Antony Gormley, SLUMP II, 2019.
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Per un’urbanistica musicale
Magazine, LOCUS - Part I - Marzo 2021
Tempo di lettura: 11 min
Fiamma Mozzetta

Per un’urbanistica musicale

Dalle case popolari ad Abbey Road: mappe musicali della città post-industriale.

Stampe pubblicitarie in una strada di Londra per la mostra Sweet Harmony alla Saatchi Gallery, 2019.

 

Non servono sicuramente anni di studio, una laurea in sociologia o un master in progettazione urbana per percepire l’importanza della città e dello spazio urbano nell’andamento delle nostre vite: dall’architettura del nostro quartiere o abitazione, al percorso casa-lavoro e al mezzo di trasporto, fino alle possibilità della vita notturna. L’organizzazione dello spazio pubblico e il suo continuo rimodellamento – basato su elementi politici, sociali ed economici – costituisce il fulcro principale attraverso il quale noi sviluppiamo la nostra vita e la nostra personalità. L’architettura della città è uno strumento, uno schema mentale, una mappa individuale e collettiva dove ponti, strade, luci, ristoranti, negozi, la metro e l’autobus, e così via, conferiscono un messaggio e un valore.

Quando nel 1903 Georg Simmel scrive La metropoli e la vita dello spirito, sintetizza da un lato la crescente disparità tra vita di campagna e vita di città, e dall’altro la nuova condizione psicologica e sensoriale di quest’ultima.11Georg Simmel, Die Großstädte und das Geistesleben (Dresden: Petermann, 1903). Trad. it. Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, a c. di Paolo Jedlowski (Roma: Armando Editore, 1995).
Attraversare la strada, o la stessa vita sociale, erano due tra gli elementi urbani che rappresentavano il nuovo ritmo che era chiaramente in contrasto con la lentezza e la ritualità delle piccole città. Per farla breve: l’economia governava la nuova metropoli e i soldi organizzavano la nascita delle nuove tendenze, l’espressione della personalità e la crescita dell’identità individuale attraverso l’arte, la musica e i vestiti. Qualche anno più avanti, Kevin Lynch aggiunge, nel suo testo centrale L’immagine della città, che la rappresentazione di una città è data dalla sovrapposizione di molteplici immagini, che sono quelle dei singoli cittadini.22Kevin A. Lynch, The Image of the City (Cambridge, MA: Technology Press, 1960). Trad. it. Kevin A. Lynch, L’immagine della città, a c. di Paolo Ceccarelli (Padova: Marsilio, 1969).
Ogni individuo crea la sua immagine unica, frammentata e parziale, costruita attraverso il posizionamento dell’individuo stesso all’interno del paesaggio urbano. 

Belbury Poly, From An Ancient Star, copertina del disco, 2009.

Negli ultimi quindici o vent’anni, sono stati diversi gli studiosi, gli appassionati e i musicisti stessi che hanno riflettuto sull’importanza delle forme architettoniche, degli oggetti urbani e degli spazi (siano essi online od offline) in relazione alla popular music. Così come, a voler sottolineare l’ovvio, non sono mancate rappresentazioni della tranquilla lentezza del paesaggio rurale. Se mettiamo da parte gli appassionati e i musicisti, e ci soffermiamo sulla letteratura (accademica) notiamo che nella maggior parte dei casi ci si è concentrati in termini di sottoculture, e dell’importanza di una città, di un quartiere, di un locale nella crescita e nello sviluppo di una determinata scena o stile. Si perde il conto degli scritti che ruotano intorno alle interessanti descrizioni delle sottoculture del dopoguerra inglese di Dick Hebdige in “Subcultures: The Meaning of Style”, o a quelle di Stuart Hall e Tony Jefferson in “Resistance Through Rituals”33Dick Hebdige, Subculture: the meaning of style (London: Routledge, 1979); Tony Jefferson e Stuart Hall, a c. di, Resistance Through Rituals: Youth Subcultures in Post-War Britain (New York, NY: HarperCollins, 1975).
. Volenti o nolenti, nelle rappresentazioni successive la fruizione musicale della città ha sempre luogo nella tensione tra la cultura alternativa e il mainstream, tra l’autenticità e il conformismo. È banalmente il discorso dell’autenticità delle scene rock alternative e rap, pervase di un senso di “street credibility”, di contro alla disco come una musica vuota e commerciale per via della sua copertura geografica più ampia.44Ken Gelder, a c. di, The Subcultures Reader (Psychology Press, 2005), pp. 433-437.

Qualche anno fa, ho fatto anch’io parte di quella “maggior parte dei casi”: ho lavorato a una tesi triennale sulla relazione tra spazio urbano e scene musicali, viaggiando tra New York e Coventry, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Soffermandomi su queste due città, ho cercato di identificare le condizioni economiche, politiche e culturali che più le caratterizzavano e che hanno portato da una parte alla “nascita” del movimento punk e del no-wave, e dall’altra al revival ska e della cultura Rude Boy, quindi al Two-Tone. Ma se è vero che questa metodologia fornisce una solida e interessante prospettiva nell’analisi dello spazio, della città e della soggettività pubblica in chiave musicale, è altrettanto vero che le complessità degli spazi (ancora una volta, siano essi online od offline), delle città e dell’individuo nel 2021 richiedono di compiere un ulteriore passo in avanti. 

Mantenere la prospettiva descritta sinora, quando si mette in relazione la popular music con lo spazio urbano, implica una riduzione di possibilità. L’urbanistica musicale – se così ci piace definirla – deve non solo incorporare i metodi, le teorie e le tecniche dell’urbanistica classica, ma deve inoltre necessariamente tenere conto delle pratiche musicali e delle loro rappresentazioni. Questo significa che un’analisi a tutto tondo deve fare riferimento sia alla progettazione e alla pianificazione delle forme urbane, sia alla storia della popular music (più o meno, dagli anni ’50 a oggi), e quindi alla sua contestualizzazione e alla sua evoluzione culturale e sociale. A voler fare qualche esempio, un’analisi di questo tipo comprenderebbe l’importanza dei luoghi di socialità come locali, club, o negozi di dischi, ma anche aree e questioni a volte trascurate, quali i problemi legati all’abitazione, il turismo, il patrimonio culturale immateriale e gli spazi virtuali. 

Descrivere le complessità di queste aree su più regioni geografiche e culturali risulterebbe qui impossibile. Mi limito dunque a una brevissima introduzione ai processi legati all’abitazione e al turismo, all’interno del panorama culturale e musicale inglese. Il Regno Unito ci regala – per ragioni legate all’esteso colonialismo linguistico e culturale, ma senz’altro anche grazie alla loro bravura – la più ampia varietà di contesti (istituzionalizzati e non) dove poter riflettere, concettualizzare, e allo stesso tempo toccare con mano, le sfaccettature dell’urbanistica musicale.

Ma prima di tuffarsi in queste due aree, è necessario spendere qualche parola su quegli aspetti culturali e politici che rendono la geografia inglese, e di conseguenza la popular music inglese, ricca di eccentricità locali e controsensi nazionali. Dopo due secoli di industrializzazione, nel Regno Unito si era già cristallizzato il dominio economico e culturale che Londra esercitava sul resto dell’isola. La centralità della capitale rendeva (e rende) onnipresente il divario tra metropoli urbana e countryside: tale divario non è solo nelle differenze di opportunità per gli artisti, ma si ritrova anche nei riferimenti musicali, nella rappresentazione della “tradizione”, nella commercializzazione e appropriazione, e nella spettacolarizzazione politica. Per esempio, più o meno tra il 2009 e il 2010, si andava formando il nu-folk, cioè una forma di appropriazione della tradizione pastorale e bucolica inglese da parte dei posh, classi agiate che cercavano la tranquillità e “la gente”55Intesa appunto come folk, non come people.
 in un simbolismo vuoto. Alex Niven cita i Mumford & Sons, per capirci, ma non risparmia nemmeno Cecil Sharp66Alex Niven, Folk Opposition (London: Zero Books, 2012), pp. 25-39.
.
Ma la centralità della capitale non si esaurisce nella disparità tra classi sociali o nel binomio città/campagna“…la centralità della capitale non si esaurisce nella disparità tra classi sociali o nel binomio città/campagna”: essa è evidente anche nell’assoggettamento delle città periferiche e secondarie. Esclusa la campagna, città come Liverpool, Manchester, o Sheffield, seppur famosissime per la loro ricchezza musicale, rimangono a ogni modo vittime dello snobismo e dell’immaginazione dei londinesi.77Leonardo Nevarez, How Joy Division Came to Sound like Manchester, «Musical Urbanism» (blog), 13 luglio 2011.
 

 

Abitazione

In un articolo pubblicato sul «Guardian» qualche anno fa, Ian Wylie descrive vari spazi urbani e la loro importanza per una determinata scena o stile musicale88Ian Wylie, From Berlin’s Warehouses to London’s Estates: How Cities Shape Music Scenes, «The Guardian», 3 febbraio 2016.
.
Prendendo come esempio quattro generi specifici (il grunge, il grime, la techno e l’hip hop) il testo di Wylie sembra voler aggiungere il valore dato da un ulteriore aspetto, spesso dimenticato nelle già citate analisi della città e delle scene musicali. Non vi è infatti una diretta corrispondenza tra città e genere musicale, o almeno non senza la mediazione decisiva della tipologia di abitazione. Nel caso del grime, per esempio, l’autore indica le tower blocks dell’est di Londra. Palazzi altissimi, grigi e popolari che hanno contribuito alla nascita del genere: dall’importanza della territorialità, dai palazzi stessi al codice postale, all’appartenenza a una determinata classe sociale, a un block specifico, a un quartiere. Tutte cose che sono state (e sono) importanti quanto i riferimenti culturali e lo stile musicale.99Per un primo approfondimento sul rapporto tra il grime e l’architettura si veda l’intervista a Dan Hancox, autore di Inner city pressure: the story of Grime (London: William Collins, 2018): George Kafka, Grime and Architecture: Wot Do U Call It? Urban?, «Pin-Up Magazine», 2018.

Simon Phipps, Dawsons Heights, Lambeth, Londra.

Al di là del grime, è bene anche sottolineare l’evoluzione culturale di questi palazzoni dal loro simbolismo all’appropriazione. Le tower blocks (o council estates), costruite tra gli anni ’50 e ’60 in stile brutalista, da simboli della rinascita del secondo dopoguerra sono divenute simboli della rigidità della politica e dell’economia inglese, nonché dell’impermeabilità delle classi sociali. Nella percezione comune, se prima si trattava di case economiche che lo Stato metteva a disposizione della classe operaia, ora sono luoghi dove è meglio non andare, espressione di un fallimento architettonico e sociale. Ed è proprio questo concetto di fallimento, che guardato da un’altra prospettiva è invece edginess e autenticità, a richiamare artisti non locali. Nel grande e triste spettacolo dell’attuale rigenerazione urbana, nel dislocamento delle comunità e nella più totale crisi abitativa, questi artisti si divertono (consapevolmente o meno) a rafforzare non solo la percezione comune di questi spazi, ma anche la percezione per cui la suddivisione della società inglese in classi si rispecchia totalmente nel paesaggio urbano. Tra i più citati troviamo per esempio Damon Albarn e la sua Trellick Tower.1010Josh Hall, Council House Music: Exploiting Local Authority Architecture, «The Quietus», 5 aprile 2012.

Ma non di solo tower blocks è fatta l’Inghilterra, e le connessioni con la popular music e i sobborghi o il countryside sono altrettanto complesse e interessanti. Se come abbiamo visto le case popolari sono luoghi di creazione per gli artisti grime, le bellissime e uniformi strade residenziali ai bordi delle città rimangono essenzialmente pop. Sempre nell’immaginario collettivo, la cultura sub-urbana rappresenta un po’ lo stereotipo che tutti manteniamo della cultura inglese: bizzarro, eccentrico, ma anche un po’ ripetitivo e metodico. Pensiamo per esempio alla noiosissima routine del signor Ernold in Ernold Same dei Blur. Mentre la campagna è invece il simbolo del lato più “tradizionale” e oscuro (uncanny, come dicono loro) dell’Inghilterra ed è, non a caso, il luogo privilegiato del movimento hauntology e dell’horror folk

 

Turismo

Se trasliamo queste percezioni della geografia pop – edginess, mundane e uncanny – al settore turistico, notiamo che le distinzioni si fanno ancora più fitte e multiformi. La rigenerazione urbana e l’attuale sistema economico della città inglese post-industriale hanno infatti portato alla massima capitalizzazione del settore musicale e culturale, e il turismo (principalmente rock e pop) fornisce uno degli esempi migliori di questo processo. Sia esso istituzionalizzato o popolare, ufficiale o non ufficiale, il turismo musicale è allo stesso tempo frutto e vittima di quello che John Urry definisce “tourist gaze”1111John Urry, The Tourist Gaze (SAGE Publications, 1990).
: una fruizione visiva dello spazio che traduce il paesaggio in oggetto. Certo, la questione è chiaramente molto più complicata di come l’ho posta io qui, però tale concetto è utile a sintetizzare i processi del turismo musicale ufficiale e istituzionalizzato, che si manifesta attraverso la sua tangibilità: dalle esposizioni nei musei, ai monumenti, alle case degli artisti come siti di pellegrinaggio, alle attività locali, fino alle blue plaques – cioè quelle targhette blu che spesso si vedono sui muri di qualche strada o abitazione inglese per indicare che un artista è passato di lì.

Blue Plaque dedicata a Syd Barrett, Cambridge, 2017.

Probabilmente – e ce lo dimostra anche l’interminabile letteratura accademica prodotta sull’argomento – Liverpool rappresenta la città del turismo musicale, ufficiale e istituzionalizzato, per eccellenza. Tra i vari accademici interessati alla geografia e al patrimonio culturale di Liverpool, Sara Cohen occupa un posto d’onore. Ma è la ricerca che Cohen ha svolto insieme a Brett Lashua che in particolar modo vorrei riportare, così da toccare maggiormente il tema del turismo ufficiale e non ufficiale, che nella città di Liverpool (e non solo) si manifesta nella quasi totale assenza di riconoscimento riguardo al turismo e al patrimonio culturale relativo alla black music. È una storia già vista: l’attrazione della narrativa dominante che assieme al rigeneramento urbano finiscono per cancellare completamente (letteralmente e in senso metaforico) i luoghi di una storia alternativa. Nel caso di Liverpool, i sessanta e più luoghi dedicati al ricordo dei Beatles – vari musei, statue, tour e hotel a tema, The Cavern Club e altro ancora – richiamano turisti da tutto il mondo: aumentano l’economia e aiutano la città a rifarsi un po’ il look, non più città buia, industriale e triste. Ma così facendo offuscano tutto il resto. In breve, e parafrasando le parole di Lashua: se dovessimo riportare su una mappa musicale gli aspetti della rigenerazione urbana degli ultimi anni, risulterebbe chiara la distinzione di classe e di etnia. Ciò non lo rende estremamente diverso dalle dinamiche del turismo culturale in senso più generale, e anzi aiuta a capire che il turismo musicale si muove a tutti gli effetti sugli stessi binari: tutto ciò che non è centro – quindi emblema di un turismo “acchiappone” – viene essenzialmente escluso.1212Brett Lashua, Sara Cohen, John Schofield, Popular music, mapping, and the characterization of Liverpool, «Popular Music History», 4, n. 2 (16 novembre 2010): 126-44.

Questo ci riporta alle affermazioni fatte in precedenza rispetto all’urbanistica musicale, ricordandoci che uno studio tra gli spazi della città e la popular music non può soffermarsi esclusivamente sulla nascita di scene locali, nazionali o internazionali, e il loro sviluppo. Ma deve, sempre di più, rendersi conto delle molteplici sovrapposizioni tra l’architettura della città, le restrizioni economiche, le scelte politiche, il patrimonio culturale e così via. Elementi che provengono dall’urbanistica tradizionale, ma che, inseriti in un’ottica musicale, assumono ulteriori significati. Insomma, il turismo musicale in Inghilterra è ormai un’industria in espansione e che opera da almeno trent’anni: ricca di luoghi comuni, di canoni rock e pop, e di convinzioni che ciò che viene rappresentato è storia e memoria collettiva. Il che lo rende nella maggioranza dei casi – certamente senza stupore da parte di nessuno – un commercio a tutti gli effetti, privo di spessore intellettuale e di valore musicale. Sarebbe interessante chiedere il titolo di almeno tre canzoni dei Beatles a tutti quelli che si fanno immortalare sulle strisce pedonali all’inizio di Abbey Road. 

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Fiamma Mozzetta
  • Fiamma Mozzetta è dottoranda di ricerca alla Goldsmiths di Londra in popular music e si occupa di musica e tempo: memoria, patrimonio culturale, archivistica e storiografia pop. Collabora con riviste accademiche e non come openDemocracy, Not, Blow Up, Musica/Realtà.
Bibliography

Gelder Ken, a c. di, The Subcultures Reader, Psychology Press, 2005.

Hall Josh, Council House Music: Exploiting Local Authority Architecture, «The Quietus», 5 aprile 2012.

Hancox Dan, Inner city pressure: the story of Grime, London: William Collins, 2018.

Hebdige Dick, Subculture: the meaning of style, London: Routledge, 1979.

Jefferson Tony, Stuart Hall, a c. di, Resistance Through Rituals: Youth Subcultures in Post-War Britain, New York, NY: HarperCollins, 1975.

Kafka George, Grime and Architecture: Wot Do U Call It? Urban?, «Pin-Up Magazine», 2018.

Lashua Brett, Sara Cohen, John Schofield, Popular music, mapping, and the characterization of Liverpool, «Popular Music History», 4, n. 2 (16 novembre 2010): 126-44.

Lynch Kevin A., The Image of the City, Cambridge, MA: Technology Press, 1960.

Lynch Kevin A., L’immagine della città, a cura di Paolo Ceccarelli, Padova: Marsilio, 1969.

Nevarez Leonardo, How Joy Division Came to Sound like Manchester, «Musical Urbanism» (blog), 13 luglio 2011.

Niven Alex, Folk Opposition, London: Zero Books, 2012.

Simmel Georg, Die Großstädte und das Geistesleben, Dresden: Petermann, 1903.

Simmel Georg, Le metropoli e la vita dello spirito, a cura di Paolo Jedlowski, Roma: Armando Editore, 1995.

Urry John, The Tourist Gaze, SAGE Publications, 1990.

Wylie Ian, From Berlin’s Warehouses to London’s Estates: How Cities Shape Music Scenes, «The Guardian», 3 febbraio 2016.