Sougwen Chung, Assembly Lines, 2022.
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Il Numogramma Decimale

H.P. Lovercraft, Arthur Conan Doyle, millenarismo cibernetico, accelerazionismo, Deleuze & Guattari, stregoneria e tradizioni occultiste. Come sono riusciti i membri della Cybernetic Culture Research Unit a unire questi elementi nella formulazione di un «Labirinto decimale», simile alla qabbaláh, volto alla decodificazione di eventi del passato e accadimenti culturali che si auto-realizzano grazie a un fenomeno di “intensificazione temporale”?

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Hypernature. Tecnoetica e tecnoutopie dal presente

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Ecosistemi cognitivi
Magazine, PLANARIA - Part II - Giugno 2023
Tempo di lettura: 23 min
Raffaele Guarino

Ecosistemi cognitivi

Ovvero l’individuo come rete autopoietica.

Shoshanah Dubiner, Green Pond, 2010.

“Il mondo è come te lo metti in testa”

Nel film Everything everywhere all at once, la protagonista scopre l’esistenza di alcuni universi paralleli generati dopo ogni scelta avvenuta nel corso della sua vita. Ognuno di questi rappresenta una versione di lei che ha preso esattamente la decisione opposta. Attraverso una tecnologia sviluppata in uno di questi universi, Michelle Yeoh ha la possibilità di fare visita alle diverse versioni di sé e acquisirne le capacità e le competenze. Le sliding doors, come il trasferimento della mente in corpi diversi, rappresentano uno dei topoi più diffusi nel panorama fantascientifico e sono, per questa ragione, perfette rappresentazioni sia delle fantasie più diffuse che del metodo scientifico maggiormente affermato basato sulla separazione tra soggetto e oggetto. In questo caso, la trama del film è un utile stratagemma per mettere in risalto quei caratteri del pensiero che riguardano i concetti di individuo e degli universi spazio-temporali che questo attraversa. La possibilità di trasferimento della propria individualità in corpi diversi presuppone, infatti, la possibile separazione tra il processo cognitivo, affidato dall’immaginario collettivo al cervello, e la macchina motrice, ovvero il corpo. Non è un caso che nel film la tecnologia che consente il trasferimento sia un dispositivo da indossare proprio sulla testa. Da questa prospettiva, il sistema nervoso è la sede del governo centrale dell’individualità e può essere ospitato da diverse macchine corporee da utilizzare in base alle informazioni in suo possesso. In questa visione si presuppone anche che i prodotti dei processi cognitivi, come per esempio le abilità nella lotta, siano codificati in una sequenza di informazioni acquisibili da chiunque sia in grado di decifrarla. Infine, gli ambienti che questo attraversa, gli universi paralleli, sono preesistenti alla sua comparsa. In questo saggio, non si intende dimostrare l’ovvia impossibilità fisica di tutto ciò, quanto piuttosto sfidare quel dualismo cognitivo che permette di separare l’individuo dalla sua individualità, la mente dalla sua materialità corporea, ovvero il processo cognitivo dalla sua materializzazione. Lo stesso dualismo che consente la separazione dell’individuo dal suo ambiente. Nel farlo, si vuole analizzare ciò che caratterizza tutti i sistemi viventi, cercando di portare alla luce come la cognizione non sia una prerogativa umana, né soltanto degli organismi dotati di sistema nervoso. Infatti, come afferma Maturana, «i sistemi viventi sono sistemi cognitivi, e il vivere in quanto processo è un processo di cognizione».11Humberto R. Maturana, Francisco J. Varela, Autopoiesi e cognizione: la realizzazione del vivente, Marsilio, Padova, 1985.

L’articolo prende avvio da una rilettura delle teorie dell’autopoiesi, al fine di analizzare i sistemi biologici nel loro rapporto coevolutivo con l’ambiente abiotico. Attraverso la lente della biologia cognitiva, si intende analizzare i concetti di “individuo” e “individualità” in un’ottica ecosistemica, ovvero come prodotto di una rete, ma, allo stesso tempo, appartenenti a una rete più grande, quella dei sistemi viventi. Per questa ragione, si è voluto esplorare l’ipotesi di considerare l’individuo come un sistema complesso e la relativa individualità come una proprietà emergente dello stesso sistema. Le proprietà emergenti fanno riferimento alle capacità che un sistema sviluppa ma che non possono essere attribuite a nessuna delle sue componenti. Un totale maggiore della somma delle parti. Come vedremo più avanti, la rilettura delle teorie dell’autopoiesi consente di risemantizzare problemi riguardanti l’individuo e sé stesso, l’individuo e le sue interazioni con l’ambiente e altre forme di vita, nonché l’individuo e la società che integra. Da questo punto di vista non è possibile separare una sorta di individualità da un corpo ospitante perché l’individualità è perennemente prodotta dal sistema in tutte le sue dimensioni. Attraverso la lettura dei sistemi in termini di reti auto-organizzate e auto-producenti è possibile decentralizzare il processo cognitivo, spodestando il sistema nervoso, e riabilitare la cognizione in chiave psicologica, piuttosto che logica.

Se rivolgiamo lo sguardo al passato, possiamo notare come la biologia sia stata spesso utilizzata come argomentazione per supportare teorie sociali. Lo sviluppo e l’adozione da più parti dei concetti di “evoluzione” e di “selezione naturale”, così come formulati da Darwin, sono serviti per giustificare scientificamente la subordinazione degli individui alla specie. Da questo punto di vista, sembrò che il ruolo degli individui fosse unicamente quello di contribuire alla perpetuazione della specie e, quindi, che tutto quanto si dovesse fare, tutto ciò che le istituzioni sociali dovessero fare, fosse lasciare che i fenomeni naturali seguissero il loro corso. In effetti, le idee di competizione per le risorse e di adeguatezza al contesto naturale fittavano perfettamente con una società fondata sulla discriminazione economica. Inoltre, la sottomissione degli individui alla specie era perfetta per legittimare diversi tipi di sottomissioni: quella dell’individuo allo stato e alla società, ma anche la subordinazione tra individui per status sociale e, specialmente, per genere. In questo modo, la biologia forniva la giustificazione scientifica delle strutture economiche e sociali che producevano (e producono) schiavitù, disuguaglianze economiche e deprivazioni materiali. Come vedremo nel testo, i concetti introdotti da Maturana e Varela riguardo la fenomenologia biologica ribaltano la prospettiva: senza individui non vi è alcuna specie. L’enfasi posta dagli autori sull’organizzazione dei sistemi viventi piuttosto che sulle proprietà delle parti che li compongono permette, a mio avviso, di compiere un salto da una conoscenza oggettuale, tipica del modello cartesiano, a una relazionale, tipica invece degli approcci ecologici e olistici. Come infatti affermano gli stessi autori, «biologicamente gli individui non sono trascurabili» (Maturana e Varela, 1985 – p.177).     

 

H.R. Maturana & F.J. Varela, Copertina del saggio “Autopoiesi e Cognizione – La realizzazione del vivente”, 1985.

“Tutto quello che è detto è detto da un osservatore”

Inizia così il terzo capitolo del saggio Biologia della cognizione di Humberto Maturana. Quello che potrebbe sembrare un tentativo di giustificazione rappresenta piuttosto il vero e proprio fondamento epistemologico delle teorie biologiche successivamente esposte. Maturana ci tiene a evidenziare come ogni analisi, specie di tipo scientifico, sia innanzitutto il frutto di un processo cognitivo di un sistema vivente che, in quanto tale, è “ingabbiato” all’interno di un dominio cognitivo sia bio-fisico che socioculturale. L’anatomia del corpo umano, infatti, definisce un preciso range di esperienze attraversabili, un dominio di interazioni possibili. Il corpo umano, per esempio, può percepire la luce esclusivamente entro determinate frequenze d’onda, può sopportare solo specifici gradienti di temperatura e percepire unicamente ciò che è compatibile con le proprie superfici sensorie e ricettive. Allo stesso tempo, l’universo di idee, concetti e pensieri sviluppati nel corso dell’evoluzione umana, in modo geograficamente differente, influenzano il modo in cui le interazioni esperibili sono interpretate. La comprensione di ogni fenomeno biologico non può, quindi, fare a meno di rendere conto del ruolo dell’osservatore nell’osservazione dell’oggetto osservato. In questo modo, il dominio cognitivo dell’osservatore consente di definire ciò che può e ciò che non può essere osservato come ciò che può e ciò che non può essere spiegato attraverso un dato corpo di concetti teorici. Questo perché il processo cognitivo risiede nella capacità di distinzione, ovvero di differenziare un’unità dallo sfondo dal quale lo si distingue, attribuendo sia all’unità che allo sfondo le proprietà che specificano la loro separabilità. 

Il saggio Autopoiesi. L’organizzazione del vivente di Maturana e Varela comincia proprio così: «Un universo nasce quando uno spazio è tagliato in due. Un’unità è definita» (Maturana e Varela, 1985 p.125). Il fondamento epistemologico risiede qui. Tale distinzione fa tuttavia riferimento al dominio cognitivo dell’osservatore e non dell’osservato. Attraverso questa prospettiva è possibile, per esempio, analizzare il funzionamento del sistema cardiocircolatorio, distinguendo le parti che lo compongono e definendone le funzioni. Le proprietà che il sistema sviluppa se considerato nel suo insieme, però, non possono essere comprese se non poste nel contesto dell’intero funzionamento del corpo umano. Allo stesso modo, le funzioni ecosistemiche svolte da una specie all’interno di una nicchia ecologica possono essere descritte attraverso la morfologia dei corpi biologici in cui si materializzano, ma non possono essere comprese se la specie non è posta nel contesto ecosistemico che occupa. In generale, possiamo affermare che è possibile analizzare un sistema scomponendolo nelle sue parti e stabilire così tra di loro relazioni, funzionali e non, che li legano. È necessario, però, fissare nella mente che le relazioni così descritte fanno riferimento esclusivamente al dominio cognitivo dell’osservatore e non hanno nulla a che vedere con l’organizzazione del sistema in sé. In altre parole, le relazioni sono formate da categorie cognitive che sono proprie del sistema biologico che le ha prodotte e che osserva il fenomeno. È solo e soltanto l’osservatore che può descrivere lo scopo e la funzione delle parti, che esistono, quindi, unicamente per ragioni descrittive, ovvero epistemologiche. Le componenti non esistono in funzione di un altro componente da alimentare o come prodotto di un sistema alimentante, tantomeno per la totalità del sistema che solo l’osservatore esterno può osservare: il componente esiste per sé. Detto in altre parole, le componenti sono un espediente linguistico adottato dall’osservatore, da noi, in questo caso, per rendere comprensibile il funzionamento del sistema. Non è un caso, infatti, che l’anatomia dei corpi umani sia stata analizzata inizialmente sui cadaveri permettendo così di stabilire nessi meccanici tra i vari sistemi digerenti, cardiocircolatori, nervoso e immunitario.22Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 2012.
Le proprietà di un corpo umano vivo sono però maggiori di quelle che è possibile osservare in un cadavere. Quando un osservatore analizza un’unità in parti, distrugge quelle relazioni reali che sono significanti per la loro caratterizzazione. Un corpo umano vivo, ma in generale ogni sistema vivente, deve necessariamente essere analizzato nel suo dominio fenomenologico, ovvero quando è vivo, quindi all’interno del campo delle sue interazioni possibili, interne ed esterne. Solo in questo modo è possibile far emergere il carattere peculiare della vita, ovvero quello di essere una rete autopoietica.  

F.Capra, Rappresentazione di un iperciclo catalitico, 2017

Se consideriamo la struttura di una macchina, qualsiasi essa sia, vivente o non, possiamo definire le relazioni di costituzione (di cosa è fatta), di specificazione (cosa fanno le parti) e di ordine (ovvero la concatenazione di processi) che ne spiegano il funzionamento. Il discrimine che fa della macchina un sistema vivente è il processo produttivo delle sue parti. Una bicicletta, infatti, necessita di processi produttivi indipendenti che ne consentano la costituzione. In un sistema vivente, invece, le componenti sono prodotte internamente dalla macchina stessa. Per questo motivo, una bicicletta è un sistema allopoietico, perché trova fuori da sé l’origine e il fine del suo funzionamento. All’interno dei corpi umani, ogni sistema può essere considerato allopoietico se visto in funzione dell’intero sistema. È il caso visto precedentemente nell’analisi dei cadaveri. Tuttavia, se analizzati come sistema in sé, ognuno di essi può essere considerato come un sistema autopoietico, perché riproduce sé stesso autonomamente. Ogni organo, come per esempio il cuore, può essere visto come sistema autopoietico, perché rigenera al suo interno le sue componenti assicurandosi l’automantenimento. Lo stesso organo, lo stesso cuore, è formato al suo interno da unità autopoietiche, le singole cellule, che si riproducono attraverso processi diversi ma in grado di mantenere la stessa auto-organizzazione.33Fritjof Capra, Pier Luigi Luisi, Vita e natura: una visione sistemica, Aboca Edizioni, Milano, 2014.
L’intero sistema, l’intero corpo, infine, può essere considerato come sistema autopoietico perché riproduce le proprie componenti all’interno dei suoi confini garantendosi il mantenimento. L’autopoiesi è persino alla base di una delle principali teorie riguardo l’origine della vita sul nostro pianeta.44Lynn Margulis, Symbiosis in cell evolution: Life and its environment on the early earth, W.H. Freeman & Company, US, 1981.
Seguendo tale teoria, la comparsa delle cellule nucleate fu originata grazie alla capacità di una cellula di sviluppare la propria autopoiesi all’interno di una cellula simile. Il perdurare di questa interazione ha così permesso la formazione di un sistema dotato di un grado di complessità superiore e che questo si sia successivamente evoluto, allo stesso modo, in configurazioni multicellulari.

i sistemi viventi come reti autopoietiche

La definizione dei sistemi viventi come reti autopoietiche ha conseguenze fondamentali. Innanzitutto, il sistema vivente così definito è un sistema auto-organizzato, ovvero non è sotto il controllo e il dominio cognitivo dell’osservatore, come abbiamo visto, che ne stabilisce scopo e funzione rispetto al suo punto di vista, ma non è nemmeno semplicemente esplicabile attraverso il contenuto genetico delle sue parti. La genetica, infatti, può “solo” specificare il dominio delle interazioni che il sistema può attraversare e il range di deformazioni che può sopportare, senza disintegrarsi, ma non determina in nessun caso la fenomenologia del sistema stesso. Tutto il dispiegarsi del sistema è necessariamente subordinato al mantenimento della circolarità di base. Questo concetto è più ampio della semplice visione di “istinto di sopravvivenza”, in quanto non solo presuppone un carattere conservativo dell’auto-organizzazione, il restare in vita, ma è anche, se non soprattutto, il carattere innovativo. Il carattere che determina evoluzione e trasformazione dell’autopoiesi è proprio il processo cognitivo che, come vedremo, non è un accumularsi di informazioni, quanto piuttosto il processo di interazioni ripetute con l’ambiente.

Infine, è utile considerare un aspetto dell’autopoiesi che ha ripercussioni anche sull’interpretazione dell’attuale crisi ecologica. Perché una rete autopoietica sopravviva è necessario che sia garantita l’autopoiesi delle sue componenti, ovvero che siano assicurati i suoi processi di (ri)produzione. La capacità di autoregolazione fa sì che il sistema si trovi sempre dentro parametri chimico-fisici che ne permettono la sopravvivenza e l’autopoiesi delle sue parti. In ogni caso, l’autoregolazione non è funzione di nessuno di questi parametri che non possono rappresentarne la variabile critica. Se prendiamo per esempio i corpi umani, spesso la temperatura è utilizzata come indicatore dello stato di salute dell’individuo. Si potrebbe quindi pensare che la capacità omeostatica del corpo sia quella di mantenere la temperatura entro questo determinato range. In realtà, per quanto questo sia anche vero, la capacità omeostatica è ancora più complessa. Essa risiede proprio nell’abilità del sistema vivente di mantenere la circolarità di tutti quei processi (ri)produttivi interni in modo tale che il sistema, nel suo complesso, non superi mai le soglie critiche non solo di temperatura ma anche di pressione sanguigna, peso corporeo, densità di grasso eccetera. Si può rintracciare questa linea interpretativa anche quando allarghiamo lo sguardo all’attuale crisi climatica. Tutti gli accordi internazionali sul clima, infatti, hanno come obiettivo quello di evitare l’innalzamento della temperatura del pianeta Terra, individuando, quindi, in essa la variabile da tenere sotto controllo. Se non si considerano, però, i meccanismi di (ri)produzione del sistema Terra, specie umana e relativo sistema economico incluso, difficilmente questi obiettivi saranno raggiunti.55Alevgul H. Sorman, Mario Giampietro, The energetic metabolism of societies and the degrowth paradigm: analyzing biophysical constraints and realities, «Journal of cleaner production», 38, 2013, pp. 80-93.

 

L’individuo e l’ambience come accoppiamento strutturale

L’interpretazione dell’individuo come rete autopoietica permette di risignificare il concetto di selezione naturale all’origine delle teorie evoluzionistiche. Non si tratta più di considerare la pressione della selezione nei termini di vincoli ambientali esterni all’organismo per cui la capacità di adattamento determina una maggiore o minore possibilità di sopravvivenza. Si tratta, piuttosto, di considerare la rete autopoietica nei termini di accoppiamento, tra e con unità autopoietiche e non. Il processo cognitivo dei sistemi viventi si materializza, infatti, nella definizione di un campo di comportamenti che determinano un dominio chiuso di interazioni. Il processo cognitivo è alla base dell’accoppiamento perché si materializza nella condotta dell’organismo che induce un cambiamento negli organismi e nell’ambience con cui interagisce. In questo modo, il processo cognitivo non consiste nell’apprendimento di un universo indipendente, ma si realizza in un modo di condotta. Il comportamento, come processo cognitivo, è alla base della coevoluzione degli organismi viventi e la parte abiotica. 

Ne deriva che le differenze tra specie in merito al processo cognitivo riguardano le possibili interazioni in cui possono entrare, ma non la natura del processo stesso. L’espediente linguistico è, per esempio, un dominio di interazioni possibile, ma non l’unico entro cui si muove il processo cognitivo. Il linguaggio naturale, d’altra parte, è proprio un adeguamento di comportamenti, è il dispiegarsi del processo cognitivo nel corso del tempo attraverso, appunto, il suo materializzarsi nel comportamento. Attraverso l’interazione, i sistemi viventi possono dare luogo a una concatenazione di comportamenti allacciati, ma è possibile che i sistemi viventi facciano di più. Mi riferisco a quello che, prima di imbattermi in Maturana e Varela, mi piaceva chiamare un universo semantico comune. Attraverso questa formulazione intendevo riassumere quella serie di rappresentazioni ambientali che hanno permesso il co-evolversi di specie attraverso le più disparate forme, come per esempio le sinergie tra i funghi e le piante in una foresta, tra gli insetti e i vegetali, ma anche il salto di specie tra i lupi e i cani. Intendevo, cioè, un sistema di informazioni ambientali, temperatura, pressione, ma anche sistemi di idee che erano trasmesse ai propri simili e non. La lettura di Maturana e Varela ha sconvolto questa visione, complessificandola. Il linguaggio naturale non è, e non può essere, infatti, la denotazione di entità indipendenti. Esso è, piuttosto, l’adeguamento di comportamenti. Se intendessimo, infatti, il linguaggio come una trasmissione di informazioni, presupporremmo una univocità tra significante e significato, come avviene, per esempio, in tutto il linguaggio informatico. In questo caso, la comunicazione è prettamente denotativa perché la struttura inviante e la struttura ricevente devono necessariamente avere lo stesso dominio cognitivo, lo stesso codice interpretativo, perché ci sia interazione. Perché ci sia comunicazione tra i sistemi viventi, invece, non è necessario che il dominio cognitivo combaci, anche se è necessaria una parte coincidente. 

«Se sembra accettabile parlare della trasmissione di informazioni nel parlare ordinario, ciò avviene perché chi parla, tacitamente, assume che l’ascoltatore sia identico a lui e quindi che egli abbia il suo stesso dominio cognitivo (ciò che non si dà mai), meravigliandosi quando sorge un “fraintendimento”» (Maturana e Varela, 1985 – p.88).

Maturana e Varela sostengono che il linguaggio naturale abbia, quindi, una natura connotativa.66Un esempio classico di differenza tra denotazione e connotazione è l’uso delle parole “padre”, “patrigno”, “genitore”. Tutte queste denotano lo stesso significato, indicano cioè lo stesso concetto definibile attraverso un dizionario. La connotazione riguarda invece tutte le diverse accezioni, le varie interpretazioni, che l’uso del termine, in diversi contesti, può assumere a prescindere dalla loro codifica.
In questo modo, spostano l’attenzione da quello che era l’inviante dell’informazione a quello che era il ricevitore. Se il linguaggio si sostanzia in un comportamento, significa che un sistema vivente attraverso la sua condotta offre una descrizione del suo ambiente a un possibile osservatore. Quest’ultimo interpreta il comportamento del primo e può inferire da esso il “messaggio” che voleva essere trasmesso. L’utilizzo di “vecchie parole” risulta necessario per mostrare le differenze di approccio ma nasconde anche la necessità di una nuova grammatica ecologica. Maturana parla infatti del linguaggio come un “comportamento orientante” lasciando adito a facili ambiguità. Quello che potrebbe sembrare una sorta di eterodirezione indica in realtà soltanto che il comportamento, come materializzazione del linguaggio, come forma comunicativa, implica nel soggetto che entra in relazione l’obbligo di una scelta, quella interpretativa. È solo e soltanto in questo che il comportamento è orientante. Come scrive Maturana, infatti, «le interazioni linguistiche orientano l’ascoltatore entro il suo dominio cognitivo, ma non specificano il corso della condotta che ne seguirà» (Maturana e Varela, 1985 – p.101). Il secondo soggetto può sempre scegliere di non interagire in questo dominio linguistico. Se, invece, il secondo soggetto interagisce, essi acconsentono alla nascita di quello che Maturana e Varela chiamano un «dominio linguistico consensuale». È incredibilmente affascinante pensare che il consenso sia alla base della comunicazione, del linguaggio naturale, che sia un concetto che travalica la specie umana e sia invece alla base dell’evoluzione dei sistemi viventi. La creazione di un dominio linguistico consensuale, infatti, sostanzia l’accoppiamento strutturale in quanto permette il perdurare delle interazioni. Tutto ciò senza che avvenga la perdita di autonomia da parte dei soggetti interagenti, ma anzi, il linguaggio naturale, come sistema di interazioni, fa del consenso e della cooperazione le sue relazioni costituenti. 

 

“Dopo questo, il mondo è un luogo diverso”

Lo stupore per quanto detto riguardo al linguaggio è ben riassunto da Stafford Beer, nell’introduzione al saggio Autopoiesi. L’organizzazione del vivente. Il concetto di informazione e la relativa trasmissione attraverso codifica e decodifica rappresentavano, per tutto il movimento cibernetico, il fondamento epistemologico nonché il principio operativo. Non a caso, per la cibernetica, il dispiegarsi della vita poteva essere spiegato attraverso il contenuto informativo sintetizzato nel codice genetico. In questo modo, l’obiettivo della riproduzione era la preservazione delle informazioni, ovvero attraverso la trasmissione dei geni. Da questa prospettiva, l’invecchiamento e la morte dei tessuti, finanche la morte degli organismi, risultano insignificanti. La natura connotativa del linguaggio sconvolge questa visione perché il codice genetico non ha un vero e proprio contenuto informativo ma specifica unicamente un dominio fenomenologico per l’organismo. Ciò assume ancora maggiore importanza se pensiamo alle recenti scoperte dell’epigenetica secondo cui i principali determinanti del dispiegarsi della vita di un organismo sono da ricercarsi proprio in quella parte del DNA che non codifica le proteine necessarie alla sua riproduzione. L’epigenetica ha, infatti, dimostrato che è proprio l’interazione tra l’organismo e il proprio ambiente a permettere l’attivazione o l’inibizione di enzimi in maniera situazionale e non aprioristica come ha da sempre sostenuto la genetica.77Margaret Lock, Recovering the body, «Annual Review of Anthropology», 46, 2017, pp. 1-14.
Come conclude lo stesso Beer: «La natura non ha a che fare con i codici: noi osservatori inventiamo codici per codificare ciò che riguarda la natura» (Maturana e Varela, 1985 – p.120).

Se il dispiegarsi della vita non è da riferirsi al contenuto genetico/informativo, allora i concetti di “riproduzione” e di “evoluzione” assumono un nuovo significato. Evidentemente, entrambi sono responsabili della diversità delle forme con cui i sistemi viventi si materializzano, ma il loro ruolo è subordinato alla produzione dell’unità nella sua organizzazione circolare-autopoietica. La sovversione dell’individuo nei confronti della specie risemantizza il significato dell’evoluzione e della riproduzione biologica nella storia naturale. Come affermano Maturana e Varela: 

«La riproduzione richiede l’esistenza di un’unità da riprodurre, ed è necessariamente secondaria all’istituzione di una tale unità; l’evoluzione richiede la riproduzione e la possibilità di cambiamento, attraverso la riproduzione di ciò che evolve, ed è necessariamente secondaria all’istituzione della riproduzione» (Maturana e Varela, 1985 – p. 153). 

In quella che, a mio avviso, sembra essere una risposta all’antica questione del “è nato prima l’uovo o la gallina?”, risiedono conseguenze che travalicano i confini della biologia. Se il ruolo dell’individuo non è la perpetuazione della specie, allora la riproduzione non può che essere parte della stessa rete autopoietica che (ri)produce l’unità“…Se il ruolo dell’individuo non è la perpetuazione della specie, allora la riproduzione non può che essere parte della stessa rete autopoietica che (ri)produce l’unità”: «La sua origine deve essere vista e capita come secondaria e indipendente dall’origine dell’organizzazione vivente» (Maturana e Varela, 1985 – p. 157). Le unità prodotte e quelle producenti sono entità indipendenti ma sono “figlie” dello stesso processo, di cui entrambe sono “componenti” costitutive. Maturana e Varela parlano, infatti, di “complicazione dell’unità”, un’espressione che fa un po’ sorridere perché, oltre a richiamare la complessità della riproduzione in tutte le sue sfere, esprime anche, nella sua semplicità, la vera natura del processo riproduttivo per l’unità, ovvero come un processo interno alla vita dell’individuo. Non il suo fine, né la funzione a cui aspira, ma un processo interno, che, non essendo costituente, può avvenire come non avvenire, senza per questo necessariamente compromettere la prosecuzione della specie. L’auto-riproduzione è semplicemente la materializzazione di una fenomenologia sempre nuova e, in ogni caso, in qualche modo, unica. 

La sovversione dell’individuo nei confronti della specie ha forti implicazioni anche riguardo il ruolo di genere all’interno della specie umana. Il carattere patriarcale dell’attuale sistema economico ha, infatti, storicamente affidato il lavoro e la cura necessaria alla auto-riproduzione unicamente alle “femmine” della specie. In questo modo, sono stati giustificati interi istituti sociali volti alla limitazione delle libertà individuali delle donne al fine di garantire la trasmissione genetica. In realtà, la subordinazione dell’individuo alla specie non ha fatto nient’altro che garantire la sopravvivenza di quei meccanismi gerarchici di sopraffazione necessari al mantenimento del potere da parte di chi (tendenzialmente uomini) occupava le alte sfere delle istituzioni sociali che rappresentavano determinati ideali. D’altra parte, la lettura autopoietica afferma che l’autonomia e l’autodeterminazione dell’individuo sono caratteri necessari, e non accidentali, di un sistema sociale. In questo modo, comprendiamo come l’autopoiesi possa rappresentare un interessante punto di caduta comune per l’analisi delle forze di riproduzione umane ed extra-umane.88Stefania Barca, Forces of reproduction: Notes for a counter-hegemonic Anthropocene, Cambridge University Press, 2020.

 

Illustrazione originale dal libro “El árbol del conocimiento”, 1984. Il libro non specifica l’autore dell’illustrazione.

E se anche il capitalismo fosse una rete autopoietica?

Il concetto di rete autopoietica è di una forza dirompente in quanto può essere utilizzato per spiegare il funzionamento dei sistemi viventi dal livello microbiotico a quello multicellulare. Maturana e Varela, primi tra tutti, si sono interrogati quindi sulla possibilità di traslare lo stesso concetto sulle reti sociali. In altri termini, la domanda che si pongono è se la società può essere o meno considerata una rete autopoietica. I due autori, in questo caso, non concordano sulla risposta da dare e si limitano a esporre le ragioni di questa loro divergenza.  Come abbiamo detto, i sistemi autopoietici (e non) possono integrarsi tra loro andando a formare sistemi di secondo ordine. In questo caso, gli individui, nella loro autopoiesi, rivestono il ruolo, allopoietico, di mantenimento della circolarità di base per il sistema di ordine superiore. Queste considerazioni portano, inevitabilmente, a un interrogativo di tipo logico che possiamo riassumere così: i casi sono due: a) se la società è una rete autopoietica, allora l’autopoiesi delle componenti, degli individui, è una condizione necessaria. La modalità con cui l’autopoiesi sociale si materializza, in termini culturali e politici, è allora peculiare al sistema sociale in oggetto, e non intrinseca a essa, ovvero non si riferisce alla sua organizzazione circolare. Tuttavia, b) se non consideriamo i sistemi sociali come rete autopoietiche, allora l’autopoiesi individuale diventa intrinsecamente non necessaria. La prima fa riferimento alla posizione di Maturana, mentre la seconda a quella di Varela.

la domanda è se la società può essere o meno considerata una rete autopoietica

Ciò su cui si interrogano i due autori fa riferimento al modo di (ri)produzione (economico e sociale) in cui si materializza un sistema sociale. A mio avviso, nella versione di Maturana è possibile scovare quel tratto di marxismo in cui si dimostra, attraverso la nota legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, che un sistema votato all’accrescimento del profitto tende a mantenere ai livelli di sussistenza quella parte del lavoro vivo (gli individui-lavoratori/-trici). Inoltre, riconoscere il meccanismo di auto-riproduzione degli individui come determinanti nella costituzione di un sistema sociale permette di riconoscere: 1) il lavoro necessario nella riproduzione della forza-lavoro, come tutta la prima ondata del femminismo degli anni ’70 ha provato a ribadire;99Silvia Federici, Calibano e la strega: le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis, Milano, 2020.
2) il lavoro necessario nella riproduzione degli ecosistemi, operato da una moltitudine di agenti extra-umani che l’appropriazione capitalista deve necessariamente non riconoscere (e quindi non valutare/pagare) perché vi sia profitto.1010Jason Moore, Capitalism in the Web of Life: Ecology and the Accumulation of Capital, Verso Books, London, 2015.
D’altra parte, Varela potrebbe obiettare che, se il capitalismo, come sistema sociale, deve necessariamente distruggere gli ecosistemi, oltre agli individui umani, perché sia funzionante, allora questo non può essere considerato come una rete autopoietica, perché può fare a meno, in qualche modo, delle sue componenti per sopravvivere. 

Personalmente credo che l’interpretazione autopoietica dei sistemi sociali sia di aiuto nella sintesi di un pensiero ecologico in grado di analizzare la rete della vita comprendendo il modo di produzione della specie umana.“…Personalmente credo che l’interpretazione autopoietica dei sistemi sociali sia di aiuto nella sintesi di un pensiero ecologico in grado di analizzare la rete della vita comprendendo il modo di produzione della specie umana.” Probabilmente, il fatto che più sconcerta da questo punto di vista è che, se consideriamo il sistema produttivo come un sistema autopoietico, allora dobbiamo accettare che questo sia in qualche modo “vivo”, per quanto questa definizione ci suoni strana. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che abbiamo sempre dato alla vita quella accezione storica di evoluzione delle specie che non considera l’individualità, l’autonomia e l’autodeterminazione dei suoi individui. D’altra parte, se un’istituzione sociale è autopoietica, allora questa è dotata di un’individualità nel senso biologico che abbiamo visto prima: «Non è solo l’assemblaggio casuale di parti interessate» (Maturana e Varela, 1985 – p. 123). Tuttavia, credo che l’interpretazione autopoietica apra a nuove frontiere di lotta in cui esseri umani e non sono chiamati alla definizione di un nuovo dominio linguistico consensuale. Un dominio in cui l’autopoiesi di un’unità crea l’ambiente idoneo all’autopoiesi di tutte le altre unità. Un universo in cui i concetti di individuo, specie, ma anche territorio, stato-nazione, assumono un nuovo significato. Una risignificazione che coinvolge la moltitudine delle forme di vita extra-umane nelle forme dell’accoppiamento strutturale in cui cooperazione e consenso sono elementi costituenti. 

«Una società umana, nella quale vedere tutti gli esseri umani equivalenti a sé stessi e amarli, è operativamente legittima senza che si domandi loro una rinunzia di individualità e autonomia maggiore di quanto uno possa accettare per sé stesso mentre la integra come osservatore – è un prodotto dell’arte umana, cioè, una società artificiale che ammette cambiamento e accetta ogni essere umano come indispensabile. Una tale società è necessariamente una società non gerarchica per la quale tutte le relazioni di ordine sono costitutivamente transitorie e circostanziali nella creazione di relazioni che continuamente negano l’istituzionalizzazione dell’abuso umano. Una tale società è nella sua essenza una società anarchica, una società fatta per e da osservatori che non rinuncerebbero alla loro condizione di osservatori in quanto loro unica pretesa alla libertà sociale e al mutuo rispetto» (Maturana e Varela, 1985 – p. 44). 

 

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di Raffaele Guarino
  • Raffaele Guarino, Ph.D. presso la UNESCO Chair in “Environment, Resources and Sustainable Development” all’Università Parthenope di Napoli. La mia ricerca si concentra principalmente sull’interpretazione del processo economico come processo metabolico, nel tentativo di una sintesi tra le scienze sociali e quelle naturali. I miei interessi di ricerca spaziano dalla fisica dei sistemi complessi alle teorie del valore, in particolare quelle dell’energia-lavoro.
Bibliography

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