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Performatività del valore
Magazine, OTHERING – Part II - Dicembre 2019
Tempo di lettura: 15 min
Francesco Venturi

Performatività del valore

Note sulla produzione culturale, tra materiale e immateriale.

Audre Lorde nuota nel fiume Saint Croix, 1989. Foto: Dagmar Schultz.

 

Che sia relativo o assoluto, plurale o singolare, culturale, sociale o economico, il valore è al fondamento della nostra esistenza. Pensare in termini di valore ci approssima addirittura al “senso della vita”, una cosa altrimenti impensabile. Il valore è ciò che è buono; conduce a dei risultati, e c’è sempre un valore relativo ai risultati («com’è andata?», «ne valeva la pena?»). Farsene un’idea univoca, però, non è possibile, poiché si tratta di qualcosa di volatile, in continuo movimento. Inevitabilmente, ciò che ha valore per qualcuno può non averne per me. Questo vale anche per gli oggetti dal valore inestimabile, cioè ai quali è difficile attribuire un prezzo (tornerò sulla relazione tra il pensiero orientato al valore e orientato al prezzo). In italiano e in molte altre lingue il termine rinvia a una varietà di significati tale da creare una concept-cloud. Se da una parte però ne rende la complessità, dall’altra mette questa stessa ricchezza di senso in pericolo. In economia classica il valore è la capacità di un bene di soddisfare un bisogno, mentre nell’evoluzione del concetto da Marx in poi è una somma (tra costo della produzione, costo della forza lavoro e plusvalore). In antropologia culturale e in sociologia è quella condizione attorno cui si raccoglie una comunità; è un criterio di valutazione delle azioni. Di solito chiariamo questa accezione declinandolo al plurale. Anche Dante usava il termine come sinonimo di virtù e in particolare come la somma di tutte le virtù divine. Resterebbero da citare l’uso in aritmetica (il valore di un’espressione), in genetica (il valore biologico delle proteine), in musica (la legatura di valore), nella critica d’arte («nella pittura veneziana del Cinquecento predominano i valori tonali»). Oggi, questa parola ha sempre un duplice significato. Da una parte indica semplicemente l’equivalente in denaro di qualcosa («in vendita per il valore di…»), dall’altra la sua importanza. In questa parola, insomma, materiale e immateriale si incontrano problematicamente.

Thomas Hirschhorn, “Crystal of Resistance”, 2011, 54a Biennale di Venezia, Padiglione Svizzero. Foto: Romain Lopez.

Nella percezione dominante, il valore sta nell’area di intersezione della sfera socio-culturale con quella socio-economica. La ripetizione di “socio-” è giustificata dal ruolo giocato dal “sociale”, che è doppio. Da una parte, la società come espressione di valori collettivi: il valore intrinseco di ogni arte, il “giudizio della storia”, e così via. Dall’altra, la società come un insieme di attori mossi da un interesse privato basato sul guadagno personale. Se gli aspetti culturali del valore riguardano rilevanza, narrazione, mentre quelli economici rinviano al meccanismo domanda-offerta, al marketing e al «there is no alternative» (to capitalism) à la Thatcher, il valore sociale si esprime in identità e senso di comunità. Tuttavia, nei contesti reali dell’arte e della vita, può essere controproducente disaggregare queste categorie, come ho appena fatto, con la voglia forse di dare alla cultura un “valore proprio” scevro dei suoi aspetti più materiali. Non è semplice definire la materialità di qualcosa di essenzialmente immateriale come il valore; perciò, storicamente, si tende a indicarla in un rapporto o, meglio, in una somma o una differenza.

Gautam Mahajan, fondatore del «Journal of Creating Value», indica l’apparizione del valore nell’equilibrio tra risultato e sforzo: si genera quando i costi sono inferiori ai risultati, si distrugge quando accade il contrario. Subito le cose si complicano, poiché esistono sempre molte soluzioni allo stesso problema e due persone possono giungere allo stesso risultato per strade diverse. Dato allora che ognuno ha sempre delle alternative, il valore entra così in una logica competitiva basata sulla convenienza, riducendosi in sostanza al rapporto tra profitti e costi di cui parla Mahajan. Si afferma cioè una percezione del valore del tutto reificata, in cui la validità di qualcosa viene espressa in numeri, e paragonata ai numeri di qualcos’altro. Allora la domanda da porsi è: quanto c’è di materiale e quanto di immateriale nella nostra valutazione del valore di qualcosa? È possibile immaginare un sistema di valori che non dipenda in nessun modo da considerazioni puramente economiche?

La Gioconda del Prado. Anonimo Leonardesco, 1503–1516, Museo del Prado, Madrid.

Parafrasando la scrittrice militante Audre Lorde, l’orrore di un sistema che definisce il valore in termini di profitto e non di bisogni umani, o che definisce i bisogni umani escludendo la componente psichica e fisica di quei bisogni, depriva il lavoro del suo valore erotico, riducendolo a un complesso di operazioni dettate da necessità. E dove entrano in gioco le componenti erotiche del valore, cioè l’appagamento e il life appeal delle cose, la differenza tra materiale e immateriale comincia a mostrarsi. Il desiderio di tornare all’erotismo del lavoro, oggi sentitissimo, è in tutto e per tutto uguale a quello della Lorde, come a quello degli inizi del secolo scorso, quando si voleva reagire al materialismo imperante (e a Nietzsche) con un ritorno al valore erotico della vita grazie alla filosofia del valore. Nelle parole di Émile Durkheim, pronunciate a Bologna il 27 maggio 1913: «Vivere è soprattutto agire, agire senza fare i conti, per il piacere di agire. E se con ogni evidenza la vita non può fare a meno dell’economia, se è necessario accumulare per poter spendere, è tuttavia la spesa che è il fine e la spesa è l’azione». Una filosofia, però, praticamente proto-thatcheriana. Inoltre, se poteva avere senso, nel 1913, pensare a una contrapposizione netta tra giudizi di valore e giudizi di realtà, viene da chiedersi se ne abbia ancora, in una sharing economy basata sul capitale umano, dove i residui di quella opposizione binaria somigliano più a una ricerca Google.

Ogni volta che si parla di cultura si indaga il valore curatoriale.

Dove porsi, su uno spettro che va da un totale “struzzismo” anticapitalista alla piena accettazione del ricatto thatcheriano, estendendosi su forme di mutualizzazione integrale e sistemi di valore del tutto impensati? È davvero possibile mantenere una posizione stabile? Per Mariana Mazzucato, ad esempio, che non è affatto anticapitalista, possiamo trovare una soluzione a questo dilemma-dicotomia sulla materialità del valore nelle parole di Oscar Wilde, quando scriveva che il cinico è colui che conosce di tutto il prezzo e di niente il valore. Non è forse questa la differenza che il revisionismo neoliberista, cinico per definizione, si incarica di cancellare? La risposta neoliberale al dilemma è cancellare la dicotomia con il cinismo. A rigor di termini, una risposta resistente dovrebbe porsi l’obiettivo di cancellare il dilemma valorizzando la dicotomia. Sappiamo che l’arte si compone di aspetti materiali e immateriali. È comune, di conseguenza, sottintendere un valore finanziario al valore artistico di qualcosa, senza dover parlare necessariamente di soldi. Il fine di tale distacco “radical chic” non è quello di evitare di sputare nel piatto in cui si mangia, ma risponde a una volontà sistemica di giungere alla totale identità tra le due categorie di valore; ad assimilare, cioè, valore e realtà; come se l’immateriale potesse essere misurato sulla stessa scala su cui misuriamo il materiale. Tale volontà è talmente evidente e generalizzata da non meritare neanche una discussione. Conoscere la differenza e insistere su questo dilemma-dicotomia rimane, insomma, l’unico antidoto al progetto di mercificazione integrale, al grido di «un’alternativa c’è».

Émile Durkheim, registrazione della conferenza tenuta a Bologna. Bibliothèque nationale de France.

Non dimentichiamo però che, come scriveva Alighiero Boetti, «il denaro crea il gusto». Queste parole – che in certi contesti suonano banali, in altri quasi offensive e in altri superficialmente ironiche – andrebbero lette in chiave squisitamente critica, e con quella giusta dose di disincanto che è sempre di grande aiuto. Nel mondo della cultura – il luogo delle cose immateriali – il gusto non è solo quella cosa posticcia e vagamente aristocratica che alimenta l’hype e le mode, ma è anche la ragione concreta per produrre e frequentare mostre, concerti e festival. Dietro al gusto si nascondono, insomma, le ragioni più intime e anche spontanee della questione: le intenzioni e gli interessi personali che stanno alla base del nostro dare valore. Detto altrimenti, la componente erotica c’è sempre. Per usare un’espressione-immagine volutamente demodé, in “coloro che apprezzano le cose belle” non coincidono, forse, valore e gusto? (A: «com’era?», B: «mi è piaciuto», A: «allora vado»).

Brooklyn co-working space. Foto: Charles Hope.

Non dimentichiamo nemmeno che il gusto si basa sull’offerta. Com’è chiaro, non possiamo valorizzare un artista di cui non siamo a conoscenza. Il lavoro artistico ci giunge, infatti, già incorniciato dal valore che qualcun altro gli ha conferito, sia a livello di produzione che di pubblico. Un tipo di legittimazione a priori, insomma, che può essere più o meno validante, più o meno istituzionale, autoreferenziale o inserita in un contesto storico e sociale. Non da meno, la legittimazione offerta dalla “cornice”, dalla “scena” o dal passaparola, può essere messa in discussione o data per scontato, presa per vera o respinta del tutto. Non è raro sentire discorsi sull’arte che ruotano intorno a dove e con chi ha lavorato tale artista, piuttosto che intorno a cosa ha prodotto e magari perché; il valore istituzionale viene cioè scambiato (vorrei specificare, erroneamente) per valore artistico. All’opposto, non è raro percepire o maturare un sospetto verso l’opera di un artista solo perché sta ricevendo molta attenzione – cioè ha assunto un valore istituzionale tale da mettere in discussione o addirittura in ombra il suo valore proprio. In nessun caso è possibile prescindere dalle circostanze.

György Ligeti durante i preparativi del suo “Poème Symphonique” per 100 metronomi. Foto: Co Broerse.

È altrettanto vero che, nel mondo della produzione culturale, spesso il valore emerge proprio dalle circostanze e da una co-dipendenza tra disponibilità e attitudine. In un’intervista a Ivan Fedele, direttore della Biennale Musica a Venezia, lui mi diede una risposta che mette perfettamente a fuoco il tipo di co-dipendenza a cui mi riferisco: «Se ti dico, “guarda, non ho soldi, però ho 10 pietre, riesci a farmi una composizione?”… arriva Steve Reich e mi fa il pezzo con le pietre percosse, io mi tolgo tanto di cappello. Se dico “guarda, io non ho un’orchestra, ma ho 100 metronomi e 100 ragazzi di liceo, te li posso attivare come vuoi tu, però quello ho”… arriva Ligeti e mi fa un pezzo straordinario. Capisci cosa voglio dire?».11Steve Reich, uno dei padri del minimalismo musicale americano, è noto per la sua ricerca di un’essenzialità compositiva e strumentale assoluta, come per esempio in Music for Pieces of Wood, per cinque claves. György Ligeti, compositore riconosciuto tra i maggiori della storia della musica, ha composto un celebre Poème Symphonique per 100 metronomi. Sul concetto di creative leadership rimando all’ottimo Creative Leadership: A Multi-Context Conceptualization di Mainemelis, Kark & Epitropaki (in «The Academy of Management Annals», 9, 2015), e al mio Curating Music, Articulating Value: towards a definition of the curatorial within live new music (Goldsmiths University, 2018).

Queste parole riconfermano, in chiave aneddotica, una semplice osservazione: gli aspetti individuali, collettivi, economici e culturali del valore di qualcosa sono integrati olisticamente. Non ha più senso, cioè, separare le circostanze anche economiche, le specificità delle persone coinvolte e la relazione tra valore e costo nella valutazione del risultato finale: «Mi tolgo tanto di cappello». Interesse e valore arrivano irrimediabilmente a confondersi, talvolta anche in maniera creativa, come nell’aneddoto di Fedele. In una società contraria al valore erotico del lavoro, che gioca sulla falsa identità tra costo, valore e validità (torneremo sulla validità), diventa fondamentale per la produzione culturale avere la capacità curatoriale di gestire la dipendenza tra disponibilità, interesse personale e valore proprio.

Ogni volta che si parla di cultura si indaga in qualche modo il valore curatoriale. Oggi più che mai questo si riassume nella creatività applicata alla leadership, cioè nella capacità di condurre gli altri verso un risultato valido.22Sul concetto di creative leadership rimando all’ottimo Creative Leadership: A Multi-Context Conceptualization di Mainemelis, Kark & Epitropaki (in «The Academy of Management Annals», 9, 2015), e al mio Curating Music, Articulating Value: towards a definition of the curatorial within live new music (Goldsmiths University, 2018).
È la curatela a occuparsi non solo della produzione e conservazione delle cose di valore, ma specialmente della creazione di un valore istituzionale attorno a esse e ai loro autori. Il fine è quello di creare un circolo virtuoso di co-creazione di valore attorno alla loro pratica. In tempi di post-verità e sharing economy, il curatoriale è quel potere culturale che per gusto, necessità o circostanza, fabbrica legittimazione – uno dei beni più preziosi nell’era del nichilismo dispiegato. Tale potere risiede specialmente nell’abilità di generare valore a venire.

Yves Klein e Dino Buzzati durante la cessione di una “Zone de sensibilité picturale immatérielle”, 26 gennaio 1962. Foto: Gian Carlo Borri.

Per firmare un contratto con un’istituzione relativamente grande (con budget di produzione importanti, per cui opere ambiziose che aspirano al grande pubblico), l’artista emergente deve prima passare per produzioni più piccole. Sono queste, nell’accettare un rischio, ad aver prodotto attivamente valore culturale a venire. Chiaramente, anche l’artista accetta un rischio, e la professionalità di entrambi (altra struttura di valore che meriterebbe una riflessione a sé) viene messa alla prova. Nel momento in cui entra nel programma istituzionale e gli viene commissionato un lavoro, il suo valore-validità-costo impenna. Da una parte, la commissione crea le condizioni per realizzare un nuovo lavoro, che ha, ovviamente, un valore enorme: potrebbe essere la svolta per questo artista, potrebbe influenzare la storia dell’arte o cambiare a qualcuno la vita. Dall’altra, aumenta drasticamente il potere culturale di quell’artista, poiché la sua rilevanza e professionalità (percepite) assumono maggiore credibilità agli occhi dei direttori artistici, delle governance e dei pubblici, che d’ora in avanti saranno più inclini a correre un rischio in nome del valore istituzionale di quell’artista, mettendo in moto un’economia attorno al suo lavoro. Per cui, maggiore è la fiducia e l’investimento dell’istituzione e maggiori chance ha l’opera di assumere grande rilevanza.“…maggiore è la fiducia e l’investimento dell’istituzione e maggiori chance ha l’opera di assumere grande rilevanza.” Così – dicendola con il termine inglese caro ad Andrea Phillips – maggiore è il rischio, maggiore è il deferred value. L’idea è semplice e rivoluzionaria33A proposito, vedi Economia e produzione culturale: Andrea Phillips in conversazione con Martina Angelotti, in «Domus», febbraio 2018.
: dare ai finanziatori culturali la possibilità di valutare non solo i numeri determinati nell’immediato. L’idea del deferred value è connessa alla necessità di valorizzare l’istituzione culturale (specialmente no-profit) che permette la crescita esponenziale del valore di un artista attraverso mezzi propri, non connessi al valore economico-materiale ma a quello culturale-immateriale, come ricerca, dedizione, creazione delle condizioni giuste, networking ecc. Riflettere in termini di deferred value è il modo migliore per imparare a considerare i “numeri” come il residuo escrementizio della creazione di qualcosa di immateriale.

Eppure, le politiche culturali non considerano il valore-a-venire dell’arte un valore-in-uso, come invece sarebbe giusto che fosse. Le governance estraggono il valore di un artista solo al termine di un tortuoso processo di validazione. Oppure, all’opposto (specialmente in Italia), operano un’estrazione lampo che brucia il valore di un artista sul nascere, lanciandolo come una meteora sul mercato quando, di fatto, il suo valore artistico non regge la competizione. L’artista contemporaneo crea valore, ma non è quasi mai in grado di stabilire se, in che misura e in quale momento della sua vita assumerà validità.

Valore e realtà tendono infatti ad assimilarsi, mentre valore e validità a scollarsi. Dare importanza a qualcosa che non ha validità – il cui valore, cioè, non è universalmente accettato e dunque non riceve un riconoscimento economico sul mercato – significa assumersi un rischio, sia in termini di immagine (valore socio-culturale) che di risorse (valore socio-economico). La questione del rischio è centrale, poiché il passaggio dall’individuo alla collettività, nella produzione culturale, si basa su un’ipotesi, su un investimento. La cultura parte da un’iniziativa eminentemente privata, che si muove in condizioni di incertezza. La creazione del valore sottintende sempre una buona dose di incognite: una specie di requisito per lo sforzo di legittimazione. La validità, infatti, si presenta come una categoria di valore particolarmente tesa verso la collettività. Un tipo di valore essenzialmente culturale.

Se l’impulso economico è sempre individuale, l’impulso culturale è sempre collettivo. Il valore culturale di qualcosa è proiettato verso il futuro e aspira al punto di vista dell’eterno; riguarda produttori e utenti, ma anche non utenti e utenti futuri. Il gesto curatoriale – inteso come l’atto di conferire validità e concretezza a qualcosa di culturalmente valido, specialmente quando si trova ancora in una fase nascente – riguarda la sfera del potenziale, più che quella degli effetti. Per questa ragione il deferred value intrinseco di ogni lavoro artistico costituisce un’idea di etica. Semplificando all’estremo, la deferibilità del valore percepito di un’opera è a fondamento della sua etica. La relazione tra valore e valori nasce proprio da questo atto di deferire a oltranza il valore, collettivizzandolo. Riprendendo le parole di Wittgenstein (che riprende quelle di Spinoza): «L’opera d’arte è l’oggetto visto sub specie aeternitatis; e la vita buona è il mondo visto sub specie aeternitatis. Questa è la connessione tra arte ed etica». Se accettiamo questa nozione di etica, allora ciò che vale la pena deferire del valore di qualcosa, il suo valore a venire (materiale e immateriale), ovvero il progetto di co-creazione valoriale che mette in atto chi investe mezzi ed energie nella sua produzione, l’importanza che gli viene attribuita da tale sforzo, una rilevanza che vorremmo, è implicito, aumentasse esponenzialmente grazie alla preservazione e rimessa in discussione perpetua; ecco, tutto ciò costituisce l’etica del suo valore-in-uso. L’atto di valorizzare l’immateriale diventa etico quando si prende il rischio di indicare il valore in qualcosa che non ha (ancora) validità materiale; quando è in grado di convincere gli altri del valore di qualcosa, lavorando attivamente alla realizzazione della sua validità. Questa è la relazione tra culturale e curatoriale che anima la produzione valoriale. È fondamentale dunque spostare l’attenzione dal valore immateriale in sé – che nelle condizioni socio-politiche attuali di post-verità realista è difficile da mettere in primo piano – all’atto di conferire valore, al gesto etico di dare concretezza economica e sociale a qualcosa di intangibile.

Nell’Europa contemporanea (a cavallo della Brexit), questa idea di produzione culturale, come l’atto rischioso di difendere l’immaterialità di qualcosa che reputiamo valido, è tutto ciò che sembra rimanere plausibile della vita etica. Il problema è che fino al social media il passo è brevissimo. La cultura si sta organizzando intorno a una “piazza” in cui ognuno dice la sua e non si dà voce autorevole. Per cui, tutto viene rimandato al giudizio personale, ponendo il tema del valore al centro del dibattito. Fino a che punto la vita ci costringe a essere materialisti, anche quando va in contrasto con i nostri valori? Ogni sistema valoriale ci riporta enfaticamente a una presa di posizione individuale. Come in The Unanswered Question di Charles Ives, o nel «caminantes, no hay caminos, hay que caminar» di Luigi Nono, vale la pena ricordare che il punto non è dare una risposta (che non c’è), ma rinnovare sempre la domanda; esprimere un’opinione, una posizione, un’identità, e pretendere dalla comunità che le venga dato valore. La chiave del valore risiede infatti nell’agire in suo nome. Poiché nulla è di valore, immutabilmente, se nessuno gliene dà. C’è dunque un elemento performativo integrato nell’ontologia del valore. Tale performatività del valore è la nostra parte di lavoro, laddove ogni gesto etico contiene sempre una prestazione valoriale. Siamo rimandati ogni volta, nelle scelte personali, a quel momento in cui sappiamo, al di là di ogni reificazione, che valore hanno per noi le cose – e quale gli diamo con le nostre azioni.

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di Francesco Venturi
  • Francesco Venturi è un musicista e compositore italiano. Dal 2019 è ricercatore alla Kingston University di Londra, con uno studio sulla relazione tra vocalità estrema e identità trasgressive. Come cantante, alterna la sperimentazione alla lirica, e presta la sua voce in opere d'arte, film e progetti interdisciplinari nelle arti performative. È autore di colonne sonore per il cinema documentario e per il teatro. Attivo come curatore musicale, è codirettore artistico di Spettro a Brescia e lavora presso la Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo.
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