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La morte dell’eroe come conseguenza della cultura di massa e delle psicosi collettive
Magazine, MORIRE – Part I - Gennaio 2018
Tempo di lettura: 19 min
Carolina Gestri

La morte dell’eroe come conseguenza della cultura di massa e delle psicosi collettive

Una riflessione sugli intenti della curatrice della prossima Biennale di Berlino attraverso le visioni post-apocalittiche e distopiche di George Miller, gli scritti di Umberto Eco e le teorie sulla smaterializzazione dell’eroe di Hito Steyerl e Franco Bifo Berardi.

MAD Magazine redisegned Super Heroes, www.funcage.com.

 

«We are the children, the last generation
We are the ones they left behind
And I wonder when we are ever gonna change?
Living under the fear, till nothing else remains
We don’t need another hero,
We don’t need to know the way home
All we want is life beyond the Thunderdome
[…]
And I wonder when we are ever gonna change?
Living under the fear, till nothing else remains.
All the children say,
We don’t need another hero».

«Fake news is a convenient scapegoat, but the big 2016 problem was the real news», www.vox.com

A pochi giorni dalle elezioni politiche italiane le frasi della canzone di Tina Turner, We Do not Need Another Hero (1985), sembrano racchiudere la paura e la sfiducia della nostra generazione nei confronti di un futuro migliore, della classe dirigente, della veridicità delle informazioni veicolate dai media. #Brexit, #Trumpgate, #fakenews hanno reso il dibattito politico più instabile che mai. Segnali di allarme di una democrazia debole e ingenua. Già nel maggio 2016, prima dell’uscita della Gran Bretagna dall’Europa e dell’ascesa al potere di Donald Trump, sul «Washington Post» è stato pubblicato un articolo che ha destato molto scalpore: We must weed out ignorant Americans from the electorate. Spiega l’autore David Harsanyi: «Eliminando i milioni di elettori irresponsabili che non si prendono il disturbo di imparare i meccanismi più basilari della Costituzione, o le proposte e la storia del loro candidato preferito, forse potremmo riuscire ad attenuare le conseguenze della sconsideratezza del loro voto […]. Se non hai la minima idea di ciò che ti sta intorno, hai anche il dovere civile di non soggiogare il resto di noi alla tua ignoranza».

La discesa in caduta libera della democrazia in realtà era già stata avvertita alcuni decenni fa dal politologo statunitense Francis Fukuyama. Non solo Harsanyi si è manifestato contrario al suffragio universale. In un articolo pubblicato recentemente su «The Vision» si legge: «Che la democrazia sia in crisi, è oggettivo. Francis Fukuyama nel 1992 sottolineava come la democrazia liberale avesse raggiunto il suo apice nel XX secolo, per poi crollare in una lenta, inesorabile discesa verso gli abissi. E questa crisi è colpa un po’ di tutti: cittadini disinteressati e ignoranti, politici miopi e disonesti e media che informano poco e male. Il futuro di ogni Paese, almeno lì dove le elezioni sono libere e trasparenti, è però nelle mani del cittadino. È lui che abbocca alle bufale delle scie chimiche, è lui che condivide su Facebook l’opinione del parlamentare secondo cui la soluzione alla crisi economica è stampare più moneta, è sempre lui che inneggia alle ruspe sui campi nomadi e i centri sociali riprendendo i proclami del suo idolo in felpa verde. In definitiva, è il cittadino a scegliere».

We Don’t Need Another Hero by Tina Turner, 1985. Featured on the soundtrack of the film Mad Max Beyond Thunderdome, 1985. Words and music by Graham Lyle and Terry Britten. © 1985 WB MUSIC CORP. & GOOD-SINGLE-LTD. Courtesy: Neue Welt Musikverlag GmbH/BMG Rights Management (UK) Limited. All rights reserved. International copyright secured.

Lo stesso Umberto Eco, in un passo di Apocalittici e Integrati (1964), spiega il collegamento diretto tra diffusione dell’informazione di massa, suffragio universale e democrazia: «La cultura di massa non è tipica di un regime capitalistico. Nasce in una società in cui tutta la massa di cittadini si trova a partecipare a pari diritti alla vita politica, ai consumi, alla fruizione delle comunicazioni; nasce inevitabilmente in qualsiasi società di tipo industriale. Ogni volta che un gruppo di potere, un’associazione libera, un organismo politico o economico si trova a dover comunicare alla totalità dei cittadini di un paese, prescindendo dai vari livelli intellettuali, deve ricorrere ai modi della comunicazione di massa e subisce le regole inevitabili della “adeguazione dei media”».11U. Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 2016 [1964], p. 40.

La cultura di massa è ciò che in Italia ha portato all’alfabetizzazione prima e a una dilagante analfabetizzazione digitale e funzionale22«Nelle scorse settimane è uscita la statistica secondo cui solo il 40% degli italiani ha letto almeno un libro nel 2017. Dati ancora più preoccupanti sono quelli relativi all’analfabetismo funzionale, che identifica una persona che “non è incapace di leggere ma, pur essendo in grado di capire testi molto semplici, non riesce a elaborarne e utilizzarne le informazioni”. L’Italia detiene il record da questo punto di vista, con il 70% della popolazione che è analfabeta funzionale, dunque non in grado di processare le informazioni che ha appena assorbito. A questo si aggiunge una nuova categoria, quella dell’“analfabetismo digitale”, che consiste nell’incapacità di distinguere una notizia vera da una bufala, di verificare i contenuti attraverso il più basilare dei fact checking. Non ci vuole una laurea per capire che la foto di alcuni politici ai funerali di Totò Riina è un fake, così come lo è la storia delle matite cancellabili usate per truccare il referendum del 2016. Eppure post di questo tipo ottengono ogni volta migliaia di condivisioni indignate, le persone ci credono, il risentimento supera la ragione, l’assurdità diventa normalità nel Paese dell’“invasione”, dei “35 euro al giorno ai migranti” e degli “hotel a 5 stelle mentre gli italiani dormono in strada”. Ne deriva una spirale di voto dell’inconsapevolezza che in fin dei conti non è altro che un suffragio dell’ignoranza universale. Una discesa verso gli abissi che premia quell’universo populista e fascista che proprio dalla cultura della falsità trae la sua forza. Se all’estero hanno avuto Trump e la Brexit, il primato italiano in termini di ignoranza e analfabetismo funzionale potrebbe regalarci scenari peggiori in futuro. In un contesto di questo tipo, è legittimo porsi delle domande sul valore della democrazia oggi. L’abolizione del diritto di voto universale, l’elitismo culturale, sono queste le soluzioni per uscire dalle sabbie mobili dell’ignoranza? Si tratta di misure discriminanti, escludenti, che vanno a colpire anche e soprattutto i marginali. Quindi sbagliate» (L. Mastrodonato, Contro il suffragio universale, «The Vision», 16 gennaio 2018).
poi. Psicosi collettive e morte dell’eroe sono ulteriori conseguenze.

Le parole della canzone di Tina Turner poste in apertura di questo saggio sono state riprese da Gabi Ngcobo, curatrice della prossima Berlin Biennale for Contemporary Art che ha scelto di intitolare We Do not Need Another Hero la decima edizione della manifestazione berlinese. Era quindi doverosa una premessa sui timori dell’attuale assetto geo-politico, della crisi dei mezzi d’informazione e della democrazia. Dal sito ufficiale leggiamo: «Partendo dalla posizione dell’Europa, della Germania e di Berlino come città in dialogo con il mondo, la decima Biennale di Berlino affronta gli attuali e diffusi stati di psicosi collettiva. Facendo riferimento alla canzone di Tina Turner del 1985, We Do not Need Another Hero, attingiamo da un momento direttamente precedente ai principali cambiamenti geopolitici che hanno portato svolte di regime e a nuove figure storiche. La X Biennale di Berlino non fornirà una lettura coerente delle storie, del presente, o di alcunché. Così come la canzone, anche la rassegna rifiuta il desiderio di avere un salvatore. Preferendo esplorare il potenziale politico dell’atto di autoconservazione, rifiutandosi di essere sedotto da sistemi di conoscenza inflessibili e narrazioni storiche che contribuiscono alla creazione di soggettività tossiche» (G. Ngcobo, 10th Berlin Biennale Announces Title, 9 gennaio 2018)

Le parole di Tina Turner vanno contestualizzate negli anni in cui sono state scritte. Seguono quindi due paragrafi dedicati al collegamento tra il testo della canzone, la psicosi di massa e la smaterializzazione dell’eroe.

 

TIME Magazine Cover: Salt II Debate, May 21, 1979.

“We Do not Need Another Hero” e “Mad Max Beyond Thunderdome”: psicosi collettiva e la paura di un olocausto nucleare

Per poter capire il collegamento tra We Do not Need Another Hero e la psicosi collettiva è necessario ricordare che la canzone viene incisa nell’anno in cui termina la Guerra Fredda tra USA e URSS ed è parte della colonna sonora del terzo capitolo della saga di Mad Max del regista George Miller. Il film è ambientato in un mondo post-apocalittico, in un futuro distopico che segue una guerra nucleare. Nel videoclip di Tina Turner un gruppo di bambini, presenti anche nel film, invoca una preghiera, cerca risposte tra le rovine di una civiltà che è stata distrutta dalle sue stesse mani.

La saga di Miller (1979-1985) nasce come risposta alla paura collettiva sorta a seguito della diffusione di alcuni studi realizzati nel 1979 che illustrano le conseguenze di una bomba nucleare di media potenza nel centro della città di Detroit.33C. Cordella, Il sogno di Lalah: Animanga e utopismi, Delos Digital, 2017.
 I risultati sono a dir poco allarmanti: più di 100.000 persone (la metà dei cittadini di Detroit) sarebbero morte all’istante. Lo studio si basa sul calcolo dell’effetto esplosivo di una bomba da 1 megatone. Le due superpotenze sono in possesso di munizioni da 5.000 megatoni.44Cf. F. Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Einaudi, Torino 2009.
 Il risultato di un attacco simile sarebbe disastroso, poco lontano dalla visione cinematrografica di Miller. Mad Max, insieme a The Day AfterWargames e altre produzioni letterarie formalizzano queste paure in racconti e film.

 

L’eroe mediatico: «Ronald Reagan was the American hero when the nation need it most»

Secondo alcuni storici e giornalisti gli Stati Uniti superano la psicosi collettiva di un olocausto nucleare grazie a Ronald Reagan: il quarantesimo presidente degli Stati Uniti, successore di Carter, protagonista della seconda fase della Guerra Fredda e paladino conservatore dei valori dell’American Dream.

The Day After – Il giorno dopo, film per la televisione statunitense scritto da Edward Hume e diretto da Nicholas Meyer messo in onda per la prima volta il 20 novembre 1983. Fonte: Wikipedia

Le nuove generazioni vedono in lui un eroe nazionale. Proprio nell’anno in cui esce We Do not Need Another Hero, «U.S. News and World Report» pubblica i risultati di un sondaggio realizzato su alcuni ragazzi, tra i 18 e i 24 anni, a cui è chiesto chi sia il loro eroe del momento. Il podio è formato da Clint Eastwood, seguito da Eddie Murphy e Ronald Reagan.55S. J. Drucker, R. S. Cathcart, American Heroes in a Media Age, Hampton Press Communication Series, 1994, p. 21.
 Compaiono anche Jane Fonda, Sally Field, Steven Spielberg, Giovanni Paolo II, Madre Teresa di Calcutta e Tina Turner. La classifica degli eroi giovanili viene successivamente pubblicata in un interessante volume intitolato American Heroes in a Media Age di Susan J. Drucker e Robert S. Cathcart. Il libro, datato 1994, suggerisce un curioso parallelismo tra Reagan e Trump: «Ciò che ha isolato sia Trump che Reagan dalle critiche negative è stato il modo in cui entrambi hanno coltivato e controllato i media per assicurare una copertura incessante e uniformemente favorevole».66Ivi, p. 191.

In un’intervista rilasciata a «Times Out», il regista di Mad Max spiega qual è il volto dell’eroe rinnegato dai bambini che appaiono nel film e nel video di Tina Turner, aiutandoci a guardare alla posizione di Reagan con lo sguardo di una persona che ha vissuto il suo governo: «Non volevamo cadere nel cliché del cattivo ragazzo [con Mad Max]. Esiste un detto: “Il tiranno di oggi è l’eroe di ieri”. E se fai caso al ritmo con cui accadono le cose spesso è davvero così. Tu hai degli eroi politici, per esempio… ma se torni al senso classico, la definizione di eroe, per quanto possiamo decidere, è che si tratta di agenti dell’evoluzione. Sono i personaggi con cui il mondo cambia seguendo un nuovo ordine, di solito in meglio. Sono gli agenti dell’evoluzione. E sono semplicemente questo. Se creano un nuovo ordine e amano troppo quel mondo, allora diventano ciò che potresti chiamare fermamente holdfast (questa è tutta materia di Joseph Campbell, che penso sia di gran lunga il miglior scrittore di mitologia). Diventano ostinati, amano troppo il loro mondo e vogliono tener duro, e non permetteranno una prossima evoluzione naturale, il cambiamento naturale. [Il mondo] sta diventando sempre più fragile ed è destinato a cambiare».77A. Billson, George Miller talks about Mad Max, Heroes & Tina Turner: the 1985, 12 maggio 2015.

Reagan è un eroe. Non un eroe nazionale, ma un eroe mediatico protetto e diffuso dai media. L’eroe, nel 1985, non è più dunque quello letterario, ma è un protagonista di copertine, film e TV. Un mito costruito dai media in grado di catturare e influenzare l’opinione pubblica.

 

Reagan’s Raiders issue#1, 1986. Ronald Reagan, George Bush, and other members of the Reagan White House become super-powered, G.I. Joe-like commandos and battle terrorists. Must be seen to be believed. Written by Monroe Arnold, with art by Rich Buckler and Dick Ayers. Mature readers.

Dalla morte dell’eroe epico alla smaterializzazione dell’eroe (1949-1977)

L’eroe è spesso inteso come un personaggio in grado di rappresentare e personificare le peculiarità e i princìpi di un’intera nazione, società e i bisogni dettati da un determinato momento storico. Così come il sogno, anche il mito è la ricostruzione per immagini, grafiche o letterarie, di una collettività. A tal proposito Stefano Jossa, autore di Un paese senza eroi, spiega come la costruzione immaginifica di un’identità nazionale non possa essere indipendente dalla produzione letteraria del suo paese: «L’assunto di partenza è che la letteratura formi l’immaginario collettivo più di qualsiasi altro medium culturale a causa del suo primato nell’educazione: primato che precede l’istituzione della scuola unitaria e resiste all’attacco di altri media più diffusi e popolari per il fatto che attraverso la letteratura si è esercitata una pedagogia pubblica che le dà un prestigio e un potere senza pari sul piano della formazione della nazione. […] L’ipotesi di partenza è che i loro studi abbiano formato l’opinione accademica, da cui è discesa l’opinione scolastica, con le sue ricadute sull’opinione pubblica e l’immaginario collettivo».88S. Jossa, Un paese senza eroi. L’Italia da Jacopo Ortis a Montalbano, Laterza, Bari 2013.

I romanzi, i fumetti didattici,99Il fumetto entra nelle case degli italiani nel 1908, nel momento in cui esce un nuovo prodotto editoriale nelle edicole, «Il Corriere dei Piccoli», un quotidiano per bambini finalizzato all’alfabetizzazione grazie all’idea di lettura collettiva tra genitore e figlio. Nasce così il «fumetto didattico», uno strumento di studio accessibile, misurato nella grafica e nell’apparato testuale per essere comprensibile, divertente e curioso per il bambino. Un materiale alla portata di tutti in grado di stimolare l’autoapprendimento, al di fuori delle istituzioni scolastiche, per cui giovani e adulti possano iniziare a discutere alla pari su eventi di attualità e personaggi noti (G. Marrone, Il fumetto fra pedagogia e racconto. Manuale di didattica dei comics a scuola e in biblioteca, Tunuè, 2005, pp. 45-47). Viste le proprietà educative di questi giornali, non è un caso che durante il ventennio fascista vi sia stata una sovrapproduzione di fumetti per ragazzi in cui gli eroi in copertina erano personaggi che portavano avanti idee e virtù del partito nazionalsocialista. I fumetti come mezzo di propaganda politica. Riprendendo la lista di quegli eroi “zoppi” della letteratura italiana non ci meraviglierà trovare un Pinocchio ancora in fase burattino che, bloccato in un status di giovane balilla, combatte con manganello, olio di ricino e revolver. Quello stesso pezzo di legno, consegnato nelle vecchie mani di Geppetto dopo essere stato abbandonato da Mastro Ciliegia, si trasforma tra gli anni ’20 e ’40 in uno squadrista che diffonde ideali fascisti ai giovani lettori dell’epoca. Durante gli anni della dittatura i fumetti che circolavano erano solo italiani: ciò che arrivava dagli Stati Uniti era soggetto a censura. Le comic strips in cui un superuomo era in grado di sconfiggere il Male da solo, senza l’aiuto delle autorità legittimate dallo Stato, non venivano importate. Gli eroi dei fumetti per ragazzi erano personaggi della letteratura risorgimentale, trasformati in patriottici eroi votati al Fascio (Cf. L. Currei, Pinocchio in camicia nera. Quattro pinocchiate fasciste, Nerosubianco (Le drizze), 2008).
 le antologie e i sussidiari sicuramente alimentano i sogni e influenzato le scelte di giovani generazioni, ma solo fino a un preciso periodo storico.

 

1949: L’eroe dai mille volti

La guerra fredda tra USA e URSS è già iniziata da due anni – così come le operazioni del Piano Marshall –, l’Italia è già stata proclamata Repubblica e anche le donne hanno finalmente diritto al voto (1946). Sono gli anni che sanciscono la nascita della cosiddetta «cultura di massa». Joseph Campbell, mitologo e storico delle religioni, pubblica un libro destinato a diventare un classico:1010J. Campbell, L’eroe dai mille volti, Lindau, 2016 [1949].
 L’eroe dai Mille Volti. Campbell è il primo a parlare della morte dell’eroe mitologico, o meglio della sua sparizione a seguito del sopravvento dei media, e la cosa interessante è che collega tale avvenimento a più fattori: la democrazia, la scienza moderna e la rivoluzione industriale.1111Drucker, Cathcart, cit., p. 18.
 Che cosa accade all’eroe in questo periodo per far sì che s’interrompa la struttura del «monomito»? L’aumento della diffusione delle informazioni, conseguente alla nascita della democrazia, della relativa cultura di massa e della televisione, ha fatto sì che la memoria collettiva non dovesse più limitarsi solo a pochi racconti accomunati da una tradizionale struttura narrativa (viaggio-rifiuto della chiamata-aiuto soprannaturale-ritorno-soluzione del problema), il monomito appunto. C’è spazio per storie reali, in cui l’eroe è un personaggio del presente, non un supereroe. Prima l’eroe era qualcuno riconosciuto per le sue virtù solo a seguito della propria morte, per essere stato in grado di risollevare il proprio paese. Dal secondo dopoguerra la parola ‘eroe’ viene invece affiancata pian piano a chiunque, a patto che sia sostenuto dalla voce dei media. Siamo nel ’49 e con il boom economico tutto ciò viene amplificato.

Mike Bongiorno, Spot anni ’80.

 

«Quando le favole mettono la divisa, vuol dire che ogni momento dell’immaginario deve essere colonizzato e per tempo; se spesso la produzione per l’infanzia è territorio ideologico, alcune epoche hanno più crudelmente inciso in questo ambito. Il giovane burattino-squadrista spiega il nuovo regime al padre Geppetto, che seppure può vantare trascorsi garibaldini, a dire il vero è non poco stonato dall’età o dal troppo uso di alcol, e poi gli chiede in prestito una pistola caricata a sughero per andare a attaccare un gruppo di sinistra a lui inviso, che si riconosce nel diktat del “Nuovo Barbanera Bombacci”» (“Pinocchio in camicia nera. Quattro pinocchiate fasciste”, 2008 in «La voce della critica»)

1957-1963: Da Superman all’Everyman

«La situazione nuova in cui si pone al riguardo la TV è questa: la TV non offre, come ideale in cui immedesimarsi, il superman, ma l’everyman. La TV presenta come ideale l’uomo assolutamente medio. […] Ora, nel campo dei fenomeni quantitativi, la media rap presenta appunto un termine di mezzo, e per chi non vi si è ancora uniformato, essa rappresenta un traguardo».1212Cf. S. A., Umberto Eco e la fenomenologia di Mike Bongiorno: in un saggio ne fece l’icona dell’Italia del boom, «Rainews», 20 febbraio 2016; G. Genna, Il Miserabile su Vanity Fair: Mike fa la fenomenologia di Eco, «Vanity Fair», 16 settembre 2009.

(U. Eco, Fenomenologia d Mike Bongiorno, 1963)

Adesso la speranza della massa è di raggiungere uno status di mediocrità, attraverso l’acquisizione di oggetti di consumo. Tutti uguali, allo stesso livello, né più né meno. Per questo, in Italia, Mike Bongiorno, o meglio il suo personaggio, diventa l’idolo delle folle e l’eroe nazionale: «Il caso più vistoso di riduzione del superman all’everyman lo abbiamo in Italia nella figura di Mike Bongiorno e nella storia della sua fortuna. Idolatrato da milioni di persone, quest’uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta unita (questa è l’unica virtù che egli possiede in grado eccedente) a un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica: sembra quasi che egli si venda per quello che è e che quello che è sia tale da non porre in stato di inferiorità nessuno spettatore, neppure il più sprovveduto. Lo spettatore vede glorificato e insignito ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti. […] Mike Bongiorno convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo. Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti)».

Statua di Mike Bongiorno, Sanremo. Fonte: Instagram.

Mike Bongiorno è il ritratto perfetto dell’eroe desiderato dal popolo durante la democrazia. Quella stessa democrazia che ha portato la televisione e la pubblicità di Carosello (1957-1977) nelle case degli italiani e che ha provocato la nascita della cultura di massa.

 

The Stranglers, No More Heroes, 1977, cover.

1977: La dissolvenza dell’eroe nell’epoca della digitalizzazione

«Nella tradizione classica, l’eroe appartiene alla sfera dell’immaginazione, separata dalla tragedia e dalla lirica. L’eroe è uno che sottomette la Natura e domina gli eventi della storia con la forza di volontà e il coraggio. Fonda città e tiene lontane le forze demoniache del caos. […] La forma epica dell’eroismo è scomparsa verso la fine della modernità, quando la complessità e la velocità degli eventi umani hanno soverchiato la forza e la volontà. Quando il caos prevale l’eroismo epico è sostituito da grandi macchine di simulazione. […] Le origini della forma più moderna di tragedia stanno qui: sulla soglia le illusioni sono scambiate per realtà».1313F. Bifo Berardi, Heroes. Suicidio e omicidi di massa, Baldini&Castoldi, Milano 2015.

Il 1977 è l’anno che in ambito artistico sancisce la nascita del Postmodernismo e l’affermazione della metodologia appropriazionista, grazie alla mostra Pictures (Immagini) organizzata da Douglas Crimp.

In Italia, il ’77 giunge al culmine dell’orrore a causa degli attacchi terroristici diffusi nei cosiddetti anni di piombo. In quell’anno il ritmo delle azioni dei brigatisti aumenta vertiginosamente. Per Hito Steyerl e Franco Bifo Berardi è l’inizio di una nuova era, quella digitale, in cui realtà e finzione cominciano a confondersi e il nichilismo diventa “di massa”. Due sono i videoclip e le canzoni che celebrano questo nuovo inizio, tutt’altro che positivo: Heroes di David Bowie e No More Heroes dei The Strangles: «Bowie canta di un nuovo tipo di eroe, pronto per la trasformazione digitale del mondo. L’eroe è morto, lunga vita all’eroe. L’eroe di Bowie non è più un soggetto, ma un oggetto: una cosa, un’immagine, uno splendido feticcio. Guardate il videoclip che accompagna la canzone e capirete perché: il video mostra Bowie che canta a se stesso da tre angoli contemporaneamente, con tecniche di montaggio che triplicano la sua immagine: non solo l’eroe di Bowie è clonato, è diventato un’immagine riproducibile, moltiplicata, copiata, un’onda che viaggia senza fatica attraverso ogni genere di pubblicità, un feticcio che impacchetta un look postgender, glamour e imperturbabile. L’eroe di Bowie non è più un essere umano che si esprime con esplosioni sensazionali, non è neppure un’icona, ma un prodotto luminoso dotato di bellezza postumana: un’immagine e null’altro che un’immagine. La sua immortalità non nasce più dalla forza di sopravvivere a ogni possibile prova, ma dalla sua capacità di essere riciclato, reincarnato in Xerox-copia. La distruzione può alterare la sua forma ma la sua sostanza rimarrà intatta. L’immortalità della cosa è la sua finitezza, non la sua eternità. Nel 1977 la band punk The Strangles produce un’analisi chiarissima della situazione gridando ciò che è ovvio: l’eroismo è finito. Trotsky, Lenin e Shakespeare sono morti. Nel 1977 i ribelli si affollano ai funerali dei membri della RAF, Andreas Baader, Gudrum Ensslin, Jan Carl Raspe. La copertina del disco degli Strangles dichiara con giganteschi garofani rossi: NO MORE HEROES. Mai più».1414H. Steyerl, A Thing Like You and Me, «e-flux», aprile 2010. Questa traduzione è un estratto del testo pubblicato successivamente H. Steyerl (a cura di), The Wretched of the Screen, Sternberg Press, 2012, ed è stata utilizzata da Franco Bifo Berardi per introdurre il suo libro Heroes. Suicidio e omicidi di massa.

Steyerl conclude il suo testo creando un collegamento tra il video di Bowie, che nella sua analisi sembra ricondurre all’«estetica del narcisismo» di Rosalind Krauss (R. Krauss, Video: The Aesthetics of Narcissism, 1976), e un film uscito nel 2004. È il paragone a far capire come nel corso di tre decenni la smaterializzazione dell’eroe si sia acuita a tal punto da far sì che anche l’icona dell’eroe sia ridotta nel suo valore. Nel film Raspberry Reich del regista porno-queer Bruce LaBruce, il volto di Che Guevara è rappresentato in una gigantografia a bassa risoluzione. Sono i pixel ad essere al centro dell’attenzione dell’osservatore, non più il comandante simbolo della guerriglia. I protagonisti di questo film, definito dalla critica come «satirico», sono alcuni militanti della RAF (Red Army Faction) rincarnati in attori porno. Steyerl punta l’attenzione su una scena in particolare, quella in cui dei ragazzi si masturbano davanti a quelle immagini sgranate. Il valore di quell’azione è molto emblematica: la rappresentazione dell’eroe viene violentata e umiliata: «This bunch looks much worse than David Bowie, but is much more desirable for it. Because they love the pixel, not the hero. The hero is dead. Long live the thing».1515Steyerl, cit.

M. Cattelan, Daddy, Daddy, 2008. «When I think of a sculpture, I always imagine it like that, far away, in some way already dead. It has always surprised me when people laugh at some of my art works: maybe in front of death laughter is a spontaneous reaction. MAURIZIO CATTELAN (Maurizio Cattelan in “Killing Me Softly: A Conversation with Maurizio Cattelan,” interview with Giancarlo Politi et al, Flash Art (International edition) 37, no. 237, July-September 2004, p. 92).» www.phillips.com».

 

G. Paris, Fountain, 1994. «Nel video Fountain Paris utilizza alcuni fotogrammi del film di Walt Disney del 1940 Pinocchio. (…) Pinocchio, che ci si aspetta di vedere rialzarsi qualche secondo dopo essere caduto di faccia in un fiume, rimane invece tragicamente immobile, con il viso a terra nell’acqua che scorre all’infinito. (…)» Pierre Bismuth, L’Image Voilée, a cura di Thomas Demand, Fondazione Prada, Milano.

1985-2018: «sventurato il paese che non ha bisogno di eroi»

La figura dell’eroe è sempre stata legata al concetto di comunità, di vita e di morte. L’eroe è colui che incarna l’identità di un paese. Oggi, con la perdita di questi valori, l’eroe muore definitivamente dopo essersi smaterializzato con l’avvento dei media. Ciò a cui stiamo assistendo è l’esasperazione della corrente nichilistica degli anni ’70. La vita non è più un bene da tutelare, gli atti di violenza e le uccisioni vengono trasmessi con disinvoltura. Così, molte delle paure degli anni ’80 sembrano riaffiorare. Nella prefazione di Heroes. Suicidio e omicidi di massa, Bifo Berardi cita il caso di Andreas Lubitz, il pilota ventottenne che il 4 marzo 2015 ha causato la morte di 500 passeggeri dell’Airbus Lufthansa. «Non si tratta di un attacco terroristico» precisa a ragione l’autore, «ma di un suicidio». L’aumento del numero dei suicidi registrati in Occidente negli ultimi decenni è dovuto alla nascita di uno stato di isolamento rispetto alla comunità. L’autonomia, la competizione sommate alla ricezione violenta e frenetica delle informazioni mediatiche e da un contesto “turbocapitalista” votato alla massima efficienza, hanno spinto gli individui a rinchiudersi, alimentando le proprie turbe psichiche e il desiderio di violenza nei confronti del prossimo. Alla base di eventi drammatici come quello di Lubitz, o come il massacro compiuto da James Holmes in Colorado alla prima del Cavaliere Oscuro, vi sono psicosi indotte dall’esterno che, così come il terrorismo suicida, sono da considerare come un’«epidemia psichica che si sta diffondendo nel mondo». A qualche anno di distanza dalla pubblicazione di Heroes, potremmo dire che i ragazzi che cadono nel gioco della Blue Whale rappresentano il caso estremo del suicidio di massa dovuto alla solitudine digitale

La prossima Biennale di Berlino non intende adagiarsi su una lettura pessimista e distopica del presente, ma come i bambini di Mad Max promuove una rinnovata autonomia, un nuovo attaccamento alla vita. L’analisi delle nostre psicosi può aiutarci a concepire un futuro migliore. Non abbiamo bisogno di un eroe ma di un rinnovato sentimento di comunità.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Carolina Gestri
  • Carolina Gestri è storica dell’arte, docente e curatrice. Dal 2015 è coordinatrice di VISIO – European Programme on Artists’ Moving Images, progetto di ricerca promosso dallo Schermo dell’arte strutturato in una mostra e una serie di seminari. È co-fondatrice di KABUL magazine. È docente di Fenomenologia delle arti contemporanee e di Exhibition Planning rispettivamente nei corsi di Design della comunicazione visiva di IED Firenze e di Multimedia Arts di Istituto Marangoni Firenze.
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