto” deduce la sua esistenza con una semplice intuizione della mente». Questo modo di vedere la questione è un tipico atto contemplativo. Da quella notte milesiana di 2.500 anni fa, infatti, la filosofia occidentale è sempre stata contemplazione: la realtà va indagata alla ricerca del suo principio primo, delle regole che la governano. Il pensiero si è così relazionato nei confronti del cosmo, così come lo sguardo nei confronti di un paesaggio. La stessa parola teoria può essere fatta risalire al verbo greco theoreo, “io osservo”. Ciò implica una concezione di profonda staticità del pensiero rispetto al mondo – una sorta di guardare ma non toccare metafisico – dove la verità è unica, immutabile, da sempre già presente. Questo modo di concepire il mondo e la riflessione pone necessariamente l’individuo fuori dal corso naturale del mondo, effettivamente dividendolo dall’unica cosa da cui è indivisibile: il cosmo. L’agency, questa misteriosa forza che sembra pervadere il cosmo e che è il meraviglioso potere che gli esseri hanno di agire, viene rinchiusa dalla visione contemplativa solo ad alcuni esseri eletti – i soggetti – e comunque confinata al loro intelletto. Il cosmo diventa un’entità comprensibile, e cioè razionalizzabile, ma non modificabile. L’agency, però, rappresenta il vero paradosso della visione contemplativa: da un lato, ogni essere si vive con un senso intuitivo di libertà e capacità di agire; dall’altro, le scienze dure, senza mai affermarlo esplicitamente, negano comprensibilmente qualsiasi fondamentale libertà d’azione. Tutto è già prestabilito. Il cosmo è deterministico. Una particella non può che seguire le leggi della natura, e così com’è che agisce un animale? Questo suo sentimento di libertà deve essere un’illusione. Aut aut diceva il filosofo danese. O vi è una comparsa miracolosa di agency a un certo punto dello sviluppo cosmico, comparsa che distrugge l’apparente continuità perfetta della natura; oppure semplicemente ci sbagliamo nel nostro giudizio su noi stessi, abbiamo un pregiudizio, un bias di parte. Ovviamente i miracoli sono tanto inaccettabili quanto impossibili, ne segue che l’essere umano è una creatura imperfetta, che vede intenzioni lì dove ci sono solamente istinti predeterminati. E così via i Dennett e i Dawkins, scienziati rispettabili a negare il sentimento più immediato in favore della pura contemplazione. Il cosmo in una sfera di cristallo. Qualsiasi persona ragionevole non può negare questo determinismo. Dunque, la coscienza diventa il problema più grande, più difficile, per la visione contemplativa del mondo: fenomeno evidente in prima persona, evanescente in terza. Il problema però, semmai, è nei presupposti: il problema è il fondamento.

Eppure c’è un problema, un’incrinatura fatale nella concettualizzazione cartesiana del mondo interiore: la solitudine può essere letale. Prendiamo, ad esempio, le parole di chi è stato confinato all’isolamento delle carceri. In queste testimonianze spaventose troviamo episodi di allucinazioni, ansia, depressione, profondo disorientamento cognitivo, psicosi e tentativi di suicidio. Chi è costretto all’isolamento perde la capacità di discriminare le proprie esperienze dalle esperienze altrui. «Una monade non ha porte né finestre», scrive Leibniz nella Monadologia. «Ma non vi è da temere la loro dissoluzione», aggiunge: «Non è concepibile che una sostanza semplice possa perire in modo naturale». La monade siamo noi, soli nel nostro corpo, imprigionati nella nostra psiche.
Lisa Guenther, una filosofa americana che si occupa di prigioni e fenomenologia della solitudine, avrebbe da ridire sul fatto che la monade solitaria non può perire. Scrive infatti:

«Ci sono molti modi per distruggere una persona, ma uno dei più semplici e devastanti è l’isolamento prolungato. Private di un’interazione umana significativa, le persone altrimenti sane diventano scervellate. Vedono cose che non esistono e non riescono a vedere cose che esistono. Il senso del proprio corpo – anche la capacità fondamentale di sentire il dolore e di distinguere il proprio dolore da quello degli altri – si erode al punto che non sono più sicuri di provare dolore o di farsi del male». 

Alcune testimonianze dirette di persone che hanno trascorso mesi, se non anni, in isolamento forzato dicono che:

«Dopo poco tempo in isolamento, ho sentito che tutti i miei sensi cominciavano ad affievolirsi. Non c’era nulla da vedere se non pareti grigie. Nelle cosiddette unità abitative speciali di New York […] la maggior parte delle celle ha porte in acciaio massiccio, e molte non hanno finestre. Non si possono nemmeno attaccare con il nastro adesivo immagini o fotografie; […] Per combattere la calura, ho contato i mattoni e ho misurato le pareti. Ho fissato ossessivamente i catenacci della porta della mia cella. Non c’era nulla da sentire, se non voci vuote, che riecheggiavano da altre parti della prigione. Ero così solo che ho allucinato parole uscire dal vento. Sembravano sussurri. A volte, sentivo l’odore della vernice sul muro, ma più spesso sentivo solo il mio odore, rivoltato dal mio stesso profumo. Non c’è stato mai alcun contatto [umano]. Il cibo mi veniva spinto attraverso una fessura. [I]l tempo non aveva alcun significato in isolamento. Le luci erano tenute accese per 24 ore. Spesso mi chiedevo se un evento che stavo ricordando fosse accaduto quella mattina o giorni prima. Parlavo da solo. Cominciai ad avere paura che le guardie entrassero, mi uccidessero e mi lasciassero appeso in cella. Chi avrebbe saputo se mi fosse successo qualcosa? Così come ero invisibile, lo era anche lo spazio che abitavo. L’essenza stessa della vita, ho imparato durante quei giorni apparentemente senza fine, è il contatto umano, e l’affermazione dell’esistenza che ne deriva. Perdendo quel contatto, si perde il senso di identità. Si diventa nulla». (Five Omar Mualimm-ak, 5 anni in isolamento)

O ancora,

«Più si è completamente soli, più la mente inizia a riflettere la cella; diventa vuoto statico… L’isolamento non è una sorta di orrore catartico di nervi a fior di pelle e pelle rovente e teste che sbattono alla cieca contro i muri e urlano. Quei momenti arrivano, ma non sono l’essenza dell’isolamento. Sono eventi che ti penetrano dentro, certo. Sono pietre gettate in un abisso. Ma non sono l’abisso in sé… L’isolamento è una morte vivente. La morte perché è la rimozione di quasi tutto ciò che caratterizza l’umanità, vivente perché dentro sei ancora tu. Le luci non si spengono come nella vera morte. Il tempo non si cancella come nel sonno…». (Shane Bauer, 4 mesi in isolamento)

Jean François de Troy, Declaration of love, 1731.

Da dove arriva questo potere distruttivo della solitudine, se l’essere umano è ontologicamente solo? Che ne è dell’aristotelico «L’essere umano è una creatura politica, la cui natura è di vivere con gli altri»?. È come se, nella storia della filosofia moderna e successivamente contemporanea, si fosse creata una spaccatura non solo tra l’essere umano e il mondo, ma tra gli stessi esseri umani . Un’interessante critica al sé individuale, che presenta un’interessante conseguenza su alcune pratiche disciplinari carcerarie, viene mossa da Lisa Guenther, e il punto che presenta è così radicale e fondamentale che ci costringe non solo a ripensare completamente cosa sia la nostra mente, ma ci invita anche a prendere in considerazione il fatto che noi, prima di essere individui, siamo innanzitutto un gruppo, una comunità. L’analisi metafisica guentheriana parte dall’isolamento cui vengono sottoposte alcune persone nelle carceri. Di fatto, molti dei primi proponenti di questa metodologia penitenziaria erano sostenitori delle teorie individuali della mente: prendete qualcuno che ha commesso un crimine, chiudetelo da solo in una cella dove avrà tempo per riflettere su di sé e auspicabilmente tornerà un po’ migliore rispetto a com’era prima. Dopotutto, se le menti sono davvero così ontologicamente individuali, questa pratica sembra molto più umana rispetto alla tortura, ai roghi e alle esecuzioni pubbliche. Eppure, le testimonianze di chi è stato confinato all’isolamento sono radicalmente diverse.

noi non siamo individui discreti, siamo un network

La conclusione che la studiosa trae da questi dati è che le nostre teorie della mente sono sempre state strutturalmente sbagliate: noi non siamo individui discreti, siamo un network. Non si può certo parlare di hive mind umana senza esagerare, e nemmeno di eusocialità; ma vi è comunque una forte evidenza che è il soggetto collettivo a fondare il soggetto individuale, e non viceversa. Se fossimo davvero così separabili come il paradigma cartesiano sembra asserire, non dovremmo aspettarci che il solo isolamento possa distruggere una persona così tanto che addirittura il suo senso del sé viene intaccato fino a farlo sparire. L’entanglement di cui si parlava nel paragrafo precedente è qualcosa di profondamente costituente del nostro essere individui.

Non solo non si nasce un sé, nemmeno lo si diventa.

C’è un proverbio Zulu che dice «Umuntu ngumuntu ngabantu», che significa: «Una persona è una persona solo attraverso altre persone». E infatti secondo la filosofia Ubuntu, che ha le sue origini nell’antica Africa, un neonato non è un individuo. Le persone nascono senza “ena”, o individualità – quella che in inglese viene chiamata selfhood, l’essere un sé – e devono invece acquisirla attraverso interazioni ed esperienze nel corso del tempo. Quindi la distinzione “sé” / “altro”, assiomatica nella filosofia occidentale, è molto più sfumata nel pensiero Ubuntu. Come ha detto il filosofo di origine keniota John Mbiti in African Religions and Philosophy (1975): «Io sono perché noi siamo; e poiché noi siamo, io sono». Ciò che ci rende individui è proprio questo, il continuo processo di entanglement che ci lega al mondo, agli altri esseri, alle immagini. È proprio a causa della mancanza di questo entanglement che, a mio avviso, le intelligenze artificiali non possono essere considerate davvero delle menti, e quindi, degli individui. Si è sempre sostenuto che “individuo” significasse “indivisibile”, ossia un atomo (a sua volta “indivisibile” in greco), qualcosa di profondamente unitario che non è possibile scomporre oltre. È esattamente il contrario. Questo è il caso degli agenti artificiali come: sono delle isole, degli esseri essenzialmente monadici, è possibile scomporli fino al loro nucleo fondamentale – il prompt di sistema – e racchiudere tutti le loro successive evoluzioni in quell’ “individuo minimo”. Al contrario, le persone sono indivisibili in un altro senso: non si possono dividere dal groviglio in cui sono già da sempre entangled. Anzi, il processo di essere un individuo è proprio questo: l’eterno tentativo – l’eterna dialettica – tra il liberarsi da questi legami e il costruirsene di nuovi, tra immagini, desideri, caratteri, stili. Non solo non si nasce un sé, nemmeno lo si diventa. Essere individui significa essere in un processo incompletabile per natura, in cui tutto è plastico e in divenire. 

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di Marco Mattei
  • Marco Mattei è un dottorando in neuroscienze cognitive presso l’università di Milano. Ha scritto per L’Indiscreto, Lay0ut Magazine e Speculum! – Filosofia dal Futuro.
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