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La teoria della gestione del terrore
Digital Library, June 2018
Tempo di lettura: 23 min
Arndt Jamie, Jeff Greenberg

La teoria della gestione del terrore

La ricerca di senso per sfuggire alla propria mortalità: nascita e sviluppo della TMT.

Fotogramma dal film sulla TMT ‘Flight From Death: The Quest For Immortality’, 2003.

 

«Like other species Homo sapiens are highly motivated to avoid dying.
Yet unlike other species they are in the potentially terrifying
position of knowing that death is inevitable».
(Karl Mc Dorman)

Convenzionalmente, tendiamo ad asserire che l’unica certezza sia la morte. Nonostante sia un mantra che viene ripetuto all’infinito, l’idea della propria morte resta un pensiero inaccettabile. O meglio, è ammesso razionalmente, nel migliore dei casi, ma a un livello inconscio verrà comunque rifuggito, negato, sublimato. Il nostro istinto di sopravvivenza, che si manifesta con riflessi o con risposte più elaborate, è un chiaro monito della precisa tendenza a perdurare il più possibile e quindi, letteralmente, a evitare la morte. Ma la consapevolezza che la propria ‘fine’ possa sopraggiungere in qualunque momento e in qualsiasi modo – consapevolezza che sembra essere una prerogativa della nostra specie – suscita terrore. L’ansia che ne consegue conduce alla necessità di dare un senso e un valore a noi stessi e all’esistenza in generale.

Tale difesa dal terrore della vacuità è concettualizzata nella teoria della gestione del terrore (TMT) di T. Pyszczynski, J. Greenberg e S. Solomon, oggetto del saggio qui presentato. Secondo la teoria, molte delle sovrastrutture umane deriverebbero dalla ricerca di significato, a sua volta dovuta al tentativo di gestire la quiescente ansia per la nostra mortalità. Da qui la necessità di mantenere il più possibile stabile la propria visione del mondo ed evitare la sua messa in discussione (un esempio di questo sistema di difesa è già stato trattato nel saggio che analizzava il senso del perturbante).

Il testo, scritto da Jeff Greenberg – tra gli autori della teoria – e Jamie Arndt, è un estratto del 19° capitolo del libro corale The Handbook of Theories of Social Psychology.

Qui la teoria è presentata in una versione divulgativa e narrativa, dalle sue origini antropologiche alla resistenza critica del mondo della psicologia sociale. Il risultato è un’interessante introduzione a una teoria che ha l’ambizione, se non la pretesa, di spiegare le motivazioni dello sforzo nella ricerca della dimensione qualitativa dell’esistenza. Anche se sostenuta da quasi due decenni di ricerche, la teoria necessita ancora di validazioni e studi. Nonostante ciò, offre notevoli spunti di riflessione su un argomento presente dall’inizio della storia del genere umano, almeno nella forma biologica che conosciamo.

 

Introduzione di Valeria Minaldi


Illustrazione di Konrad Lorentz, Wolf facial expressions, 1952.

Abstract

La teoria della gestione del terrore è stata sviluppata per spiegare le ragioni fondamentali di fenomeni quali la difesa della propria autostima e il pregiudizio. La teoria è fondata su una lunga tradizione di riflessioni in merito alla consapevolezza umana della morte e il suo ruolo nel funzionamento psicologico. La teoria ipotizza che, per gestire il potenziale terrore dovuto alla consapevolezza della mortalità, gli esseri umani mantengano la fede in una visione del mondo che dia loro l’impressione di essere entità dotate di significato all’interno di un mondo duraturo e pieno di senso, piuttosto che meri animali composti di materia e destinati, dopo la morte, all’oblio. La teoria è supportata da un’ampia serie di studi che mostrano come l’autostima e le visioni del mondo forniscano protezione contro l’ansia e la cognizione della morte, come i memento mori consoliderebbero la visione del mondo rafforzando l’autostima, e come le minacce alla propria visione del mondo e all’autostima aumenterebbero la disponibilità a pensieri correlati alla morte. La ricerca ha inoltre condotto a un doppio modello di risposta difensiva ai pensieri di morte inconsci e consci. Ci concentreremo inoltre su due dei numerosi argomenti ispirati dalla teoria: le attitudini e i comportamenti relativi alla salute fisica, gli orientamenti politici e i conflitti interni nei gruppi. In seguito considereremo i fattori che mitigano le forme distruttive della gestione del terrore. Riepilogheremo brevemente infine il contributo dato finora allo studio sulla gestione del terrore e vedremo dove esso si sta dirigendo.

 

La teoria della gestione del terrore

La teoria della gestione del terrore è nata all’incirca nel 1980 da un’insoddisfazione di fondo per il settore della psicologia sociale, condivisa da tre studenti laureati all’Università del Kansas: Sheldon Solomon, Tom Pyszczynski e l’autore più anziano di questo capitolo.11Appunto, Jeff Greenberg, N.d.T.
Restando fermamente chiuso nella morsa della cognizione sociale, il campo di studi dipingeva le persone come distaccati elaboratori di informazioni, guidati da schemi ed euristiche,22Euristica: strategia o “scorciatoia” mentale che consente di formulare rapidamente un giudizio, ricavare inferenze dal contesto, attribuire significato alle situazioni e prendere decisioni a fronte di problemi complessi o di informazioni incomplete. N.d.T.
operanti in un vuoto storico, culturale, motivazionale e affettivo. Cresciuti all’interno di famiglie della classe operaia, contraddistinte da gioia e rabbia, antagonismo e amore fraterno, passione e sarcasmo, in quartieri concentrati attorno a chiese e sinagoghe, locali e sale da ballo, pieni di gente animata da orgogli e conflitti regionali, etnici e lavorativi, in quel tempo la psicologia sociale ci colpì mentre descriveva degli androidi anaffettivi che noi tre non avevamo mai incontrato.

Nel vedere le persone come creature fortemente motivate dall’esigenza di tutelare la propria autostima e di riaffermare la superiorità del proprio gruppo al di sopra degli altri, eravamo simili a giovani salmoni che nuotavano controcorrente rispetto alla rivoluzione cognitiva. Avevamo focalizzato la nostra ricerca su come la motivazione condizionasse la percezione che le persone avevano di sé e degli altri, in particolare riguardo alla salvaguardia dell’autostima. Avevamo contribuito alla ricerca sulle distorsioni egocentriche e sull’autosabotaggio,33Self-handicapping (‘autosabotaggio’): si tratta di una strategia cognitiva secondo cui gli individui, per evitare sforzi, responsabilità o potenziali fallimenti, inventano o creano ostacoli in grado di giustificarli da eventuali errori o compiti non eseguiti, tentando in questo modo di proteggere la propria autostima. N.d.T.
dimostrando come le persone distorcano le loro cognizioni al fine di proteggere la propria autostima. Tuttavia avevamo concluso i nostri studi universitari pensando di non avere alcuna idea su ciò che conduceva gli individui verso i propri orgogli e pregiudizi.

Sparsi per il Paese a causa dei capricci del difficile mercato del lavoro (certe cose non cambiano mai), noi tre cominciammo a fare ricerca al di fuori delle riviste specialistiche per avere delle risposte. Ricordo di aver ricevuto una chiamata da Sheldon nel 1982 in cui annunciava di aver trovato una persona che avesse queste risposte. Si trattava del defunto antropologo culturale Ernest Becker, e le risposte si trovavano nel suo libro, Il rifiuto della morte, che nel 1973 aveva vinto il Premio Pulitzer per la saggistica. Lessi rapidamente il libro. Lo trovai spaventoso, brutale e illuminante. Basato su un’ampia serie di fonti e con una prospettiva esistenziale psicoanalitica, il libro sembrava spiegare tutte le tendenze umane che avevamo osservato diventando adulti e che erano così ben documentate dalle ricerche di psicologia sociale: conformismo, obbedienza, distorsioni egocentriche, aggressività e pregiudizio. Spiegava tutto, dall’ascesa del Nazismo in Germania alle complessità del sesso. Sheldon, Tom e io cominciammo a discutere delle varie intuizioni presenti nel libro, così come di quelle fornite all’interno del suo precedente volume, The Birth and Death of Meaning (1971), e nel suo ultimo libro, Escape from Evil (1975). Cominciammo così a utilizzare le idee di Becker per insegnare psicologia sociale in modo più integrato, come se la creatura che esaminavamo quando includevamo l’autostima fosse uguale a quella che esaminavamo quando includevamo l’influenza sociale, l’aggressione, il pregiudizio e le relazioni intime. Roy Baumeister ci aveva invitati a partecipare a un simposio intitolato “Io Pubblico e Privato” durante la conferenza Società di Psicologia Sociale Sperimentale (SESP) dell’ottobre 1984, a Snowbird, Utah, e a contribuire alla stesura di un capitolo per un volume a essa associato. Al SESP stabilimmo di introdurre ai nostri colleghi di psicologia sociale gli elementi centrali dell’analisi di Becker, sebbene Tom non riuscisse a farlo. Un mattino nevoso, nella nostra stanza, di fronte a un camino spento allo Snowbird Ski Lodge, io e Sheldon, piuttosto concitatamente, mettemmo insieme una semplice sintesi della teoria, che lì per lì chiamammo “teoria della gestione del terrore” (TMT).

Quando Sheldon cominciò la sua presentazione, la sala del simposio era moderatamente piena, ma non appena iniziò a discutere di Marx, Kierkegaard, Freud e Otto Rank, buona parte dell’uditorio si fece largo per uscire dalla sala. Adocchiai nel fondo ancora qualche illustre personalità superstite come John Darley, Ned Jones, che durante l’intervento scuoteva visibilmente il capo, i nostri tutor universitari e un nostro sostenitore, Jack Brehm. A fine intervento, anziché darci il cinque, così come immaginavamo, ottenemmo solo silenzio sbalordito, stupore e sconcerto. Mi confortò perlomeno che la pratica della lapidazione fosse ormai fuori moda.

Nient’affatto scoraggiati da questa prima gelida accoglienza, procedemmo con il capitolo, che divenne la prima proposta scritta della TMT (Greenberg et al., 1986). Nello stesso momento, lavorammo a un articolo in cui presentavamo la teoria in modo più completo, spiegando il suo valore potenziale in quanto ampio quadro esplicativo. Speravamo che tale articolo sarebbe stato ben accolto da American Psychologist, una rivista che promuove posizioni forti e integrate. L’articolo fu rifiutato senza troppe cerimonie, con due revisioni; una costituita da un singolo paragrafo, l’altra da una sola frase: «Non ho alcun dubbio che questo articolo non interesserebbe nessuno psicologo, vivo o morto».

Avendo molta familiarità con la nostra professione, non accettammo questo rifiuto conciso e non argomentato. Dopo più o meno un anno di riprese, l’editore Leonard Eron spiegò che le nostre idee potevano anche avere una qualche validità, ma non avrebbero acquisito credito finché non sostenute da ricerche empiriche. In effetti, sino a quel momento, non avevamo pensato alla TMT come a un qualcosa da poter studiare empiricamente. Tuttavia ci colpì – duh!44Duh: slang per commentare un’azione sciocca o stupida, soprattutto compiuta da qualcun altro. N.d.T.
– che si trattasse proprio di ciò che eravamo stati addestrati a fare – e cioè ricavare delle ipotesi verificabili dalle teorie e in seguito sperimentarle.

Crediamo che la TMT chiarisca parecchie cose fondamentali sugli esseri umani e i loro comportamenti sociali. Tuttavia la TMT non rientrava negli standard di una teoria di psicologia sociale. In essa, la maggior parte delle teorie sono mini-teorie focalizzate su una specifica serie di processi attinenti a uno specifico tema di uno specifico settore: la minaccia dello stereotipo (il pregiudizio); il modello della probabilità di elaborazione (la persuasione); il culto dell’onore (l’aggressione); la teoria della verifica del sé (il sé). La TMT riguarda il ruolo della paura inconscia della morte in quasi tutto ciò che noi esseri umani facciamo. Tuttavia, presto saremo capaci di ricavare, da questa ampia teoria esistenziale psicodinamica, ipotesi e strategie per sperimentarle in collaborazione con i nostri studenti.

Avendo compreso che la resistenza nei nostri confronti si stava facendo più forte, mettemmo insieme sei studi, una serie più grande di quanto fosse consuetudine a quel tempo, prima di sottoporla al Journal of Personality and Social Psychology. L’articolo fu accettato (Rosenblatt et al., 1989); le correzioni riportavano frasi come: «Questa teoria non può essere corretta, non mi piace, ma non sono in grado di spiegare le loro scoperte, quindi accettatela». All’epoca pensammo: «Ci sta bene».

Tavoletta di una serie più ampia che raffigura l’Epopea di Gilgameš, scuola Accadica, 2150-1400 a.c. circa.

Da allora, il sostegno empirico alla TMT si è sviluppato in una letteratura che consiste di oltre 400 studi, che continuano ad aumentare, effettuati in 16 paesi. L’insieme di questi lavori, che ha compreso numerosi sviluppi e rifiniture teoriche, ha ricevuto grandi benefici dalla seconda (e adesso terza) generazione di ricercatori della TMT, ex studenti del trio originale, tra cui l’autore più giovane di questo capitolo. Inoltre, nell’ultima decade, ricercatori di laboratori indipendenti sparsi in tutto il mondo hanno fornito i loro preziosi contributi a questa letteratura in continua espansione. Crediamo che lo sviluppo di tale campo di studi rispecchi il valore generativo di un’ampia teoria che integra attività umane molto diverse tra loro, esplorando forze profondamente radicate che spingono gli esseri umani a comportarsi come fanno. Quando era ancora uno studente allo Skidmore College, l’autore più giovane di questo capitolo restò infatti incantato dall’ampia prospettiva esistenziale che la TMT offriva e dalla speranza di sottoporre tali idee a un esame empirico. A tempo debito, forniremo una breve panoramica della letteratura sviluppata nel corso degli ultimi vent’anni, ponendo particolare attenzione alle recenti evoluzioni che riguardano le preoccupazioni contemporanee. Prima, però, dovremmo fare un passo indietro, per riconoscere le radici alquanto estese di tale teoria.

 

Le radici distali e prossimali della TMT

Nonostante abbia incontrato stupore e scetticismo quando è stata introdotta agli psicologi sociali nel 1980, vi sono buone ragioni per affermare che la TMT è un’antica teoria le cui origini possono essere rintracciate in uno dei primi testi narrativi di area sumerica del 3000 a.C., l’Epopea di Gilgameš. L’argomento centrale di questa storia, che ha in seguito influenzato le più importanti religioni del Medio Oriente, è costituito dalle profonde preoccupazioni del protagonista riguardo la morte e dalla ricerca dell’immortalità che ne consegue. Devastato dalla morte dell’amico Enkidu, Gilgameš comprende che anche lui dovrà morire. Comincia così a vagabondare nel deserto, affliggendosi: «Come posso riposare, come posso stare tranquillo? Nel mio cuore vi è angoscia. Ciò che mio fratello è adesso, lo sarò anch’io quando sarò morto… Ho paura della morte…». A questo punto intraprende un viaggio alla scoperta dell’immortalità.

Da allora, l’idea che noi esseri umani temiamo la morte e desideriamo con insistenza negarla o trascenderla in vari modi è stata un motivo di spicco in letteratura, negli scritti religiosi e in filosofia. Schopenhauer infatti proclamò la morte quale musa della filosofia; qui noi non saremmo in grado nemmeno di iniziare a esaminare il ruolo che ha avuto nel pensiero filosofico. Tuttavia dovremmo prendere atto che la prima persona a mettere insieme i punti essenziali della TMT sembra essere stato il celebre storico greco Tucidide.

Intorno al 400 a.C., Tucidide si concentrò sullo studio dei violenti conflitti tra gruppi che afflissero l’Antica Grecia. Lo storico suggerì che il terrore della morte ineluttabile avesse spinto la popolazione a cercare l’immortalità attraverso tre vie: tramite azioni eroiche e nobili in grado di ripristinare la giustizia, cosa che li ricompensava con una vita nell’aldilà conferita dal divino; attraverso le memorie delle proprie gesta eroiche; e, ancora, attraverso l’identificazione con la morte che oltrepassava le identificazioni di gruppo. Come scrisse Ahrensdorf (2000: 591): «Tucidide sostiene che cercheranno di fuggire dominando in qualche modo la propria condizione mortale, vivendo dopo la morte, o attraverso le loro città, o attraverso la loro gloria, o in un aldilà – e ottenendo il favore divino attraverso la violente conferma della propria nobiltà o pietà, o giustizia». Tucidide inoltre mette in luce che l’importanza crescente della mortalità, una volta che i conflitti cominciano, intensifichi il desiderio di sconfiggere eroicamente il nemico.

Facendo un balzo in avanti di circa 2000 anni, sino alla moderna tradizione letteraria inglese, da Shakespeare a Wordsworth, Keats e Shelley, a Dickinson ed Emerson, tra i tanti, i poeti, hanno riconosciuto il ruolo attivo della paura della morte e del desiderio di fuggirla all’interno della psiche umana. In modo analogo, romanzieri come Swift, Dickens, Dostoevskij e Tolstoj, e scrittori del XX secolo quali James Baldwin, Don DeLillo, James Joyce, Philip Roth, Milan Kundera e Kurt Vonnegut hanno analizzato come la paura della morte conduca a svariate tipologie di comportamento umano. Qui di seguito, Baldwin realizza un quadro coinciso dell’essenza della TMT: «La vita è tragica semplicemente poiché la Terra ruota e il sole sorge e tramonta inesorabilmente, e un giorno, per ognuno di noi, il sole tramonterà per l’ultima, l’ultima volta. Forse l’intera causa dei nostri guai, il guaio umano, consiste nel fatto che sacrificheremo tutta la bellezza delle nostre vite, ci imprigioneremo all’interno di totem, tabù, croci, sacrifici di sangue, campanili, moschee, razze, eserciti, bandiere, nazioni, al solo scopo di negare la realtà della morte, che è l’unica certezza che abbiamo» (James Baldwin, The Fire Next Time, 1963).

Fotogramma dal documentario ‘Wild Wild Country’ sulla comunità ‘Rajneeshpuram’ in Oregon, 2018.

La consapevolezza del ruolo attivo della morte all’interno della psiche umana non è materia riservata solo ai grandi filosofi, poeti e romanzieri, ma si può trovare ampiamente anche nell’arte visiva (per esempio, Van Gogh e Klimt), nella musica (Schubert e Mahler) e nei film (si pensi a Woody Allen e Ingmar Bergman). Tale consapevolezza non è circoscritta ai rappresentanti della “cultura alta”, ma è anzi sempre più diffusa anche all’interno della cultura pop contemporanea. Mentre scrivevamo questo capitolo all’inizio del 2009, due film, Il curioso caso di Benjamin Button, ispirato a Fitzgerald e girato da David Fincher, e The Spirit, di Frank Miller, ispirato all’omonimo fumetto, così come il secondo episodio del 2009 della sitcom Scrubs, si sono focalizzati esattamente sull’aspetto psicologico del problema della mortalità.

La presenza di tale argomento all’interno di così tanti prodotti della cultura occidentale rende ancora più interessante la constatazione che nei testi di psicologia sociale degli anni ’80 non vi fosse alcun accenno alla morte e che la TMT venisse trattata dalla maggior parte degli studiosi del settore come bizzarra e irrilevante per comprendere il comportamento sociale dell’essere umano.

Come notavo poco più su, la TMT è stata formalizzata attraverso i tre volumi di Becker, The Birth and Death of Meaning, Il rifiuto della morte ed Escape from Evil. Tali scritti mescolano visioni di antropologia, biologia evoluzionistica, filosofia, psicoanalisi e sociologia. Invitiamo chiunque sia interessato alla comprensione del comportamento umano a leggerli.

Al tempo in cui Becker stava definendo la propria sintesi, la filosofa evoluzionista Susanne Langer e lo storico psicoanalitico Robert Jay Lifton stavano per giungere alle medesime conclusioni, e poco dopo, nel 1980, li seguì lo psicoterapeuta esistenzialista Irvin Yalom. Le principali influenze dell’analisi di Becker derivarono da Kierkegaard, William James, Freud, Gregory Zilboorg, Erving Goffman, Norman Brown e soprattutto Otto Rank. In psicologia Rank, seguace di Freud e incredibile erudito interdisciplinare degli anni ’30, assegnò per primo un ruolo centrale alla paura della morte e al desiderio di immortalità per la cultura umana e i comportamenti sociali. Sistematizzando tali idee psicodinamiche esistenziali all’interno di un coerente quadro esplicativo, la TMT integra gran parte di ciò che conosciamo sul comportamento umano e fornisce una fertile base per produrre un’ampia serie di ipotesi verificabili. La ricerca sulla TMT ha ispirato a sua volta utili sviluppi e miglioramenti della teoria.

 

Altan, vignetta.

I fondamenti della TMT

La TMT comincia da due semplici osservazioni: la prima è che gli esseri umani sono animali dotati di diversi sistemi progettati per tenerli in vita, compresa la reazione di “attacco o fuga” alle incombenti minacce alla propria esistenza. La seconda è che le capacità cognitive degli esseri umani hanno portato alla consapevolezza che la morte sia inevitabile e che potrebbe sopraggiungere in qualsiasi momento per molteplici cause potenziali. La teoria postula che, in un animale strutturato per evitare la morte, tale cognizione generi un potenziale perennemente presente di forte ansia, o di terrore, che deve essere continuamente gestito. Il terrore è tenuto sotto controllo tramite il sostegno di una fede in una visione del mondo e di se stessi che rifiuti la natura incerta e fugace della propria sopravvivenza.

Le visioni culturali del mondo sono state modellate a servizio di tale funzione dall’antichità sino ai giorni nostri. Presumibilmente vi fu un momento nella storia in cui la corteccia celebrale della nostra specie divenne abbastanza sviluppata da fornire consapevolezza di sé e la capacità di pensare in termini di passato, presente e futuro. Tali abilità cognitive, perlopiù adattive, condussero inoltre alla consapevolezza della mortalità. Sebbene la paura in risposta a un pericolo imminente sia spesso adattiva, non lo sarebbe invece l’ansia incessante per la fragilità della sopravvivenza e per la sua inevitabile fine.

A questo punto, i nostri antenati costruirono – e furono attratti da – comuni concezioni della realtà che placarono in modo più efficace il potenziale timore suscitato dalla consapevolezza della nostra vulnerabilità e mortalità. Tali visioni culturali del mondo permeano la realtà esterna di ordine, stabilità, significato e scopo, e offrono modalità attraverso cui la gente riesce a credere di poter resistere alla morte, sia letteralmente, attraverso un’anima immortale, sia simbolicamente, attraverso una morte che trascende l’identità, o ancora, per la maggior parte di queste visioni del mondo, in entrambi i modi.

DeSymbol, Vignetta.

Al livello più profondo, tutte le visioni culturali del mondo consentono agli individui di sopravvivere alle proprie vite, principalmente attraverso una concezione della realtà per cui considerano se stessi quali esseri simbolici o spirituali che vivono all’interno di un mondo pregno di significato, piuttosto che come meri animali transitori destinati solamente all’oblio dopo la morte. Il contenuto della coscienza è infatti strutturato dalla visione culturale del mondo in cui è cresciuto l’individuo. Pensiamo in termini di nomi, date, mesi, giorni della settimana, ore, minuti, ruoli sociali e categorie. Ma in fin dei conti tutte queste cose non sono altro che una complessa messa in scena in grado di fornire una struttura artificiosa e perlopiù arbitraria a una continua esperienza soggettiva di sensazioni e impressioni uniche che ha inizio con la nascita e termina con la morte. A domande come «Chi sei?», «Dove sei?», «Che ora è?» si può rispondere solo rivolgendosi a costrutti creati culturalmente.

In che modo gli individui si integrano in una visione culturale del mondo in grado di fornire loro l’essenziale sicurezza psicologica?

Dal punto di vista dello sviluppo, il neonato umano è la creatura più indifesa e dipendente tra tutte. Ed è anche una creatura fortemente stressata dal momento che, come ha osservato Rank (1932/1989), è stata concepita e sviluppata in connessione con la propria madre e poi, durante la nascita, di colpo e brutalmente divisa dalla sua calda dimora, l’utero. Dalla messa al mondo alle prime parole pronunciate dalle labbra dei genitori, il bambino comincia a essere introdotto nella visione culturale del mondo predominante. Nel corso dell’infanzia, l’unico fondamento di sicurezza psicologica per queste indifese creature è costituito dalla cura e dall’amore dei genitori, che forniscono conoscenza, comfort, nutrimento e protezione.

Non appena i genitori cominciano a richiedere al bambino alcune specifiche azioni per mantenere il loro amore e la loro approvazione, il bambino capisce che, quando farà le cose giuste, nel mondo andrà tutto bene, mentre quando farà le cose sbagliate si scatenerà l’inferno. Al fine di mantenere la sicurezza psicologica dell’amore dei genitori, il bambino interiorizza i valori genitoriali di buono e cattivo, e prova a essere all’altezza di ciò che è considerato buono, nonostante la violazione dei desideri e delle necessità naturali che ciò comporta. Per i piccoli buoni di cinque anni seduti sul grembo materno, va tutto bene nel mondo. Per i piccoli cattivi di cinque anni che hanno appena forato uno dei nuovi altoparlanti di papà con un soldatino volante, il mondo è appena diventato un luogo spaventoso. È in questo modo che il bambino arriva ad associare il sentirsi al sicuro con l’essere buoni e apprezzati, mentre l’essere cattivi e privi di alcun valore con la paura. L’autostima, quella sensazione di sentirsi eccezionali, assolve in questo modo a una funzione di tamponamento dell’ansia.

Meme da internet riferito a un personaggio e a una battuta del film ‘Pirati dei Caraibi’.

La trama si infittisce nel momento in cui lo sviluppo cognitivo del bambino lo conduce a comprendere che le cose di cui prova timore – il buio, i mostri, i fantasmi, i cani di grossa taglia – mettono a rischio la sua stessa esistenza, e che i genitori possiedono dei limiti e che non sono sempre in grado di proteggerlo da tutto. Parallelamente a tali epifanie, il fondamento della sicurezza del bambino si sposta gradualmente verso sorgenti più ampie e potenti, divinità, capi di stato e, in generale, verso la cultura. Questo momento di passaggio è agevolato dal fatto che i genitori hanno inculcato nel bambino una più ampia visione del mondo, comprese le basi di sicurezza psicologica proprie del genitore, nel corso dell’educazione del bambino.

Pertanto, dopo l’infanzia, la sicurezza psicologica comincia a fondarsi sull’essere un buon cristiano, un buon americano e via discorrendo, e sul dimostrare valore all’interno del contesto del particolare modello di visione culturale del mondo interiorizzato dell’individuo. Il senso di tale valore durevole non si ricollega soltanto in modo implicito all’incolumità e alla sicurezza, ma anche in forma esplicita all’immortalità letterale del paradiso e all’immortalità simbolica di essere parte di entità che trascendono la morte, come per esempio la stirpe e la nazione, e le ultime conquiste culturali nella scienza, nella politica e nelle arti. In questi modi, l’individuo influente all’interno della società può considerarsi come parte immortale di una realtà duratura.

 

Schema delle difese provocate dal terrore della morte, dall’articolo di Karl Mc Dorman ‘Androids as an Experimental Apparatus: why is there an uncanny valley and can we exploit it’.

Sintesi della TMT e delle sue principali ripercussioni

In sintesi, la semplice formula di un’efficace gestione del terrore è la fede, in un senso che dia una visione culturale del mondo e la convinzione di essere un prezioso collaboratore all’interno di questa realtà pregna di significato (la concettualizzazione dell’autostima a cui arriva la TMT). In un primo momento abbiamo ricavato dalla teoria due ripercussioni fondamentali (Solomon et al., 1991). In primo luogo, l’autostima e la visione del mondo su cui si basa assolvono a un’essenziale funzione di tamponamento dell’ansia. Le persone dunque difendono e si battono per l’autostima al servizio della sicurezza psicologica, e tali sforzi dipendono dalla specifica visione culturale del mondo a cui aderisce l’individuo. In secondo luogo, dal momento che tali costrutti si configurano essenzialmente come fragili strutture sociali, le persone reagiranno in modo negativo a tutto ciò o a tutti coloro che metteranno a rischio la fiducia nelle proprie visioni del mondo o nella propria autostima. Riteniamo che ciò fornisca una spiegazione alquanto basilare del pregiudizio e dei conflitti tra gruppi. Gli individui che criticano una visione del mondo diversa dalla propria, o che semplicemente aderiscono a una visione del mondo assai differente da quella altrui, mettono in discussione la validità dei fondamenti della propria sicurezza psicologica.

La TMT ipotizza pertanto che le persone così diverse siano intrinsecamente minacciose e siano quindi affrontate attraverso quattro sistemi di difesa. Il primo, il più diffuso, è la deroga. Se questi individui sono ignoranti o malvagi, di conseguenza il loro alternativo sistema di credenze potrà essere respinto. Il secondo è l’assimilazione. Se questa gente si sbaglia, potrò allora aiutarla a vedere la luce, cosa che mi convincerà ancor più che il mio modo di vedere sia quello giusto. Le attività di proselitismo rappresentano un esempio lampante di tale strategia. Il terzo è l’accomodamento, che comporta l’incorporazione degli aspetti più interessanti del punto di vista alternativo nel proprio. La musica rock e quella rap, che inizialmente esprimevano rabbia e un senso di sfida verso la cultura mainstream americana, hanno perso la propria natura intimidatoria nel momento in cui sono state riutilizzate come musica per ambienti o per vendere hamburger nei fast food. In ultimo vi è lo sterminio. Se uno dei due punti di vista è giusto e l’altro sbagliato, allora è il proprio a dover prevalere. […] Da questo filone di ricerca è emerso un modello di gestione del terrore fondato su un duplice processo. Gli espliciti pensieri di morte incitano le difese prossimali dirette a rimuovere i pensieri legati alla morte dall’attenzione focale attiva. Tali meccanismi “pseudo-razionali” fanno apparire la morte un problema lontano, consentendo così all’individuo di smettere di pensarci. Tuttavia, dopo che i pensieri di morte sono stati rimossi dall’attenzione focale, la propensione al pensiero della morte aumenta, rafforzando la possibilità di provare ansia correlata alla morte. A sua volta ciò incita difese distali simboliche, come per esempio la tendenza a sostenere la propria visione del mondo o l’autostima. Tali difese di gestione del terrore riportano la propensione al pensiero della morte ai livelli di base.

 

Immagine dal contenuto motivazionale dallo stile molto comune sul web.

Riepilogo

Originariamente la TMT è stata sviluppata per spiegare due fatti dell’esperienza umana, ossia che la gente ha grandi difficoltà ad andare d’accordo con chi è diverso, e che gli individui hanno un acuto bisogno di sentirsi bene con se stessi. Le ricerche dimostrano che entrambe queste propensioni siano elementi del sistema tramite cui le persone si proteggono da una ben radicata paura della morte.

Gli studi hanno inoltre sostenuto un modello di duplice processo di difesa causato dai memento mori. Su tali basi, la teoria ha guidato la ricerca su una varietà di aspetti dell’esperienza umana, molti più di quanto si fosse previsto in quel giorno nevoso nello Utah.

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Autori
  • Arndt Jamie
    Arndt Jamie è uno ricercatore e psicologo sociale, insegna al dipartimento di psicologia dell’Università del Missuri. Ha pubblicato insieme a Jeff Greenberg, Toni Schmader e Mark Landau Social Psychology: The Science of Everyday Life (2018). La sua ricerca prosegue la linea esistenziale che caratterizza autori come Otto Rank e Ernest Becker. Ha esaminato argomenti quali aggressività, pregiudizio, stereotipi, giudizi politici, processi di autostima, depressione, motivazioni del consumatore, attaccamento parentale e interpersonale, consapevolezza di sé, identificazione culturale e disidentificazione e il panorama psicologico della nostalgia.
  • Jeff Greenberg
    Jeff Greenberg è professore di psicologia sociale presso l'Università dell'Arizona. È noto per aver coniato il concetto di teoria della gestione del terrore, con due dei suoi colleghi, Sheldon Solomon e Tom Pyszczynski. Jeff Greenberg è anche presente nel documentario del Flight From Death (2003) un film che indaga sulla relazione tra la violenza umana e la paura della morte, in relazione alle influenze subconscie. La sua ricerca indaga la relazione come la consapevolezza esistenziale individuale influisca sul benessere e sullo sviluppo di comportamenti sociali.