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Rappresentare l’alterità decostruendo l’identità
Magazine, PEOPLE – Part II - Gennaio 2019
Tempo di lettura: 14 min
Ana Laura Espósito

Rappresentare l’alterità decostruendo l’identità

Strategie curatoriali post-identitarie contro la minaccia del patronato ideologico: gli esempi della 10ª Berlin Biennale, di Manifesta 12 e della 57ª Biennale di Venezia.

Berlin Biennale 2018, We don’t need another hero, Grada Kilomba, ILLUSIONS, Vol. II, OEDIPUS, 2018, courtesy Grada Kilomba, photo: Kathleen Kunath. «Von Falkenhausen apprezzava particolarmente questa strategia curatoriale ‘post-identitaria’ segnalando in modo contundente la necessità di riaffermare “il diritto degli artisti di essere liberi di lavorare come meglio credono senza essere inscatolati dai doveri di rappresentare un’identità o una causa”».

 

«Il proprio di una cultura è di non essere identica a se stessa. Non di non avere identità, ma di non potersi identificare, dire “io” o “noi”, di poter prendere la forma del soggetto solo nella non-identità a sé o, se preferite, nella differenza con sé».
(Jacques Derrida, Oggi L’Europa, Garzanti, Milano, 1991)

Verso un’arte post-identitaria?

Nell’articolo pubblicato su «Frieze» e intitolato Are Todays Art Biennials Facing an Impasse?, la critica e storica dell’arte Susanne von Falkenhausen, oltre a prendere posizione su questioni nodali che riguardano il sistema dell’arte – per esempio il ruolo di alcune manifestazioni artistiche che, più che scenari di ricerca, si sono trasformate in strumenti di marketing al servizio delle città –, offre una lettura intelligente delle biennali di Berlino e Manifesta 12, rimettendo al centro la questione dell’identità. Von Falkenhausen rimarca con entusiasmo l’approccio di Gabi Ngcobo, curatrice della 10ª Berlin Biennale We dont need another hero, che con il proposito di «affrontare le incessanti ansie perpetuate da un disprezzo ostinato per le soggettività complesse»,1110th Berlin Biennale for Contemporary Art, “About”, cons. 10/10/2018.
tentava di superare gli stereotipi e le tendenze a esotizzare ciò che appartiene a culture non occidentali. Von Falkenhausen apprezza particolarmente questa strategia curatoriale “post-identitaria” – anche se non del tutto condiscendente (vista soprattutto la complessità dell’argomento) –, pur segnalando in modo contundente la necessità di riaffermare «il diritto degli artisti di essere liberi di lavorare come meglio credono senza essere inscatolati nel dovere di rappresentare un’identità piuttosto che un’altra». La rimessa in campo di questo dibattito ci riporta ancora una volta alla complessa questione dell’«identità culturale». Seppure la critica alla concezione di «identità integrale, originaria e unificata»22S. Hall, Introducción: ¿quién necesita “identidad”?, in S. Hall, P. Du Gay, Cuestiones de identidad cultural, Buenos Aires, Amorrortu, 2003, p. 13.
ormai dovrebbe essere stata superata – alla luce della decostruzione a cui sono stati sottoposti gli essenzialismi –, l’idea di un’identità primordiale e uniforme sussiste ancora oggi nei ragionamenti e nelle argomentazioni che permeano l’opinione pubblica e non solo. Prendendo in esame strategie critiche e curatoriali tuttora molto diffuse, è evidente che gli stereotipi angusti e le concezioni dualistiche siano ancora molto presenti: talora con il pretesto di agevolare informazioni destinate agli opuscoli; a volte, invece, per aggiungere dettagli pittoreschi. Ciò purtroppo comporta sempre, nell’esposizione di idee e fenomeni, un’eccessiva semplificazione del linguaggio e una riduzione a opposizioni dualistiche di questioni in origine ricche di sfaccettature. Se Ngcobo, oltre a realizzare una selezione di artisti e di opere che trascendono le consuete etichette e schematizzazioni, «ha enfatizzato questo approccio post-identitario non fornendo informazioni sul luogo e l’anno di nascita degli artisti o sulla loro formazione»33Cf. Von Falkenhausen, cit.
– evitando così pregiudizi –, non è forse il momento di riconsiderare l’efficacia e la pertinenza di progetti espositivi che si fondano su una nozione di identità unitaria e omogenea? Di un’identità nazionale che mette sullo stesso piano cittadinanza e identità culturale? Questa sembra certamente, a prima vista, una domanda che appartiene a un passato non più attuale. Eppure sono ancora numerose le mostre in cui si intravede una ricerca curatoriale fondata più sulla provenienza geografica degli artisti che non su criteri che riguardino la disciplina estetica in sé. Sebbene i cataloghi siano frequentemente arena di discorsi che si affrancano da semplicistiche approssimazioni, nel linguaggio comune dell’arte e delle mostre non mancano tuttavia riferimenti a generalizzazioni eccessive come quella, per esempio, di «un popolo ottimista» caratterizzato da «una grande fiducia nel futuro».44Brasile. Il coltello nella carne, a cura di Jacopo Crivelli Visconti e Diego Sileo, depliant della mostra, Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano (4 luglio 2018 – 9 settembre 2018).

Brasile, Il coltello nella carne, PAC, Milano.
“La questione sull’identità culturale non resiste agevolazioni lessicali”.

La questione può essere affrontata da diverse angolazioni. Qui ne prendiamo in considerazione due. La prima riguarda l’assiduità con cui storie correlate alla discriminazione, al post-colonialismo e alla xenofobia (varianti molto diffuse del mettere l’Altro in campo) sono presenti come oggetto d’indagine nell’arte. Ciò ci spinge a riprendere le considerazioni a proposito del ruolo dell’artista come etnografo55H. Foster, L’artista come etnografo, in Il ritorno del reale, Postmedia books, Milano, 2006.
del critico e storico dell’arte Hal Foster, che segnala il pericolo del processo di appropriazione dell’alterità – del cosiddetto «patronato ideologico» – che avviene sovente nell’arte. La seconda angolazione riguarda invece l’analisi dell’attuale contesto in cui i nazionalismi (che si fondano sull’essenzialismo identitario) guadagnano oggi nuovamente consenso, fenomeno da cui risulta essenziale ripartire per comprendere la «dinamica in cui getta le fondamenta un termine come identità», attingendo in questo caso alle utili riflessioni di Stuart Hall, pioniere dei cultural studies.

 

L’alterità come soggetto

Sulla scia del ragionamento realizzato da Walter Benjamin in L’autore come produttore, in cui si esortavano gli artisti ad abbracciare le cause del proletariato,66«La sua decisione è presa sulla base della lotta di classe, in quanto egli si mette dalla parte del proletariato. La sua autonomia non esiste più. Egli orienta la sua attività secondo il criterio di ciò che è utile al proletariato nella lotta di classe. Si suole dire che egli segue una tendenza». W. Benjamin, L’autore come produttore, in Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Einaudi, Torino, 2012, p. 147.
Foster individua nell’arte contemporanea – soprattutto a partire dagli anni Ottanta in poi – un paradigma analogo al modello benjaminiano, che descrive molto accuratamente all’interno del saggio L’artista come etnografo. Oltre a evidenziare,77Foster, cit.
sulle orme del filosofo francofortese, l’importanza di queste considerazioni a proposito della qualità estetica delle opere in rapporto alla loro attinenza politica, Foster sottolinea inoltre il pericolo per l’artista (ma diremmo pure per il curatore e il critico) di rivestire la funzione (già individuata da Benjamin nel rapporto tra l’artista e il proletariato) del “patronato ideologico”, visto che che in questo nuovo modello di “artista come etnografo” sono appunto rappresentate le battaglie di un Altro culturale.88Foster, cit., p. 177 e S. Žižek, Multiculturalismo o Logica culturale del capitalismo multinazionale, in Estudios Culturales: Reflexiones sobre el multiculturalismo, Buenos Aires, Paidós, 1998, pp. 175-176. Risulta particolarmente interessante la segnalazione di Foster riguardo al mutamento della concezione del soggetto, prima pensato in termini di lotta di classe (paradigma autore-produttore) e poi in «termini di identità culturale» (paradigma artista-etnografo). Su questo aspetto è importante considerare che, simultaneamente a questo articolo di Foster, Slavoj Žižek pubblica l’anno successivo, nel 1997, il saggio Multiculturalismo o Logica culturale del capitalismo multinazionale, in cui affronta lo spostamento della concezione del soggetto.
Tale minaccia, metodologica oltre che etica, descritta come un’arte “quasi-antropologica” – dato che riprende, in maniera un po’ fuorviante, molti assunti provenienti dall’etnografia – «può derivare dalla presunta divisione nell’identità tra l’autore e il lavoratore o l’artista e l’Altro, ma può anche sorgere proprio dall’identificazione […], messa in atto per superare la divisione»,99Foster, cit., p. 178.
producendo così una rappresentazione che attinge a una concezione essenzialista dell’identità. In questo modo, l’appropriazione delle lotte e degli interessi dell’Altro culturale è spesso compromessa da un’eccessiva distanza o da una sovraidentificazione che conduce all’idealizzazione e alla strumentalizzazione. Questo confine sottile – che determina il successo della rappresentazione oppure la ricaduta in una versione paternalistica e quindi poco riuscita – è ciò che von Falkenhausen segnala come la sua critica più tenace contro Manifesta 12, in quanto piattaforma in rapporto alla sua città ospite, Palermo, ma anche nella singolarità di alcune opere esposte. Se «gli attivisti diventano strumenti di capitalizzazione artistica»,1010Von Falkenhausen, cit.
come succede con l’installazione di Tania Bruguera, Articolo 11 (2018) – in cui sono esposti articoli di giornale e materiale del movimento No MUOS contro le basi della marina statunitense vicino a Niscemi (Sicilia) –, viene dunque da chiedersi come si possa sistematizzare in termini metodologici un approccio in grado di valicare il pericolo del patronato ideologico.1111«Anche nello spirito più autentico di collaborazione dell’artista con le comunità locali, l’opera può essere a rischio, essere “reindirizzata verso altri fini”». Foster, cit., p. 199.
In questo senso, l’intervento firmato da Olafur Eliasson durante la Biennale di Venezia dello scorso anno, Viva Arte Viva, annidava debolezze simili, mostrandosi poco efficace. Attraverso il laboratorio artistico Green light, presentato come atto di accoglienza rivolto ai migranti, si invitavano rifugiati, richiedenti asilo e pubblico a partecipare insieme a una raccolta di fondi. La terra inquieta, invece, curata da Massimiliano Goni alla Triennale di Milano nel corso dello stesso anno 2017 e annunciata come «una mostra per raccontare le trasformazioni epocali che stanno segnando lo scenario globale e la storia contemporanea, affrontando in particolare il problema della migrazione e la crisi dei rifugiati», ha sollevato una serie di domande sulla propria opportunità e alcune implicazioni, sintetizzate in questo modo da Vincenzo Trione:

«Alcuni artisti indulgono in un feticismo oggettuale. Altri gestiscono workshop con immigrati (Green light di Eliasson). Frequente, nelle mostre su queste tematiche, è l’inclinazione a sublimare e a spettacolarizzare la disperazione di personaggi abbandonati in condizioni estreme, senza speranza, senza redenzioni: si pensi ad alcuni interventi esposti ne La Terra Inquieta, dagli scatti dei migranti dei fotografi della Reuters (Pulitzer, 2016) al catalogo degli oggetti dei migranti trovati nel canale di Sicilia (messi sotto teca, come ready made)».1212V. Trione, L’arte diventa (di nuovo) politica, «Corriere della Sera», cons. 4/10/2018.

Biennale di Venezia 2017, Viva Arte Viva, NSK State Passports, courtesy NSK State Pavilion, 2017.

Tornando alla rassegna veneziana curata da Christine Macel, in essa possiamo riscontrare la questione dell’identità culturale nelle sue diverse accezioni, mettendo in discussione l’equivalenza tra identità e cittadinanza, e sollevando il dubbio sul famigerato concetto di “identità nazionale”. Già a partire dalla proposta di un percorso espositivo strutturato in nove trans-padiglioni (dove trans indica appunto il “passaggio oltre un termine”), la curatrice ha messo in dubbio la tradizionale e storica organizzazione della mostra “per Paesi”.1313La prima edizione della Biennale di Venezia fu celebrata nel 1895. Dal 1907 il Belgio partecipa con un padiglione nazionale, avviando una delle caratteristiche distintive dell’evento veneziano.
Tale approccio, che mette in risalto i limiti del concetto di “rappresentazione nazionale”, era già stato affrontato da Macel durante la Biennale del 2013,1414La Biennale di Venezia del 2013, Il Palazzo Enciclopedico, è stata curata da Massimiliano Gioni, curatore del New Museum di New York.
quando, nel ruolo di curatrice del padiglione francese, aveva invertito lo spazio espositivo del suo Paese con quello della Germania. Questo gesto, diplomatico e politico oltre che curatoriale, era accentuato da una mostra personale dell’artista albanese Anri Sala nello spazio francese e da una collettiva di quattro artisti di diversa provenienza per la Germania.1515La proposta della Germania (nell’edificio situato ai Giardini della Biennale e originariamente di proprietà francese) era dedicata a una mostra collettiva curata da Susanne Gaensheimer e composta dagli artisti Santu Mofokeng, Dayanita Singh, Ai Weiwei e Romuald Karmakar. Lo scambio di padiglioni è stato realizzato allo scopo di celebrare il 50° anniversario del Trattato dell’Eliseo, firmato nel 1963, in segno di collaborazione tra i due Paesi.
Diversi erano i lavori che in Viva Arte Viva tracciavano un percorso volto a dissigillare la concezione dell’identità nazionale come unificata e omogenea. Nell’installazione Werken (2017) dell’artista Bernardo Oyarzún per il padiglione del Cile, mille maschere Mapuche in legno naturale, sostenute da bastoni di ferro e disposte al centro della sala in un cerchio quasi rituale, evidenziavano ciò che abitualmente viene soppresso. L’illuminazione soffusa e suggestiva lasciava intravedere nella penombra i dispositivi LED installati sul perimetro dello spazio espositivo, sui cui scorrevano 6900 cognomi Mapuche corrispondenti a quelli tutt’oggi in circolazione. Svolgendo una ricerca esaustiva sulla cultura popolare e indigena del Cile, Oyarzún è riuscito ad articolare la manipolazione mediante la visibilità/invisibilità delle culture ancestrali cancellate dai processi di colonizzazione e post-colonizzazione, ancora oggi in atto nel continente americano. L’uso di immagini ad alto valore simbolico in banconote e monumenti, trasformate in iconografia nazionalista, rivela strategie politiche, economiche e discorsive, attraverso cui si induce alla costruzione forzata e artificiale delle nozioni di identità collettiva, Stato, nazione e territorio, e quindi di identità nazionale.

Biennale di Venezia 2017, Viva Arte Viva, Green Light, laboratorio artistico di Olafur Eliasson.

 

Identità-nazione: due finzioni

Di fronte a condizioni spirituali, culturali e politiche in cui l’esaltazione nazionale e lo stigma dell’alterità come minaccia recuperano forza, si intravedono nella quotidianità segnali preoccupanti, in diretta corrispondenza con le caratteristiche di ciò che Umberto Eco ha chiamato “il fascismo eterno”.1616Questo libro risulta dalla trascrizione del discorso prima pronunciato alla Columbia University di New York per le celebrazioni della liberazione dell’Europa dal nazifascismo nel 1995. In questo intervento Eco identifica gli archetipi di ciò che egli stesso battezzò come Ur-Fascismo o Fascismo Eterno. Sebbene scritto più di 25 anni fa, la sua analisi conserva assoluta attualità e preannuncia alcune realtà oggi molto concrete, per esempio: «Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo TV o Internet, in cui la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentata come la ‘voce del popolo’». Umberto Eco, Il fascismo eterno, La Nave di Teseo, Milano, 2017, Kindle edition, pos. 264.
In questo discorso, pronunciato per la prima volta nel 1995 e successivamente trascritto e pubblicato, l’autore descrive gli archetipi del totalitarismo, mettendoci all’erta sull’esile confine che può riportarci indietro nel tempo, pur restando in questo concreto e irreconciliabile presente. Dei quattordici punti che Eco enumera come segnali da non sottovalutare nelle società contemporanee (soprattutto perché privi di qualsiasi ideologia politica) si trovano, da una parte, l’appello costante all’emotività nei discorsi politici; e, dall’altra, un uso estremamente semplificato della lingua:

«L’Ur-Fascismo parla la “neolingua” […]. Tutti i testi scolastici nazisti o fascisti si basavano su un lessico povero e su una sintassi elementare, al fine di limitare gli strumenti per il ragionamento complesso e critico. Ma dobbiamo essere pronti a identificare altre forme di neolingua, anche quando prendono la forma innocente di un popolare talk-show».1717Eco anticipa anche un neo-totalitarismo della TV e di Internet. Eco, cit. pos. 271.

Biennale di Venezia 2017, Viva Arte Viva, NSK State Passports, courtesy NSK State Pavilion, 2017.

In questo contesto cresce il dibattito sulla nozione di identità nazionale fondata sul binomio Stato-nazione e si assiste a un’evidente rinascita dei nazionalismi che, di fronte alle contraddizioni del capitalismo come sistema planetario, mette invece al centro del dibattito i fenomeni migratori come cause prime della crisi contemporanea. Zygmunt Bauman si è occupato in più di un’occasione di mettere a fuoco un concetto complesso come quello d’identità, spiegando come il processo di globalizzazione, la disintegrazione delle comunità locali e la rivoluzione dei sistemi di trasporto abbiano favorito le condizioni affinché il problema dell’identità assumesse una forza e una vivacità senza precedenti.1818Z. Bauman, De peregrino a turista, o una breve historia de la identidad in Hall, Du Gay, cit., p. 40; e Z. Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, 2012, Kindle edition.
Noto per le sue ricerche in ambito sociologico e in quello dei cultural studies, nel 1996 Stuart Hall pubblica una raccolta di articoli1919Hall, cit.
intitolata Questions of cultural identity, simultaneamente alle riflessioni di Foster sul nuovo paradigma dell’“artista come etnografo”. Alla concezione essenzialista di identità, Hall contrappone il concetto di identità come «strategico e posizionale». Le identità «emergono nel gioco di specifiche modalità di potere e, quindi, sono più un prodotto della marcatura della differenza e dell’esclusione che un segno di un’unità identica e naturalmente costituita».2020Hall, cit., p. 18.

Biennale di Venezia 2017, Viva Arte Viva, Green Light, laboratorio artistico di Olafur Eliasson.

Articolando concetti chiave di Derrida2121Hall sistematizza i concetti di Jaques Derrida (marcatura e différence), di Foucault (formazioni discorsive) e di Judith Butler (identità ed esclusione), per intraprendere una comprensione anti-essenzialista della nozione di identità culturale.
come marcatura e différence, Hall getta luce sulla complessità di una questione che non resta soltanto materia teorica, ma che si verifica nella presenza di termini marcati in cui si stabilisce una gerarchia che ha risultati effettivi sulle relazioni sociali, smascherando un meccanismo che fonda i suoi argomenti su basi molto efficaci ma ingannevoli. Gli esempi più consueti sono quelli delle coppie di termini uomo/donna, bianco/nero, comunitario/extracomunitario e così via. Sebbene l’identità nazionale possa essere definita come una «finzione»2222“Finzione” è il termine che Bauman usa nelle sue riflessioni sulla costruzione di un’identità collettiva fondata sul concetto di Stato nazionale. Cf. Bauman, Intervista sull’identità, cit., pos. 272.
– per attingere a un concetto di identità originario e omogeneo che mette sullo stesso piano identità culturale e cittadinanza, cancellando la coesistenza reale dell’eterogeneità e fondandosi ancora una volta su nozioni essenzialiste –, il fatto di essere una finzione non minaccia tuttavia la sua efficacia «discorsiva, materiale o politica» – dirà Hall; infatti le identità si costruiscono nel discorso precisamente «mediante strategie enunciative specifiche». Il fatto di essere prodotte dalle differenze e dall’esclusione «implica l’ammissione radicalmente perturbatrice che il significato “positivo” di un termine […] può essere costruito attraverso la relazione con l’Altro, la relazione con ciò che non è, con ciò che precisamente le manca, con ciò che si è denominato il suo fuori costitutivo»;2323«Derrida ha dimostrato che la costituzione di un’identità si basa sempre sull’esclusione di qualcosa e sullo stabilimento di una gerarchia violenta tra due poli risultanti: uomo/donna ecc.» Hall, cit., pp. 17-18.
per esempio, nella coppia italiano/straniero. La finzione, a cui risponde la costruzione dell’essere nazionale nella sua massima esasperazione, può essere a sua volta analizzata attingendo all’analisi e alla ricostruzione realizzate da Stephen Toulmin,2424«Una volta arrivata la pace è stato istituito un sistema di “Stati nazionali’ sovrani che ha posto le basi della struttura politica e diplomatica dell’Europa sino alla Prima guerra mondiale», S. Toulmin, Cosmopolis. El trasfondo de la modernidad, Barcellona, Península, 2001, pp. 134-135. Inoltre: «Gli anni dal 1690 al 1914 segnano il periodo di massimo splendore della “nazione” sovrana in Europa. Per più di due secoli, pochi hanno seriamente messo in dubbio che lo Stato nazionale fosse, sia in teoria che in pratica, l’unità politica fondamentale». Ibid. p. 197.
identificando nel Trattato di Pace di Vestfalia (1648) l’origine dello Stato nazionale, secondo un’arbitraria delimitazione del territorio. La circoscrizione dei confini – si ricordi, per esempio, la nascita dello Stato italiano, avvenuta solo nel 1861 – non può cancellare la diversità che sussiste tra le diverse comunità legate al territorio. Per concludere, Bauman segnala:

«L’idea di “identità“, e di “identità nazionale” in particolare, non è un parto “naturale” dell’esperienza umana, non emerge da questa esperienza come un lapalissiano “fatto concreto”. È un’idea introdotta a forza nella Lebenswelt degli uomini e delle donne moderni, e arrivata come una finzione».2525Bauman, Intervista sull’identità, cit., pos. 272.

La terra inquieta, Triennale Milano, 2017, Adel Abdessemed Hope,2011-2012 Barca, resina / Boat, resin 205.7 x 579.1 x 243.8 cm © Adel Abdessemed, ADAGP Paris Photo Maris Hutchinson/EPW Studio Courtesy of Adel Abdessemed.

 

Il luogo impossibile

Nella presente trattazione sono state affrontate due questioni. Da un lato i rischi di compromettere la ricerca – e quindi rappresentare l’Altro in modo riduttivo – a cui incorrono artisti, critici e curatori quando l’alterità diviene soggetto dell’arte. Dall’altro, i meccanismi di esclusione su cui si fonda la nozione di identità. Quale sarebbe quindi, in termini metodologici, il modo per far sì che un’opera non sia compromessa? A questa domanda Foster2626Foster, cit.
risponde proponendo la contestualizzazione e la riflessività, accanto alla messa in pratica di una considerazione sincronica e diacronica che consenta di guardare in prospettiva parallattica la problematica in questione. La distanza critica, un approccio di lavoro che promuove, come in una mise en abyme, l’apertura verso le differenti sfaccettature può, se non assicurare, quantomeno promuovere un atteggiamento volto a valicare la minaccia del patronato ideologico nelle sue diverse declinazioni di sovraidentificazione o di esotizzazione tramite oggettivazione dell’Altro. Il luogo impossibile, appunto, come l’aveva chiamato Benjamin.

Dal punto di vista politico, tali questioni trovano forse un luogo, all’interno della sinistra, in cui è possibile cercare e formulare nuove risposte. Ciò che si tende oggi spesso a dimenticare è che la nuova definizione di soggetto – in termini di identità culturale piuttosto che di classe –, sopprime l’unica e vera omogeneizzazione, vale a dire quella contraddistinta dalla diffusione a scala globale del capitalismo.2727S. Žižek, nell’articolo pubblicato nel 1997 dal titolo Multiculturalismo o Logica culturale del capitalismo multinazionale, fa un’analisi dettagliata del concetto secondo cui le differenze culturali della società di oggi, sotto il nome di “multiculturalismo liberale”, non sono altro che una “valvola di fuga sostitutiva” che maschera il conflitto principale: omogeneità e il trionfo del capitalismo su scala transnazionale: «Il problema del multiculturalismo che si impone oggi – la coesistenza ibrida di mondi culturalmente diversi – è il modo in cui si manifesta il problema opposto: la massiccia presenza del capitalismo come sistema mondiale universale. Questo problema multiculturale testimonia l’omogeneizzazione senza precedenti del mondo contemporaneo», in Žižek, cit., pp. 175-176.

Dal punto di vista dello spirito, l’arte continua a essere un rifugio che consente di trascendere la razionalizzazione assoluta quale schema totalitario, cogliendo in quello strato che precede il linguaggio l’enigma sconvolgente dell’esperienza estetica. La speranza risiede, senza dubbio, in ciò che Merleau-Ponty2828M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, SE, Milano, 1989.
ha riconosciuto come la missione primaria del pittore e quindi dell’artista: far emergere dal continuum percettivo l’opera d’arte. Il visibile dall’invisibile. Mostrarci che ciò che ancora non esiste può essere possibile e quindi insistere sulle possibilità di intraprendere il presente attraverso nuove prospettive. Forse è proprio questo lo spirito rivoluzionario dell’arte.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Ana Laura Espósito
  • Ana Laura Espósito si è laureata in Scienze della Comunicazione nell’Universidad Nacional di Buenos Aires e più tardi, una volta trasferitasi a Milano, ha ottenuto una laurea magistrale in Visual Culture e Pratiche Curatoriali presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. I suoi saggi e articoli intrecciano arte contemporanea e scienze sociali e sono stati pubblicati in riviste come Kabul Magazine, Exibart e Colecciión Cisneros.
Bibliography

Z. Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Bari, 2012.
W. Benjamin, L’autore come produttore, in Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di Andrea Pinotti e As. Somaini, Einaudi, Torino, 2012.
U. Eco, Il fascismo eterno, La Nave di Teseo, Milano, 2017.
H. Foster, L’artista come etnografo, in Il ritorno del reale, Postmedia, Milano, 2006.
S. Hall, Introducción: ¿quién necesita ‘identidad’?, in S. Hall, P. Du Gay, Cuestiones de identidad cultural, Buenos Aires, Amorrortu, 2003.
M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, SE, Milano, 1989.
S. Toulmin, Cosmopolis. El trasfondo de la modernidad, Península, Barcellona, 2001.
S. Žižek, Multiculturalismo o Logica culturale del capitalismo multinazionale, in Estudios Culturales: Reflexiones sobre el multiculturalismo, Paidós, Buenos Aires, 1998.