Antony Gormley, SLUMP II, 2019.
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La Dialettica Socio-Spaziale, da Lefebvre ai Sistemi Complessi
Magazine, CAOS - Part II - Settembre 2022
Tempo di lettura: 21 min
Nathan Mario Senise Volpe

La Dialettica Socio-Spaziale, da Lefebvre ai Sistemi Complessi

Riflessioni sullo spazio urbano, da prodotto sociale a produttore di socialità

Grazia Toderi, Atlante Rosso, 2012.

Introduzione

Nell’aprire questo piccolo contributo alla discussione sulla fine e il superamento del pensiero dicotomico all’interno delle scienze sociali, reputo opportuno presentare una breve ricostruzione delle motivazioni che hanno spinto la ricerca, e in particolare le ragioni che giustificano l’attenzione verso le forme dello sviluppo spaziale della società contemporanea. L’attenzione verso la dimensione “fisica” e “reale” dell’organizzazione sociale e le ricadute spaziali di diverse conformazioni dello Stato-nazione sono, al giorno d’oggi, temi di crescente interesse. Se da un lato le grandi organizzazioni internazionali (ONU e UE in primo luogo) e regionali hanno espresso il coerente bisogno di un’Agenda Urbana a completare lo schema di sviluppo e implementazione delle politiche sociali,11Si vedano: UN-HABITAT, The Quito Papers and the New Urban Agenda, Routledge, New York, 2018; Simonetta Armondi, The Urban Agenda for the European Union: EU Governmentality and Urban Sovereignty in New EU-City Relations?, in Simonetta Armondi, Sonia De Gregorio Hurtado (eds.), Foregrounding Urban Agendas, Springer, Berlin, 2020, pp. 3-21. Senza aprire qui il grande dibattito sul posizionamento delle città all’interno della “governamentalità” foucaultiana, riporto gli importanti contributi di Benjamin Barber, il quale ha a lungo discusso sulla capacità delle città e dei contesti urbani di assurgere a veri e propri erogatori di servizi e protettori dei diritti sociali, comunitari e ambientali. Si vedano Benjamin Barber, If Mayors Ruled The World, Yale University Press, Yale, 2013; e Benjamin Barber, Cool Cities, Yale University Press, Yale, 2017.
la recezione della prospettiva spaziale-urbana avviene con un certo ritardo rispetto alla realtà delle dinamiche sociali, oscurata dalla crisi finanziaria. Un importante passo nell’evoluzione dell’organizzazione sociale su scala globale è avvenuto però tra il 2005 e il 2010: per la prima volta nella storia dell’umanità, la popolazione delle città ha sorpassato quella rurale.22United Nations Department of Economic and Social Affairs, The World Urbanization Prospects. Highlights, 2018.
Se pertanto le argomentazioni di Geoffrey West sembrano essere ben fondate – grazie all’argomentazione per cui allo sviluppo antropologico andrebbe associata la controparte spaziale, con la conseguenza che più che di Antropocene occorrerebbe parlare di Urbanocene33Geoffrey West, Scala, Mondadori, Milano, 2018.
–, la “conversione spaziale”44Edward Soja, Postmodern Geographies, Verso, Londra, 1989.
della discussione scientifica tarda comunque ad arrivare. Personalmente, ritenendo che l’emergenza climatica abbia in sé la potenzialità di ristrutturare l’attuale paradigma a-spaziale ponendo un maggiore accento sulle questioni legate agli “ecosistemi”,55Approccio già presente in numerosi studi di matrice ecologica, come dimostrato, per esempio, dalle ricerche di William Rees, Mathis Wackernagel, Urban Ecological Footprint: Why Cities Cannot Be Sustainable – and Why They Are a Key to Sustainability, «Environmental Impact Assessment Review», 16, 1996, pp. 223-248.
credo necessario riprendere in mano le redini della riflessione ontologica ed epistemologica. Nel testo, la ridiscussione delle dicotomie spaziali e l’emergere di un approccio olistico nelle forme del paradigma complesso diventeranno quindi un volano per la ridiscussione del modo in cui non solo percepiamo lo spazio urbano-antropico a noi circostante ma, soprattutto, lo viviamo. Riassumendo, l’obiettivo di questo saggio è di fungere per i lettori da stimolo e nutriente per una futura messa in discussione dello spazio e delle pratiche sociali che in esso hanno luogo.

Dalla dicotomia urbano-rurale al concetto di tessuto urbano: lo spazio come prodotto sociale, produttore di socialità

Il ragionamento proposto è di natura metodologica, o meglio, epistemologica. La recente ondata di entusiasmo rispetto al ruolo che le città e gli ambienti urbani assolvono nel quadro più ampio della società – coinvolgendo temi quali la lotta alla povertà e al cambiamento climatico, unendo trasversalmente il politico, il sociale e l’ambiente attraverso la polisemia del “sostenibile”66Un riconoscimento fondamentale è rilevabile nella formulazione dell’Agenda Urbana da parte delle Nazioni Unite. Esito della terza conferenza transnazionale del Programma delle Nazioni Unite per gli Insediamenti Umani (UN-HABITAT 2016), l’Agenda adatta la cosiddetta prospettiva urbana per l’implementazione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals) e, in particolare, l’Obiettivo 11. Si vedano i suggerimenti bibliografici per una più ampia discussione.
– non è stata accompagnata da una ridiscussione più ampia su che cosa, precisamente, voglia dire “essere” urbano.77Si veda, per esempio, la recente formulazione da parte dei dipartimenti di statistica dell’Unione Europea di un nuovo gradiente per la rilevazione di dati socio-demografici. Il principale ancoraggio rimane quello della densità e aggregazione, quindi variamente classificati in base all’organizzazione e distribuzione di nuclei urbani e corrispettive zone di “influenza” (aree funzionali). Si rileva pertanto un’eccessiva dipendenza dalla variabile quantitativa che necessariamente condiziona lo sviluppo della riflessione urbana.
All’interno della teoria politica, la città occupa un margine, una entità “di mezzo” che non trova il suo ruolo quale “intermedio” autonomo e ricostruisce il proprio senso come sub-entità, entità sottomessa ma necessaria all’interno di un “più grande”.88Si vedano, per esempio, Yishai Blank, The City and the World, «Columbia Journal of Transnational Law», 44(868), 2006, pp. 867-931; e Gerald E. Frug, The City as a Legal Concept, «Harvard Law Review», 93(6), 1980, pp. 1057-1154.
Sono infatti gli studi economici, tanto micro, quanto macro, a evidenziare come il ruolo delle città all’interno dell’economia sia, più che fondamentale, costitutivo dell’economia capitalista moderna e contemporanea99Per una puntuale trattazione dei risvolti economici nelle agglomerazioni urbane, si veda Gerben van der Panne, Agglomeration externalities: Marshall versus Jacobs, «Journal of Evolutionary Economics», 14, 2004, pp. 593-604. L’integrazione economica delle città quali punti focali di un crescente network transnazionale trova splendida esplicazione nel libro di Saskia Sassen, The Global City, Princeton University Press, Princeton, 2001.
– e con ciò, prima o poi, il Leviatano1010Il Leviatano, figura biblica introdotta da Thomas Hobbes all’interno del vocabolario politico nel 1668 con l’omonima opera, fa riferimento alla figura dello Stato, indissolubile, unitario e, in ultima istanza, sovrano. – e che mal sopporta l’idea di attori politici ‘concorrenti’.
dovrà fare i conti. 

Uno studio sociologico sistematizzato emerse, in un primo momento, attraverso i canali degli studi economici. La scuola di Chicago, fondata da Park, Burgess e McKenzie, si approcciò allo studio delle città e della nascente metropoli quali topoi dell’“inverarsi” della società moderna, sostenuta dallo scambio economico e dalla specializzazione-diversificazione delle funzioni. Ora, lo studio socio-economico dell’ecologia urbana avanzata dai sociologi americani, per quanto rilevante, monopolizza e associa in un rigido rapporto il termine “urbano” con quello di “città”. L’esclusività del duo urbano-città ha come inevitabile conseguenza quella appunto di escludere dal campo semantico tutto ciò che si oppone all’arbitrio dell’urbano. Ne deriva quindi un ulteriore duo, in contrapposizione dialettica con il primo, quello del rurale-campagna, concetto residuale e marginale, il cui senso si percepisce e costruisce a partire dalla sua negazione contro la centralità urbana. La creazione di una tale rigida dicotomia risponde alla necessità, per i sociologi del primo ’900, di definire, e pertanto inquadrare, il nascente fenomeno della città metropolitana; la spinta verso una visione razionalistica negli ambiti di studio urbani sostiene e informa la crescita di suddetti sistemi, all’interno di una società – quella dei primi del ’900 – di profondo mutamento socio-economico, come tra l’altro testimoniano gli studi della tradizione di pianificazione urbanistica, in specie quella americana.1111Si fa qui riferimento alla questione dei “neighbourhood studies” all’interno degli studi di pianificazione urbanistica. In particolare, la scuola di Chicago condizionò lo sviluppo della riflessione urbanistica del primo ’900 americano. Si vedano in merito Donald Leslie Johnson, Origin of the Neighborhood Unit, «Planning Perspectives», 17(3), 2002, pp. 227-245; e Christopher Silver, Neighborhood Planning in Historical Perspective, «Journal of the American Planning Association», 51(2), 2007, pp. 161-174. L’approccio fortemente razionale e “pianificatore” è stato ripetutamente chiamato in causa per il suo potenziale “determinismo sociale” che consegue a una pianificazione “a blocchi autosufficienti”, come argomentato da Larry Lloyd Lawhon, The Neighborhood Unit: Physical Design of Physical Determinism?, «Journal of Planning History», 8(2), 2009.
Nonostante l’evolversi e involversi delle città stesse,1212Per una trattazione approfondita dei meccanismi di implosione-esplosione del tessuto urbano, si veda Neil Brenner, Christian Schmid, Towards a New Epistemology of the Urban, «City», 19(2-3), 2015, pp. 151-182. Le considerazioni sviluppate dai due autori sono state quindi riprese ed estese all’interno di Neil Brenner, New Urban Spaces: Urban Theory and the Scale Question, Oxford University Press, Oxford, 2019.
la duplice dicotomia urbano-città e rurale-campagna restò un dispositivo concettuale saldamente ancorato all’interno delle tradizioni metodologiche delle scienze sociali e urbanistiche.

Contro questa tradizione votata alla scienza settoriale e razionale, Henri Lefebvre, sociologo francese di cui si è riscoperta l’importanza solo in tempi recenti, occupa una posizione di primo piano. Ricordato da molti per la sua feroce critica marxista all’uso e sopruso di una pianificazione urbanistica ir-razionale che aveva edificato giganteschi centri residenziali a sostegno dell’industria nelle frange della marginalità urbana alle porte di Parigi, Lefebvre fu un autore indubbiamente complesso e poliedrico, avverso a un approccio dis-integrato al sapere, dall’occhio critico e dalla penna chirurgica nel precisare le contraddizioni del suo – e del nostro – tempo. Ciò che preme ai fini della discussione non pertiene tanto all’eterodossia marxista del sociologo e filosofo, quanto piuttosto la sua metodologia, vero e proprio esempio di una rinnovata dialettica in grado di ricondurre presunti estremi – l’urbano e il rurale, la città e la campagna – all’interno di un unicum olistico, che rappresenta il vero e proprio punto di distacco e pregio nella struttura del pensiero lefebvriano. Nel passaggio che segue, tenterò di ricostruire ed esporre una rilettura della metodologia à la Lefebvre, a partire dal suo testo di riferimento, il celebre saggio del 1968: Il diritto alla città.

Jeppe Hein, Mirror Labyrinth NY, 2015.

Come ampiamente descritto da Biagi nella sua riflessione critica sulla filosofia e sociologia lefebvriana, il diritto alla città, nonostante il suo immediato successo nella vibrante comunità studentesca della capitale francese, rappresenta simultaneamente un punto di arrivo e di partenza nella riflessione dell’autore. Da un lato, l’opera rappresenta infatti la sintesi degli studi preparatori che avevano impostato la sua prospettiva; mentre dall’altro si costituisce come un vero e proprio manifesto per la ri-messa in discussione della città e dei suoi sviluppi, in chiave sociale critica. La prima e più consistente parte dell’opera, infatti, più che trattare dei perversi effetti dell’evoluzione dei circuiti capitalisti in seno alla società contemporanea, è votata all’analisi strumentale e alla riformulazione dei concetti edificanti. Il lessico lefebvriano ruota pertanto attorno a due concetti fondamentali: “tessuto urbano” e “urbanizzazione”.

Partendo da quest’ultimo, Lefebvre esamina criticamente l’urbanizzazione come fenomeno innatamente moderno, legato a doppio filo con il processo di modernizzazione dei processi produttivi. In maniera non differente da quanto eseguito dai sociologi americani, anche in questo caso l’urbanizzazione – la creazione di nuovi spazi abitativi e le infrastrutture necessarie al loro sostentamento – si presenta come la controparte logica e necessaria al processo di industrializzazione. In aperto contrasto con la scuola di Chicago, lo sguardo ampio dell’autore riesce a cogliere l’impatto della riforma industriale al di là del “solo” ambiente cittadino, ovviamente privilegiato. A fianco dell’urbanizzazione, Lefebvre denuncia la progressiva ruralizzazione dello spazio opposto alla centralità delle città: in altri termini, l’industrializzazione pervade tanto lo spazio della città quanto quella della campagna, sostituendo ai ritmi lenti della contadinità quelli rapidi dell’efficientamento tecnologico. E ancora: ruralizzazione e urbanizzazione non si oppongono, ma anzi si ricostituiscono all’interno dell’unicum della società industriale, in grado di esaltare una rinnovata centralità della città a scapito dell’ambiente di campagna.1313Si veda, in particolare, il commento di Biagi agli studi del mondo rurale eseguiti dal giovane Lefebvre al suo “debutto” sociologico e la formulazione del “lessico lefebvriano” in Francesco Biagi, Henri Lefebvre: una teoria critica dello spazio, Jaca Book, Milano, 2019, pp. 79-137.
 

Jeppe Hein, Mirror Labyrinth NY, 2015.

L’urbanizzazione, pertanto, si co-manifesta, insieme alla ruralizzazione, come configurazione spaziale della modernità industriale. In che modo, dunque, ricomporre questa apparente contrapposizione? È qui che entra in gioco il secondo concetto lessicale, quello di “tessuto urbano”.1414La nozione di tessuto urbano non trova, nel Diritto alla città, una definizione puntuale ed espressa. Nel testo, Lefebvre argomenta come il concetto di tessuto denoti «una sorta di proliferazione biologica e di rete a maglie diseguali che si lascia sfuggire settori più o meno estesi del territorio» e sia assimilabile, più precisamente, al «concetto di ecosistema […] su cui poggia un “modo di vivere” […] della società urbana», Lefebvre, cit., p. 24. In questo senso, la nozione di tessuto assume più che un valore “nominale” (l’espressione di una precisa entità) un senso “cardinale” (ossia, un processo il cui risultato muta a seconda degli elementi chiamati in causa).
Seguendo il ragionamento di Lefebvre, in quanto il fenomeno dell’urbanizzazione non può che esistere come contrappeso – e viceversa! – al processo di ruralizzazione, ciò che va a riconfigurarsi è piuttosto il prodotto del legame dialettico tra questi due poli, una sintesi che è più di una mera e semplice somma delle parti. In altri termini, è l’interezza del tessuto della società a riconfigurarsi, seguendo il ritmo del capitale – al tempo, industriale. Tale rinnovato tessuto assume la connotazione di “urbano” senza però concedersi una forma omogenea: in un processo di progressiva agglomerazione attorno alle città storiche e alle nuove città industriali, il tessuto urbano contemporaneo si ristruttura costituendo altrettanti spazi di assenza, vuoti lasciati indietro dal passo della modernità.1515Riporto qui una citazione che ben sintetizza la visione lefebvriana nella ristrutturazione del tessuto urbano a partire dai processi di industrializzazione. L’autore scrive: «Nei paesi industriali, la vecchia forma di sfruttamento della campagna circostante da parte della città […] cede il posto a forme più sottili di dominio e sopraffazione, in cui la città diviene centro decisionale e, in apparenza, di associazione. In ogni caso, la città in espansione aggredisce la campagna, la corrode, la dissolve, generando gli effetti paradossali della modernità», Lefebvre, cit., p. 73. In più diretta polemica con la critica economica portata avanti in quegli anni dal fronte marxista, Lefebvre denuncia come il paradigma del filosofo tedesco non avesse dato necessaria attenzione alla ristrutturazione spaziale che il nascente fenomeno dell’industria aveva messo in moto: «Marx non ha mostrato […] che l’urbanizzazione e l’urbano contengono il significato dell’industrializzazione; non ha colto come la produzione industriale implicasse l’urbanizzazione della società», Lefebvre, cit., p. 83.
 

 

Il concetto di “tessuto spaziale” (oggigiorno, urbano) assume pertanto un’importanza centrale, poiché ricostruisce sinteticamente il conflitto dialettico tra urbano-città e rurale-campagna all’interno di un insieme sociale che in parte lo determina, e in parte è da esso determinato. Il concetto di tessuto spaziale porta infatti con sé il seme di una riflessione più profonda. Attraverso la rilettura critica del processo di urbanizzazione-ruralizzazione e l’approdo a uno strumento interpretativo olistico, integrato e integrante delle numerose sfaccettature della forma spaziale, Lefebvre decostruisce la visione di un’epoca urbana quale fenomeno “naturale e spontaneo”1616Tale era l’approccio proprio dell’ecologia urbana della Scuola di Chicago. Secondo tali autori, la città, o meglio il conglomerato urbano, rappresenta l’ecosistema naturale al cui interno la società umana si colloca e si sviluppa. A partire da un simile approccio, gli studiosi americani delineano il concetto di “habitat” e lo sottomettono all’egida di una pianificazione urbanistica informata: presa coscienza della “necessità” dell’infrastruttura urbana, la pianificazione razionale dello spazio avrebbe promosso lo svilupparsi della collettività e dei suoi individui. Contro questa visione, Lefebvre polemizza sul concetto di “habitat” contrapponendolo a quello dell’“abitare”: se il primo fa riferimento alla mera necessità di accomodare la popolazione, il secondo recupera uno spirito di comunitarietà e simultaneità che fa dell’urbano il luogo dell’incontro e dell’interazione reciproca, Lefebvre, cit., pp. 29-33.
e vi contrappone la prospettiva dello spazio quale prodotto sociale. In altre parole, la strutturazione di un paradigma produttivo implica, forzatamente, una ricaduta dell’organizzazione spaziale; eppure, se nulla di naturale vi è nel processo di industrializzazione, tantomeno vi è nel processo di urbanizzazione-ruralizzazione. Tali processi – che, a luce di quanto detto, non sono che singole facce di un unico trittico multiforme – sono un prodotto delle azioni, individuali e collettive, organizzate in seno allo Stato o meno. Lo spazio, pertanto, si riformula assumendo una dimensione socializzata secondo cui, piuttosto che essere elemento dato e precostituito allo sviluppo della società, ne rappresenta un processo fondante. Da un lato, precise considerazioni di natura programmatica e ideologica, confluiscono, attraverso le istituzioni del potere, in precise pianificazioni di politiche pubbliche strategiche. Dall’altro, queste stesse politiche pubbliche – prodotto socializzato – vanno quindi a influenzare il modo in cui lo spazio stesso viene percepito, vissuto e idealizzato. In altri termini, un prodotto sociale – la strategia urbana – determina la socialità che, in un ciclo di auto-influenza, concorre a determinare l’esito della socializzazione.1717La decostruzione della strategia urbanistica appare nell’identificazione di una “filosofia della città” e della corrisposta “ideologia urbana” che rilevano come la pianificazione spaziale adoperata dalle istituzioni riposi, necessariamente, con una precisa visione delle funzioni che lo spazio andrà ad assolvere. Recita l’autore: «La finalità è oggetto di decisione. È una strategia […] giustificata da un’ideologia. Il razionalismo, che pretende di trarre dalle proprie analisi il fine perseguito dalle stesse analisi, è esso stesso un’ideologia», Lefebvre, cit., p. 35. L’idea di una filosofia della città quale contraltare sistematico di una precisa ideologia viene quindi esplorata, nelle pagine successive, con la critica all’ideologia dell’urbanistica. Riprendendo la critica ai modelli razionalistici derivanti dallo studio “razionale” dell’ambiente urbano, l’autore argomenta che l’ideologia urbana «è nata come sovrastruttura di una società tra le cui strutture rientrava un certo tipo di città […]. Dichiarare che la città si definisce come rete di circolazione e di comunicazione […] è una posizione ideologica derivante da una riduzione-estrapolazione particolarmente arbitraria e pericolosa, che si pone come verità assoluta e dogmatica […]. Essa conduce all’urbanistica dei grandi schemi […] che si pretende di imporre in nome della scienza e del rigore scientifico». Lefebvre, cit., pp. 51-52.
 

Oggi le eredità degli studi lefebvriani sono oggetto di un rinnovato interesse multidisciplinare, confluite all’interno dei più recenti studi di Teoria Urbana Critica e Geografia Marxista di matrice anglosassone. Lo sviluppo del pensiero del sociologo francese all’interno delle moderne critiche marxiste1818 Si vedano, a titolo esemplificativo, i lavori del geografo britannico David Harvey. In particolare, l’adozione del prospetto lefebvriano viene riformulato dall’autore inglese per attualizzare l’inviluppo spaziale delle dinamiche del capitalismo finanziario, David Harvey, Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution, Verso, London, 2019.
conferma la lungimiranza dell’autore nel percepire il futuro di una società sempre più centralizzata in grandi conglomerati. In particolare, ho mostrato come l’adozione di una prospettiva olistica e di ampio respiro sia in grado di restituire un’immagine più vivida e precisa degli ambienti in cui viviamo, ponendo l’accento, più che su ideologie e rappresentazioni astratte, sulle concrete dinamiche sociali che da un lato lo determinano, e dall’altro determinano i ritmi e i meccanismi aggregativi che avvengono al suo interno. In un circuito di auto-rinforzo, ambiente fisico e ambiente sociale interagiscono dando vita a un “organismo” fluido, in costante mutamento ed evoluzione, in cui l’agente – l’individuo – interagisce con le strutture sociali – umane e spaziali – creando un reciproco meccanismo di influenza. È su questa interazione tra diversi ordini e livelli della società contemporanea che alcune ricerche nell’ambito delle scienze computazionali sono state in grado di arricchire sensibilmente il dibattito in merito alle scienze urbane, tanto nei suoi filoni sociologici quanto in quelli urbanistici.

Dal pensiero dicotomico al pensiero complesso

Il paradigma della complessità all’interno degli studi urbani riceve e riformula in maniera innovativa alcuni dei tratti salienti della concettualizzazione degli scenari urbani che ho delineato nel paragrafo precedente. Il termine “complesso” è stato infatti frequentemente associato alla descrizione delle città e dei suoi quartieri; eppure, nonostante l’ambiente urbano appaia come “concettualmente” complesso, la sua “operativizzazione” all’interno di un paradigma scientifico, dotato di aspetti specifici, dovette attendere il contributo delle scienze cibernetiche e computazionali che si andarono a sviluppare a partire dagli anni ’70. Paradossalmente, fu proprio la spinta al raziocinio e alla ricerca di modelli a condurre alcuni fisici e scienziati a formalizzare il concetto di “teoria complessa”, per declinarlo dunque successivamente allo studio delle città, dando così il via alla “teoria complessa della città”.1919Una ricostruzione dello sviluppo del paradigma complesso a partire dalle prime ricerche in ambito cibernetico e computazionale è rintracciabile in Hermann Haken, Complexity and Complexity Theories: Do These Concepts Make Sense?, in Juval Portugali, Han Meyer, Egbert Stolk, Ekim Tan (eds.), Complexity Theories of Cities Have Come of Age, Springer, Heidelberg, 2012, pp. 7-20.
 

Le prime formulazioni di una “teoria complessa” dei sistemi sono da ricondursi, come evidenziato da Haken,2020Ivi.
allo studio dei fenomeni fisici e particellari e alla ricostruzione dei pattern di interazione tra atomi e molecole. Al fine di sintetizzare una trattazione lunga e spesso divergente, riporto qui solo alcuni degli elementi fondanti dell’approccio complesso, sintetizzato dai concetti di autoregolazione, circolarità e apertura.2121Si vedano inoltre: Scott G. Ortman et al., Cities: Complexity, Theory and History, «PLoS ONE», 15(2), 2020; Lela M. Holden, Complex Adaptive Systems: concept analysis, «Journal of Advanced Nursing», 52(6), 2005, pp. 651-657; e John Stephen Lansing, Complex Adaptive Systems, «Annual Review of Anthropology», 32, 2003, pp. 183-204.

Il principio di autoregolazione, essenziale allo studio dei sistemi fisici, vede nell’interazione delle singole unità il motore primo per l’emergere di equilibri che andranno a regolare il sistema nel suo complesso. La profondità dell’approccio complesso risiede, tuttavia, nel concepire il nesso causale in termini dialettici, più che statici: se l’interazione determina lo schema regolativo del sistema a partire da un dato set di “input”, l’emergere di un dato schema avrà dunque un impatto sul comportamento delle singole unità, e così via. In altre parole, piuttosto che dividere rigidamente in nessi causali lineari, l’approccio complesso fa proprio il principio di circolarità: il sistema determina il comportamento delle sue componenti, e al contempo il comportamento di queste ultime determina lo strutturarsi del sistema. In questo prospetto, la concettualizzazione teorica del paradigma complesso vede, nell’emergere di meccanismi di autoregolazione, la propensione al raggiungimento di una stabilità, o in altre parole di un equilibrio. Una simile concettualizzazione perde, però, la sua presa descrittiva sul mondo empirico, in quanto non include, all’interno dei suoi assunti, la possibilità di variazioni contestuali delle condizioni iniziali. In altri termini, il sistema non è intaccato dalle modifiche del contesto all’interno del quale si situa, ed è pertanto definito come “sistema chiuso”. Per avere contezza di come la tendenza al formarsi di equilibri venga controbilanciata da flussi di energia, materia e informazioni, occorre pertanto aggiungere ai due precedenti assunti l’apertura del sistema, ossia la sua capacità di mantenere un rapporto dialettico non solo con le parti del suo insieme, ma anche dell’insieme di cui esso fa parte. Da questi tre assunti è possibile delineare in maniera sintetica e intuitiva l’ethos essenziale dell’approccio complesso: il sistema di riferimento si costituisce a partire dall’interazione tra le sue parti, la loro interazione con l’equilibrio che le regola, e l’interazione tra il sistema di riferimento e il contesto mutevole al cui interno si posiziona. 

Seguendo il solco degli studi menzionati, un simile sistema si definisce come un “sistema adattivo complesso” (SAC), ossia un sistema composito e multiforme, il cui comportamento si adatta e auto-adatta a stimoli tanto endogeni quanto esogeni – sebbene il solco tra la distinzione delle due resta, quantomeno nell’ottica del ragionamento sotteso, alquanto arbitrario. La nozione di SAC è stata di importante formulazione tanto per la descrizione e analisi di meccanismi fisici – come l’interazione tra particelle e atomi – quanto per lo studio di particolari ecosistemi naturali e animali – come, per esempio, le colonie di insetti. Nonostante la dimostrata capacità dei SAC e della “teoria complessa” di cogliere aspetti precedentemente oscurati o tralasciati nello studio di entità complesse, la trasposizione di tale paradigma all’interno degli studi sociali appare al giorno d’oggi alquanto limitata. Per esempio, la concettualizzazione della società umana come “sistema adattivo complesso”, introdotta da Walter Buckley negli anni ’70,2222Il testo a cui mi riferisco ha ottenuto una recente ripubblicazione in Walter Buckley et al., Society as a Complex Adaptive System, «E:CO», 10(3), 2008, pp. 86-112.
non si è affermata al di fuori della cerchia di ricercatori e studiosi che già vedevano nel paradigma complesso la “principale” lente di ingrandimento teorica. In altre parole, la posizione dei teorici della complessità non è stata in grado di penetrare lo studio dei fenomeni umani con sufficiente presa, rimanendo così una posizione sostanzialmente marginale e – ironicamente – chiusa nei salotti della “sinergetica” o, al più, della sociologia della comunicazione.2323Per una puntuale discussione del paradigma complesso dal punto di vista epistemologico, Alvaro Malaina, The Paradigm of Complexity in Sociology: Epistemological and Methodological Implications, in Àngels Massip-Bonnet et al. (eds.), Complexity Applications in Language and Communication Sciences, Springer, London, 2019, pp. 31-42. Una ricostruzione dell’approccio complesso all’interno delle correnti sociologiche è stata similmente rintracciata nei capitoli introduttivi di R. Keith Sawyer, Social Emergence: Society as a Complex System, Cambridge University Press, Cambridge, 2005.

D’altro canto, invece, le applicazioni pratiche della “teoria complessa”, attraverso la modellistica computazionale, hanno trovato terreno fertile all’interno degli studi urbanistici. Temi quali la mobilità o l’espansione ed estensione del tessuto urbano adoperano al giorno d’oggi modelli di simulazione che molto devono alla formulazione della “teoria complessa”. Il principale “punto di ingresso” e critica alle altre correnti urbanistiche, come rintracciato da Batty e Marshall,2424Michael Batty, Stephen Marshall, The origins of Complexity Theory in Cities and Planning, in Portugali, Meyer, Stolk, Tan, cit., pp. 21-46.
risiede nel rifiutare la dicotomia tra urbanizzazione pianificata dall’alto o costruita dal basso, restituendo al contrario un paradigma olistico in cui l’interazione tra complessità sociale e complessità urbana ricostruisce due lati di una stessa medaglia, spesso rigidamente separati. Seguendo questa prima intuizione, la “pianificazione” urbana non deve essere condizionata da precedenti assunzioni di natura normativa; piuttosto, il confronto con le “utenze” – i cittadini – deve essere il primo passo per la scoperta e riscoperta dei necessari punti di criticità. Così, l’interazione circolare tra il “top” e il “bottom”, tra residenti e organi amministrativi – in termini “complessi”, tra singole unità e corpo regolatore/regolato – restituisce una visione completa e integrata delle necessità, delle criticità e dei punti di forza su cui edificare una pianificazione urbana e territoriale che risponda concretamente ai bisogni civici.

Alla luce della sommaria introduzione al paradigma complesso, avanzo qui un’ulteriore manovra teorica. Nel paragrafo che segue proporrò dunque di riconciliare la visione dello spazio urbano quale prodotto sociale e la visione dello spazio urbano quale prodotto complesso. La critica posta da Lefebvre sottolinea come tanto la vita degli ambienti urbani quanto la loro stessa progettazione e programmazione siano interpretabili attraverso una lettura critica che vede nelle programmazioni e “destinazioni d’uso” l’evidenza prima di una strategia dello sviluppo urbano. In altri termini, la corretta interpretazione dello sviluppo della città passa attraverso la rilettura critica delle finalità a cui lo spazio urbano stesso viene assegnato, le quali evidenziano la strategia delle autorità politiche-amministrative nel promuovere tale o talaltro modello di socialità e consumo.

In che modo il paradigma complesso può arricchire una simile prospettiva? In che modo le nozioni complesse a cui ho accennato arricchiscono il prospetto della socializzazione dello spazio urbano? L’implementazione e la creazione di precise destinazioni d’uso per lo spazio urbano, quando per esempio confrontate con il principio dell’autoregolazione, aprono alla tensione tra adattamento e resistenza. In un primo momento, il corpo sociale (le unità) si confronterà con la nuova struttura urbana (il principio regolatore) integrandosi con esso (ipotesi di adattamento) o sviluppando momenti di resistenza e potenziale boicottaggio (ipotesi di resistenza). Simultaneamente, andranno a emergere due distinte tendenze alla modificazione dello spazio urbano. Da un lato, l’adattamento alla nuova forma urbis stimolerà l’emergere di comportamenti sociali e spaziali nuovi e alternativi, che andranno a sedimentarsi all’interno di specifici pattern comportamentali. Dall’altro, la resistenza e la potenziale incompatibilità con le nuove forme spingeranno alla ridefinizione della propria identità sociale in confronto alla collettività o, nel peggiore dei casi, all’esclusione di porzioni del corpo sociale che falliscono nell’adattarsi alla nuova dimensione socio-spaziale. Nondimeno, questi ipotetici pattern non sono mutualmente esclusivi. Parti del corpo sociale locale favorevoli all’adattamento potranno coesistere con coloro che a tale cambiamento si oppongono, in un processo di interazione socio-spaziale da cui emergeranno nuovi e alternativi pattern comportamentali.

Dall’insieme variopinto e variegato di questi nuovi behaviours sociali e spaziali, andranno a strutturarsi nuove tendenze nel modo in cui lo spazio urbano viene vissuto, e non vissuto. Ed è a partire da questa strutturazione che il corpo regolatore si muoverà per favorire, rinforzare o persino contrastare le nuove dinamiche sociali. In un’ottica di circolarità, a partire dall’input iniziale che ha determinato l’emergere di nuovi modelli di comportamento, tale output si ricondensa e ritrasforma in input per successive “riflessioni urbanistiche”. 

Grazia Toderi, Atlante Rosso, 2012.

In breve, la combinazione del prospetto critico lefebvriano con gli stimoli teorici suggeriti dalla teoria complessa restituisce un paradigma interpretativo olistico e dinamico. Da un lato, la critica sociale di Lefebvre sottolinea come lo spazio urbano che oggigiorno viviamo sia informato e formato dal contesto socio-economico e dallo schema di produzione a esso associato. Dall’altro, la prospettiva complessa ci permette di intravedere, tramite le fondamentali nozioni di autoregolazione e circolarità, come la socializzazione dello spazio urbano e il suo stretto legame con le pratiche comportamentali della “everyday life” siano frutto e causa di un processo di interazioni tra le parti sociali e il corpo regolatore, in cui le varie e opposte correnti si confrontano. Così, la combinazione dell’olismo complesso con la prospettiva critica della teoria lefebvriana favorisce una visione dello spazio urbano che non solo è “prodotto sociale” – ossia formulato, immaginato e realizzato a partire da motivazioni sociali, siano esse legate alla produzione, al consumo o al tempo libero – ma che, in quanto tale, è intimamente legato all’insieme di comportamenti individuali e collettivi; e ancora, questi ultimi, a loro volta, si posizionano in un rapporto dialettico con il primo, rinforzando o contrastando le pratiche socio-spaziali incapsulate dalla forma urbana. In breve, dal rapporto dialettico tra determinazione spaziale della socialità (Lefebvre) e determinazione sociale dello spazio (Paradigma Complesso) è possibile asserire come lo spazio e, specialmente, lo spazio urbano siano oggigiorno interpretabili come “processo sociale”: più che un “prodotto” statico, lo spazio è qui rivalutato e interpretato in stretta connessione con le potenzialità che esso racchiude e che solo l’interazione tra individui e collettività può lasciare emergere.

Lo spazio urbano è interpretabile come “processo sociale”

Conclusioni

In questo saggio ho cercato di stabilire, attraverso la ripresa di due “voci fuori dal coro” all’interno della discussione sugli ambienti urbani, un primo tentativo di riformulazione dello spazio quale processo sociale. 

Per i colleghi ricercatori e studenti che leggono queste righe, spero pertanto che questo testo possa stimolare la riflessione sociologica, prendendo le distanze tanto dal determinismo collettivista delle teorie collettiviste, quanto dall’individualismo metodologico che difficoltosamente si ricollega alle dimensioni spaziali dei fatti sociali. Il sorpasso del dualismo tra determinismo e anti-determinismo, collettivismo e individualismo è qui effettuato tramite l’adozione del paradigma critico-complesso, che riconduce, all’interno di una analisi sistematica, i fatti sociali come frutto dinamico dell’interazione – o, in altri termini, la loro concettualizzazione quali processi, più che fatti, sociali.

Ciò detto, questo testo ha nondimeno un ulteriore, secondo obiettivo. Oltre che informare, intende infatti stimolare nel lettore un modo nuovo di concepire lo spazio a noi circostante. La processualità dello spazio chiama infatti in causa una postilla essenziale, ossia la capacità delle singole unità di coagularsi attorno a una visione comune per il bene della collettività per modificare e migliorare il nostro ecosistema, e in particolare l’ecosistema urbano. Seguendo l’intuizione lasciata da Lefebvre, il celebre geografo britannico David Harvey ci parla di “spazi della speranza” – che, sottratti al “business as usual”, emergono quali spazi per l’affermazione della libertà, dell’essere comune e collettivo. Se Harvey si soffermò a identificare questi spazi nell’estasi rivoluzionaria dei movimenti Occupy Wall Street e NoGlobal,2525Harvey, cit.
desidero qui estendere questa prima intuizione al di fuori di schemi dicotomici e conflittuali. La realizzazione degli spazi di libertà, infatti, non deve essere appropriata da alcuna ideologia, che necessariamente precluderebbe l’accessibilità e l’integrazione degli spazi sottoponendola a una giacca politica. Lo spazio socializzato, piuttosto, deve resistere alla politicizzazione, rimanendo un veicolo di inclusione post-politica e votata al benessere dell’intera collettività.

Foto aerea dell’Europa. Le luci notturne evidenziano il fenomeno dell’urbanizzazione e la ristrutturazione del tessuto spaziale.

Un esempio pratico di questa spazialità collettiva e post-politica è riscontrabile nel virtuoso esempio degli orti urbani. Da un lato, la creazione di piccoli orti urbani reintroduce pratiche agricole all’interno di un contesto urbano, rivelando, con immensa sorpresa, le potenzialità nascoste dello spazio. Contro una visione della città come topoi della meccanizzazione e tecnicizzazione della società, la potenza dell’agricoltura urbana e peri-urbana risiede nel riconnettere i cittadini con i ritmi lenti della natura, proponendo un’alternativa concreta ai ritmi veloci e spesso frenetici della vita urbana e metropolitana – al contempo senza soppiantarla. Dall’altro, l’orto urbano, nella sua necessaria dimensione di bene comune e collettivo, richiede e al tempo stesso sostiene l’interazione, comunicazione e organizzazione dei singoli residenti: decisione della semina così come la cura, raccolta e condivisione dei prodotti fanno parte di un processo di pratiche socio-spaziali dall’innata dimensione co-partecipata. Così, la creazione di spazi di agricoltura urbana, oltre a riveicolare il significato implicito dello spazio verso una maggiore attenzione al legame tra società antropica e natura, si costituisce quale motore per la creazione di comunità e pratiche di collaborazione che sorpassano la dimensione politica, ancorandosi al bene collettivo e comune. Ho portato qui l’esperienza degli orti in città, ma il ragionamento può estendersi ben oltre. Da piccole librerie e teatri gestiti da associazioni e giovani comunità, fino alla rigenerazione e rivalutazione di interi spazi per la realizzazione di esperienze di coabitazione, l’interpolazione tra pratiche sociali di collaborazione e la rivalutazione dello spazio in cui esse si realizzano quale significante sociale evidenziano l’importanza di un approccio socio-spaziale allo studio della nostra società. 

In conclusione, contro una progettazione dell’ambiente che lascia nelle esclusive mani delle autorità centrali l’iniziativa al cambiamento, esorto quindi i lettori a rivendicare lo spazio e la sua cura per realizzare una società più inclusiva, aperta e sostenibile. In un futuro in cui i flussi di materie, energia e informazioni assumono sempre più un ruolo di rilievo, co-partecipare all’amministrazione degli spazi che condividiamo rappresenta il primo passo per la (ri-)genesi di una società realmente equa, in cui i cittadini riscoprono la vita intima della comunità attraverso un rinnovato spirito di solidarietà spaziale.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Nathan Mario Senise Volpe
  • Nathan Mario Senise Volpe (1997) è originario di Milano ma cresciuto a Firenze. Laureato in Relazioni Internazionali e Studi Europei presso l’università romana LUISS Guido Carli. Dopo un lungo periodo a studiare le dinamiche internazionali e transnazionali nel solco del paradigmo moderno dello Stato-Nazione, l’interesse verso gli ambienti urbani nasce in risposta al declino del primo e l’emergere di pensieri post-moderni che vedono nel pensiero obliquo ed eterodosso la risposta alla complessità della società odierna. Volontario presso i nuclei di ricerca del giornale indipendente Scomodo, si interessa al dibattito per la ricerca di nuove soluzioni ai problemi contemporanei.
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