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Politiche dell’arte: l’arte contemporanea e la transizione verso la post-democrazia
Magazine, ASSEDIO - Part I - Ottobre 2016
Tempo di lettura: 10 min
Hito Steyerl

Politiche dell’arte: l’arte contemporanea e la transizione verso la post-democrazia

Il primo contenuto prodotto in occasione di Fansub Sessions, un progetto di CLOG in collaborazione con KABUL magazine, consistente nella traduzione collettiva e successiva diffusione di saggi di artisti e critici contemporanei. A ogni 'fansub' realizzato, corrisponderà un incontro presso CLOG in approfondimento ed espansione dei testi tradotti.

Hito Steyerl, The Wretched of the Screen, «e-flux», Sternberg Press, 2012.

Una modalità standard di mettere in relazione la politica all’arte presuppone che l’arte sia, in un modo o nell’altro, una rappresentazione delle questioni politiche. Ma esiste anche una prospettiva molto più interessante: quella di guardare alle politiche del campo dell’arte intendendolo come ambito di lavoro.11Sto espandendo l’idea sviluppata da Hongjohn Lin nel suo statement curatoriale per la Biennale di Taipei del 2010. Hongjohn Lin, Curatorial Statement, in 10TB Taipei Biennal Guidebook (Taipei: Taipei Fine Arts Museum, 2010), pp. 10-11.
Semplicemente, concentrarsi su ciò che l’arte fa – non su ciò che mostra.

Tra tutte le forme d’arte, le arti visive sono state quelle più strettamente connesse alla speculazione post-fordista, con la ricchezza sfrenata e i processi di espansione e recessione che le contraddistinguono. L’arte contemporanea non è una disciplina fuori dal mondo, nascosta in qualche torre d’avorio lontana. Al contrario, è posizionata esattamente nel vivo delle dinamiche neoliberali. Non possiamo dissociare il battage pubblicitario intorno all’arte contemporanea dalle politiche shock usate per defibrillare le economie in recessione. Tale battage incarna infatti la dimensione affettiva delle economie globali legate allo ‘schema Ponzi’, alla dipendenza dal credito, a mercati al rialzo ormai passati. L’arte contemporanea è il nome di una marca senza la marca, pronto a venire schiaffato praticamente su qualsiasi cosa, un rapido lifting facciale che promuove il nuovo imperativo creativo per posti che hanno bisogno di un extreme makeover, è la suspense del gioco d’azzardo combinata con i piaceri austeri dell’educazione da collegio di alto rango, un parco giochi autorizzato per un mondo confuso e collassato da una vertiginosa deregolamentazione. Se l’arte contemporanea è la risposta, la domanda è: come si può rendere più bello il capitalismo?

Ma l’arte contemporanea non riguarda solo la bellezza. Riguarda anche la funzionalità. Qual è la funzione dell’arte all’interno delle dinamiche catastrofiche del capitalismo? L’arte contemporanea si nutre delle briciole di un’enorme e ampiamente diffusa ridistribuzione della ricchezza che va dai poveri verso i ricchi, condotta per mezzo di una continua lotta di classe dall’alto.22Ciò è stato descritto come un processo globale di espropriazione, in corso fin dagli anni Settanta. Vedi David Harvey, A Brief History of Neoliberalism (Oxford: Oxford University Press, 2005). Mentre, relativamente alla conseguente distribuzione della ricchezza, uno studio portato avanti dal World Institute for Development Economics Research of the United Nations University (UNU- WIDER), di base a Helsinki, ha determinato che nell’anno 2000 il più ricco 1 per cento degli adulti possedeva, da solo, il 40 per cento delle risorse globali. La metà inferiore della popolazione adulta mondiale possedeva l’1 per cento della ricchezza globale.
 L’arte contemporanea conferisce alla pratica primordiale dell’accumulo una boccata di appariscenza post-concettuale. Inoltre, i suoi confini si sono estesi in modo sempre meno centralizzato – i nodi importanti dell’arte non sono più localizzati nelle metropoli occidentali. Oggi, i musei decostruttivisti d’arte contemporanea spuntano in ogni autocrazia che si rispetti. Un Paese che attua delle violazioni dei diritti umani? Portate subito la Gehry gallery!

Il Guggenheim Globale è una raffineria culturale per una serie di oligarchie post-democratiche, così come lo sono le innumerevoli biennali internazionali che hanno il compito di riqualificare e rieducare la popolazione in eccesso.33Solo per un esempio di coinvolgimento oligarchico. Mentre biennali del genere girano da Mosca a Dubai e Shanghai e in molti altri dei paesi cosiddetti “in transizione”, non dobbiamo considerare che la post-democrazia sia solo un fenomeno non-occidentale. L’Area Schengen è un esempio brillante di controllo post-democratico, con un sacco di istituzioni politiche non legittimate dal voto popolare e una parte considerevole della popolazione esclusa dalla cittadinanza (per non parlare della simpatia crescente che il Vecchio Mondo ha verso i fascisti eletti democraticamente). ‘The Potosì-Principle’, la mostra in corso organizzata da Alice Creischer, Andreas Siekmann e Max Jorge Hinderer, evidenzia la connessione tra l’oligarchia e la produzione di immagini da un’altra prospettiva storicamente rilevante [http://www.museoreinasofia.es/en/exhibitions/potosi-principle-how-shall-we-sing-lords-song-strange-land (N.d.T)].
Così l’arte facilita lo sviluppo di una nuova, multipolare distribuzione di potere geopolitico, le cui economie predatorie sono spesso alimentate da oppressione interna, lotta di classe dall’alto, e radicali politiche del tipo “colpisci e terrorizza”.44[https://it.wikipedia.org/wiki/Shock_and_awe (N.d.T.)].

Perciò, l’arte contemporanea non solo riflette, ma interviene attivamente nella transizione verso un nuovo ordine del mondo post-Guerra Fredda. È l’attore principale del semio-capitalismo che avanza in maniera discontinua, dovunque T-Mobile pianti la sua bandiera. È coinvolta nell’estrazione mineraria di materiali grezzi per i processori dual-core. Inquina, gentrifica e stupra. Seduce e consuma, poi all’improvviso scappa via, spezzandoti il cuore. Dai deserti della Mongolia agli altopiani del Perù, l’arte contemporanea è ovunque. E quando finalmente viene trascinata da Gagosian, ancora grondante di sangue e sporca dalla testa ai piedi, scatena una raffica di applausi euforici.

Perché, e per chi, l’arte contemporanea è così attraente? Un’ipotesi: la produzione artistica rappresenta un’immagine speculare di quelle forme post-democratiche di ipercapitalismo che sembrano essere diventate il paradigma politico dominante post-Guerra fredda. Sembra imprevedibile, inspiegabile, sfavillante, volubile, lunatica, guidata dall’ispirazione e dal genio: esattamente come vorrebbe vedersi qualsiasi oligarca che aspiri alla dittatura. La concezione tradizionale del ruolo dell’artista corrisponde fin troppo bene all’immagine che hanno di sé gli aspiranti autocrati, che vedono potenzialmente – e pericolosamente – il governo come una forma d’arte. Il governo post-democratico ha molto a che fare con questo comportamento irregolare da artista-genio-di-sesso-maschile. È opaco, corrotto e completamente incomprensibile. Entrambi i modelli operano all’interno di strutture di solidarietà maschile, democratiche tanto quanto la cosca mafiosa locale. Stato di diritto? Perché non lasciamo decidere al gusto? Pesi e contrappesi? Assegni e saldi55[Testo originale: “Checks and balances? Cheques and balances!”(N.d.T.)].
! Buona amministrazione? Cattiva curatela! Capite perché l’oligarca contemporaneo ama l’arte contemporanea? È giusto quello che funziona per lui!

Quindi, le dinamiche tradizionali di produzione artistica possono fornire un modello per i nouveaux riches creati dalla privatizzazione, dall’espropriazione e dalla speculazione. Ma le dinamiche reali di produzione artistica sono allo stesso tempo un laboratorio per molti dei nouveaux poveri, che tentano la loro fortuna come maestri del jpeg e impostori concettuali, come “gallerinas”66[http://it.urbandictionary.com/define.php?term=Gallerina (N.d.T.)].
e fornitori nevrotici di contenuti. Perché arte significa anche lavoro, più precisamente “strike work”.77Sono attratta da un campo semantico sviluppato da Ekaterina Degot, Cosmin Costinas e David Riff per la loro prima Ural Industrial Biennal, 2010 [http://en.first.uralbiennale.ru/Biennale_169/novyj_uzel_189 (N.d.T.)].
 È lavoro prodotto come spettacolo, nel nastro trasportatore dell’all-you-can-work postfordista. Lo strike work o shock work è lavoro affettivo a folle velocità, entusiasta, iperattivo e profondamente compromesso.

Originariamente gli strike workers erano i lavoratori stacanovisti della prima Unione Sovietica. Il termine deriva dall’espressione ‘udarny trud’ che sta per ‘lavoro superproduttivo, entusiasta’ (‘udar’ per ‘shock, battito, colpo’). Ora, trasferito all’industria culturale dei giorni d’oggi, strike work si rifersce alla dimensione sensuale dello shock. Piuttosto che dipingere, saldare e plasmare, lo strike work artistico consiste nel masterizzare, chiacchierare e mettersi in posa. Questa forma accelerata di produzione artistica produce forza e sfarzo, scalpore e impatto. Le sue origini storiche come format delle brigate modello del periodo stalinista aggiungono un ulteriore livello al paradigma dell’iperproduttività. Gli strike workers sfornano sentimenti, percezione e originalità in serie, in tutte le misure e varianti possibili. Intensità o evacuazione, sublime o merda, readymade o realtà readymade – lo strike work fornisce ai consumatori tutto ciò che non sapevano ancora di volere.

Lo strike work si nutre di sfinimento e ritmo, di deadline e stronzate curatoriali, di convenevoli e clausole. Prospera inoltre sullo sfruttamento accelerato. Sono pronta a scommettere che – lavoro domestico e sociale a parte – l’arte è l’industria con la più alta quantità di lavoro non pagato. Sostiene se stessa con il tempo e l’energia di tirocinanti non pagati e attori che si auto-sfruttano praticamente a ogni livello e in quasi tutte le mansioni. Il lavoro gratuito e lo sfruttamento dilagante sono l’invisibile materia oscura che manda avanti il settore culturale.

Gli strike workers fluttuanti, sommati alle nuove (e vecchie) élite e oligarchie, formano la struttura della politica contemporanea dell’arte. Mentre gli ultimi gestiscono la transizione verso la post-democrazia, i primi la immaginano. Ma cosa indica effettivamente questa situazione? Nient’altro che le metodologie attraverso cui l’arte contemporanea è coinvolta nella trasformazione degli schemi del potere globale.

La forza-lavoro dell’arte contemporanea consiste per gran parte in persone che, nonostante lavorino in continuazione, non corrispondono ad alcuna immagine tradizionale del lavoro. Resistono ostinatamente a stabilirsi in una qualsivoglia entità, sufficientemente riconoscibile da poter essere identificata come classe. Un modo facile di uscirne potrebbe essere classificare questa rappresentanza come moltitudine o folla, mentre potrebbe sembrare meno romantico chiedersi se i suoi componenti non possano essere definiti sottoproletari-freelancer-globali, deterritorializzati e fluttuanti dal punto di vista ideologico: un esercito di riserva dell’immaginazione, che comunica attraverso Google Translate.

Invece di costituirsi come una nuova classe, questa fragile entità potrebbe anche consistere – come ha formulato malevolmente una volta Hannah Arendt – nel ‘rifiuto di tutte le classi’. Questi avventurieri espropriati descritti da Arendt, papponi e gangster urbani, pronti a venire assunti come mercenari coloniali e sfruttatori, si rispecchiano debolmente (e in modo alquanto distorto) nelle brigate di strike workers, creativi lanciati in quella sfera globale di circolazione conosciuta oggi come il mondo dell’arte.88Arendt può essersi sbagliata riguardo alla questione del gusto. Il gusto non è necessariamente una questione collettiva, così come lei sostiene, seguendo Kant. In questo contesto, è più una questione di fabbricare un consenso generale, progettare una reputazione, e altre delicate macchinazioni che – oops! – si trasformano in bibliografie storico-artistiche. Accettiamolo: la politica del gusto non riguarda il collettivo, ma il collezionista. Non parla del comune, ma del mecenate. Non parla di condivisione, ma di sponsorizzazione.
 Se riconosciamo che gli strike workers di oggi potrebbero abitare tali territori instabili – le disaster zone opache del ‘capitalismo shock’ – emerge un quadro decisamente antieroico, conflittuale e ambivalente del lavoro dell’arte.

Dobbiamo affrontare il fatto che non c’è una strada automaticamente disponibile per la resistenza e l’organizzazione del lavoro in ambito artistico, che opportunismo e competizione non sono una deviazione di questa tipologia di lavoro, ma la sua struttura intrinseca. Che questa forza-lavoro non marcerà mai all’unisono, a parte forse mentre balla sulle note di un video virale di un’imitazione di Lady Gaga. Il tempo dell’internazionale è finito. Il tempo del globale è arrivato.

Ecco la cattiva notizia: l’arte ‘politica’ ha la routine di evitare di discutere tutte queste questioni.99Certamente, ci sono molte lodevoli e ottime eccezioni e ammetto che anch’io potrei chinare il capo per la vergogna.
 Affrontare le condizioni intrinseche del campo dell’arte, così come la palese corruzione che lo caratterizza – si pensi alle tangenti per portare questa o quella biennale di larga scala in una regione periferica piuttosto che nell’altra – è un tabù addirittura per la maggior parte degli artisti che si considerano ‘politici’. Nonostante l’arte politica abbia la capacità di rappresentare le cosiddette situazioni locali di tutto il mondo, e riesca quotidianamente a impacchettare per il mondo dell’arte ingiustizie e povertà, le condizioni della sua stessa produzione ed esposizione restano piuttosto inesplorate. Si potrebbe addirittura dire che la politica dell’arte è il punto cieco di molta arte politica contemporanea.

Certo, la critica istituzionale si è tradizionalmente interessata di questioni simili. Ma oggi abbiamo bisogno di una sua vasta espansione.1010Come ho anche discusso nel testo Institutional Critique, eds. Alex Alberro and Blake Stimson (Cambridge, MA: The MIT Press, 2009). Vedi anche la raccolta di pubblicazioni della rivista online ‘Transform’.
 Diversamente dall’epoca in cui la critica istituzionale si concentrava sulle istituzioni artistiche, o anche sulla sfera della rappresentazione in generale, la produzione dell’arte (consumo, distribuzione, marketing, ecc.) assume un ruolo diverso ed esteso nella globalizzazione post-democratica. Un fenomeno esemplare di ciò, tanto assurdo quanto comune, è che l’arte radicale di oggi è sovente sponsorizzata da banche rapaci o da produttori d’armi e si trova a essere completamente connivente con le retoriche del marketing urbano, del branding e dell’ingegneria sociale.1111Recentemente in mostra all’Henie Onstad Kunstsenter di Oslo un progetto molto interessante dal titolo Guggenheim Visibility Study Group di Nomeda e Gediminas ha sciolto le tensioni tra le scene dell’arte locale (parzialmente indigene) e il sistema di franchising del Guggenheim, con l’effetto Guggenheim analizzato in dettaglio in un caso studio. Vedi anche Joseba Zulaika, Guggenheim Bilbao Museoa: Museums, Architecture, and City Renewal (Reno: Center for Basque Studies, University of Nevada, 2003). Un altro caso studio: Beat Weber, Therese Kaufmann, The Foundation, the State Secretary and the Bank – A Journey into the Cultural Policy of a Private Institution. Vedi anche Martha Rosler, ‘Take the Money and Run? Can Political and Socio-critical Art ‘Survive’?’ e-flux journal, issue 12, e Tirdad Zolghadr, 11th Istanbul Biennial.
 Per più che ovvi motivi questa condizione è indagata molto raramente dall’arte politica, che nella maggior parte dei casi si accontenta di offrire auto-etnicizzazioni esotiche, gesti efficaci e nostalgia militante.

Di certo non mi professo innocente.1212Ciò si deduce dalla pubblicazione di questo testo su e-flux come inserzione pubblicitaria. La situazione è complicata ulteriormente dal fatto che questi contributi su e-flux potrebbero avere una ricaduta positiva sulle mie mostre. Al rischio di ripetermi, vorrei enfatizzare che non considero l’innocenza una posizione politica, ma una posizione morale, e di conseguenza politicamente irrilevante. Un commento interessante su tale situazione si può trovare in Luis Camnitzer, The Corruption in the Arts / the Art of Corruption, pubblicato nel contesto di ‘The Marco Polo Syndrome’, un simposio tenuto alla House of World Cultures nell’aprile del 1995.
Nel migliore dei casi sarebbe illusorio, nel peggiore dei casi solo una strategia pubblicitaria. Soprattutto sarebbe una posizione molto noiosa. Tuttavia penso veramente che gli artisti politici potrebbero assumere maggiore rilevanza se solo si confrontassero con questi temi invece di marciare in tutta sicurezza come gli artisti realisti sotto Stalin, situazionisti à la CNN, o ingegneri sociali a metà tra Jamie Oliver e un funzionario della libertà vigilata.1313[Lo chef Jamie Oliver che assume ogni anno giovani disoccupati senza esperienza e spesso anche con precedenti penali, con lo scopo di offrire loro un futuro diverso http://www.cbsnews.com/news/jamie-oliver-why-i-hire-ex-cons-and-drop-outs/ (N.d.T.)].
 È tempo di gettare le opere d’arte-souvenir con la falce e il martello nel cassonetto dell’immondizia. Se la politica continua a venire intesa come l’Altro, che accade da qualche altra parte, sempre appartenente a comunità private dei propri diritti per le quali nessuno può veramente fare da portavoce, finiremo per perdere ciò che rende intrinsecamente politica l’arte oggi: la sua funzione come luogo di lavoro, di conflitto e… di divertimento – un posto dove si condensano le contraddizioni del capitale e dove hanno luogo equivoci estremamente interessanti e talvolta devastanti tra il globale e il locale.

L’ambito artistico è un luogo di aspre contraddizioni e di sfruttamento fenomenale. È un luogo di potere mercantile, speculazione, ingegneria finanziaria e manipolazioni corrotte su vasta scala. Ma è anche il luogo della condivisione, del movimento, dell’energia e del desiderio. Nelle sue migliori iterazioni è una strepitosa arena cosmopolita, popolata da shock worker mobili, venditori itineranti di se stessi, enfant prodige del tech, truffatori di budget, traduttori supersonici, stagisti col PhD e altri vagabondi digitali e braccianti a giornata.

L’ambito artistico è predeterminato, suscettibile, “plastic-fantastic”.1414[Testo originale: ‘hard-wired, thin-skinned, plastic-fantastic’ (N.d.T.)].
 Un potenziale spazio comune dove la competizione è spietata e la solidarietà è l’ultima espressione in lingua sconosciuta rimasta. È un mondo popolato da stronzetti affascinanti, re dei piccoli bulli, reginette di bellezza malriuscite. È HDMI, CMYK, LGBT. Pretenzioso, civettuolo, ipnotico.

Questa confusione è tenuta a galla dal puro dinamismo di mucchi e mucchi di donne che lavorano sodo. Un alveare di lavoro affettivo sotto lo stretto controllo e la regolamentazione del capitale, intrecciato indissolubilmente nelle sue molteplici contraddizioni. Tutto questo lo rende rilevante per la realtà contemporanea: l’arte ha un’azione sulla realtà perché è strettamente connessa a tutti i suoi aspetti. È disordinata, incorporata, travagliata, irresistibile. Potremmo provare a comprendere il suo spazio come politico invece di provare in continuazione a rappresentare una politica che sta sempre succedendo da qualche altra parte. L’arte non è fuori dalla politica, la politica risiede nella sua produzione, distribuzione, ricezione. Se ci prendiamo carico di questo potremmo superare il piano di una politica della rappresentazione e imbarcarci in una politica che è là, davanti ai nostri occhi, pronta ad essere coinvolta.

Questo testo è dedicato alle persone che sopportano insieme a me l’isteria digitale, la sindrome da viaggiatore e i disastri dell’installazione. Grazie specialmente a Tirdad, Christoph, David, e Freya. Anche Brian per la revisione, come sempre.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Hito Steyerl
  • Hito Steyerl è tra gli artisti e teorici più attivi della contemporaneità e le sue riflessioni sulla possibilità di pensiero critico nell’era digitale hanno influenzato il lavoro di numerosi artisti. Ha rappresentato la Germania, nel 2015, alla 56. Biennale di Venezia. La sua ricerca si concentra sul ruolo dei media, della tecnologia e della circolazione delle immagini nell’era della globalizzazione. Sconfinando dal cinema all’arte visiva, l’artista realizza installazioni in cui la produzione filmica è associata alla costruzione di ambienti immersivi e stranianti.