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I LOVE DICK. O del femminile
Magazine, LINGUAGGI - Part II - Gennaio 2022
Tempo di lettura: 39 min
Simone Rossi

I LOVE DICK. O del femminile

Il Female Gaze di Joey Soloway su corpo, desiderio, spazio e soggettività.

Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

LONELY GIRL. O di come l’autofinzione reinventi il soggetto

I Love Dick è un libro di Chris Kraus pubblicato nel 1997 da Semiotext(e), casa editrice indipendente americana che sin dal 1974, anno in cui viene fondata da Sylvère Lotringer, si propone come luogo di sperimentazione intellettuale e di critica culturale, letteraria e teorica. Nata come journal interessato a ricucire lo strappo tra linguaggio accademico e cultura artistica e underground (coniando in questo contesto il termine Schizo-Culture11Sylvère Lotringer, David Morris (eds.), Schizo-Culture, 2-vol., Semiotext(e), Los Angeles, 2014.
con chiari rimandi alle intuizioni di Deleuze e Guattari22Vedi Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille Piani, Orthotes, Napoli-Salerno, 2017. Originariamente pubblicato da Éditions de Minuit (Paris), 1980.
), Semiotext(e) diviene celebre a partire dagli anni ’80 grazie alla pubblicazione di una collana di libretti neri tascabili (Foreign Agents series), che contribuiscono alla diffusione della French Theory in America, promuovendo testi di Jean Baudrillard, Jean-François Lyotard, Michel Foucault, tra gli altri.

Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

I Love Dick è la prima fatica letteraria di Kraus, tuttora co-editor di Semiotext(e) insieme a Hedi El Kholti e all’epoca dell’uscita del libro compagna di Lotringer, recentemente scomparso, da cui divorzia nel 2016. La relazione in vita tra Kraus e Lotringer non è affatto irrilevante ma al centro delle dinamiche performative ed emozionali di I Love Dick. Il libro esce in un momento che vede Kraus impegnata nella strutturazione di una nuova collana per Semiotext(e), la Native Agents series, che si propone di raccogliere i più significativi esperimenti di fiction letteraria capaci di problematizzare la costruzione monolitica dell’io autoriale, progettando un ponte tra le teorie della soggettivazione promosse dalla French Theory e le forme radicali di soggettività praticate da scrittrici come Eileen Myles, Barbara Barg e Kathy Acker.

Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

I Love Dick, che assorbe tutte queste esperienze e il loro portato politico e sovversivo, rappresenta un’incognita sin dalla catalogazione. Come sottolinea la teorica femminista di cinema e media studies Joan Hawkins nella post-fazione del libro, il semplice termine “romanzo” non sembra rendere giustizia alla complessità dell’opera, che si pone sulla soglia tra uno scambio epistolare promiscuo e un racconto che continuamente fonde elementi finzionali con memorie personali. Hawkins la denomina “theoretical fiction”33Chris Kraus, I Love Dick, Semiotext(e), New York, 1998, p. 258. Originariamente pubblicato nel 1997.
. Se Lotringer all’interno del libro definisce invece lo stile di Kraus «un nuovo tipo di forma letteraria, qualcosa a metà tra la critica culturale e la fiction»44Ibid., p. 27.
, è la stessa autrice a suggerire un’altra nomenclatura definendo I Love Dick una “Lonely Girl Phenomenology”55Ibid., p. 137.
e aprendo così, almeno simbolicamente, la strada a uno studio di quella figura, la Jeune Fille66Tiqqun, Elementi per una teoria della Jeune-Fille, Bollati Boringhieri, Torino, 2003. Originariamente pubblicato da Éditions Mille et Une Nuits (Paris), 2001.
, che sarà al centro di un importante testo di critica culturale da parte del collettivo Tiqqun nel 2001 – non a caso pubblicato in inglese proprio da Semiotext(e) nel 2012.

Un altro termine che sembra raccogliere parte degli elementi ricorrenti nella narrazione di I Love Dick è quello di autofinzione, categoria letteraria che nasce proprio per esibire le contraddizioni interne al soggetto confondendo in origine la linea di demarcazione che separa autore e protagonista77Christian Lorentzen, Considering the Novel in the Age of Obama, «Vulture», Jan 11, 2017.
. Come asserisce Serge Doubrovsky, che nel ’77 utilizza tale vocabolo nella quarta di copertina del suo “romanzo” Fils (titolo ambiguo che significa tanto “figli” quanto “fili”), negli autori di autofiction si assiste alla «sparizione del soggetto classico, della sua unità, della possibilità di esprimere la sua storia precisamente sotto la forma di un racconto cronologico e logico»88Serge Doubrovsky, L’origine della categoria letteraria di autofinzione, «Ágalma», 29, 2015, p. 87.
. Il racconto viene così irrimediabilmente frammentato e i livelli di esperienza vengono infine spezzati promuovendo una scrittura che si fonde con «il gusto intimo dell’esistenza».

«L’autofinzione è il mezzo per tentare di recuperare, di ricreare, di rimodellare in un testo, in una scrittura, delle esperienze vissute, della propria vita, che non sono in nessun modo una riproduzione, una fotografia… è letteralmente e letterariamente una reinvenzione»99Ibid., p. 89.
.

Il pensiero di Doubrowsky sull’autofinzione viene indirettamente ripreso nella prefazione al libro dalla poetessa e scrittrice femminista Eileen Myles – che emerge dunque non solo come una fonte di ispirazione per la Native Agents series di Kraus ma come sua diretta interlocutrice e, vedremo, come figura-ponte che ci condurrà all’oggetto precipuo di questa indagine, la serie tv liberamente tratta dal libro – quando mostra tutta la sua ammirazione per l’abilità di Kraus di narrare una storia particolare che si eleva a universale, capace di far immedesimare l’altro riuscendo a delineare un io in divenire, senza che questo conduca a forme chiuse e definite. Doubrovsky infatti alza la guardia contro chi rimprovera all’autofinzione di favorire il narcisismo e l’autismo dello scrittore. Secondo l’autore francese, (è importante osservare come fondamentalmente tutto questo discorso prende forma in una cartografia in cui è il rapporto Francia-America a illuminare la mappa) «quando si parla di sé, si parla anche necessariamente degli altri»1010Ibid., p. 90.
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Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

Myles coglie la bravura di Kraus nel non ridurre le avventure di autocoscienza femminile e scoperta di sé a trasformazioni fallimentari ma di esplorare queste fasi come il negativo di una dinamica dialettica – passaggio intermedio per una conquista reale e dignitosa della propria identità.

«I Love Dick è un notevole studio sull’abiezione femminile e nella sua forma mi ricorda l’esortazione di Carl Dreyer di usare “l’artificio per spogliare l’artificio dall’artificio”, poiché si scopre che per Chris è marciare coraggiosamente verso l’auto-umiliazione pubblica, non capitarci misteriosamente, sospirando, scalciando o urlando, ma entrarvici a gamba tesa, questa è esattamente la maniera attraverso cui consolida e valorizza il pathos del viaggio romantico della sua vita»1111Chris Kraus, cit., pp. 13-14. Traduzione di chi scrive. [I Love Dick is a remarkable study in female abjection and in its fashion it reminds me of Carl Dreyer’s exhortation to use “artifice to strip artifice of artifice”, because it turns out that for Chris, marching boldly into self-abasement and self-advertisement, not being uncannily drawn there, sighing or kicking and screaming, but walking straight in, was exactly the ticket that solidified and dignified the pathos of her life’s romantic voyage].
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Che si introduca il concetto di “Lonely Girl Phenomenology”, di “Theoretical Fiction”, o di autofinzione, I Love Dick rappresenta ad ogni modo un tentativo audace di mobilitazione di alcune basilari istanze femministe per decostruire e rinegoziare una serie di rapporti in eterna tensione su cui si erige il nostro stare-al-mondo. Il dialogo intrapersonale, lo scambio interpersonale, la relazione con l’ambiente sollecitano la costruzione di dualismi come identità e alterità, realtà e finzione, immagine e simulacro, maschile e femminile, polarità che attraversano di continuo l’esperienza estetica, sensoriale che fa Chris all’interno del libro.

La prospettiva scelta da Kraus sembra esprimere in forma sublimata il pensiero di Simone Weil, figura fondamentale per l’autrice a tal punto che il suo secondo libro, Aliens & Anorexia1212Chris Kraus, Aliens & Anorexia, Semiotext(e), New York, 2000.
, lo dedica proprio a un’opera dell’attivista e filosofa francese, La Pesanteur et la Grâce (1947). In questo testo l’autrice, citando e parafrasando Weil, dà forma a un pensiero che, a partire dall’abnegazione di sé, mira ad andare oltre il sé medesimo.

«Se l’“io” è l’unica cosa che realmente possediamo, dobbiamo distruggerla […] Lei vuole smarrirsi per andare oltre sé stessa. Una rapsodia di desiderio la sovrasta. Vuole davvero vedere. Per questo è una masochista»1313Ibid., p. 27. Traduzione di chi scrive. [If the “I” is the only thing we truly know, we must destroy it. […] She wants to lose herself in order to be larger than herself. A rhapsody of longing overtakes her. She wants to really see. Therefore, she’s a masochist].
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Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

Questa rapsodia di desiderio sembra condurre Kraus alla scoperta di sé anche in I Love Dick. L’autrice non toglie nulla della propria vita dalla narrazione che crea, ma attraverso di essa tenta di riviverla in altro modo, più intenso, ravvicinato. Oltre al compagno Sylvère, così anche Dick, l’ossessione libidica di Chris da cui la storia si dipana, non rappresenterebbe altro che un’esperienza reale, Dick Hebdige, un sociologo e teorico dei media britannico conosciuto poco prima di scrivere il libro. Dick assume la forma di un delirio generativo scritto di getto, colmo di desiderio, frustrazione e irrefrenabile ricerca. Ed è proprio un’altra esperienza di vita a calarci all’interno della messa in forma audiovisiva (2016-17)1414Sarah Gubbins, Jill Soloway (executive producers), I Love Dick [series], Amazon Studios, 2016-’17.
del libro con la drammaturgia di Sarah Gubbins in collaborazione con Joey Soloway, ecletticə registə e produttorə che già con Transparent, altra serie on demand Amazon Studios1515Jill Soloway, Andrea Sperling (executive producers), Transparent [series], Amazon Studios, 2014-’19.
, tratta coraggiosamente questioni identitarie e relazionali complesse che riflettono sul binarismo di genere, sull’ebraismo contemporaneo, sulla normatività eteropatriarcale. L’esperienza-di-vita che coniuga il libro di Kraus con la serie di Soloway è Eileen Myles, una figura-ponte in grado di condizionare entrambe1616Tale legame viene di fatto esplicitato nell’intervista incrociata tra Kraus e Soloway pubblicata dal «New York Times» il 5 maggio 2017.
le manifestazioni di I Love Dick. Quando Soloway e Gubbins decidono di lavorare alla sceneggiatura si trovano infatti di fronte a un problema basilare, dove ambientare la serie. Il libro spazia liberamente tra diversi luoghi che panoramicamente disegnano il paesaggio epistolare che informa la narrazione (come Crestline, le San Bernardino Mountains, Los Angeles, il deserto dell’Antelope Valley, l’Arizona, Cancun, il Guatemala, la Route 126, New York, tra le molte). La serie, che nasce per morire dopo soli 8 episodi, impone un lavoro esemplificativo sulla scena, capace di raccogliere tutte le atmosfere del libro in un unico spazio paradigmatico che consenta una messa a fuoco specifica sui personaggi e le loro metamorfosi. Myles, all’epoca compagna di Soloway, (e non è difficile riconoscerla anche nella poetessa e accademica Leslie Mackinaw in Transparent) scettica nell’ambientare l’intera serie a New York, incoraggia Soloway e Gubbins a prendere in considerazione la piccola città di Marfa, situata nella regione del deserto di Chihuahua, tra le Devise Mountains e il Big Bend National Park, presso il confine con il Messico, nel Texas occidentale, località remota ma parimenti un luogo di sperimentazione e centro di un’attiva comunità artistica (basti pensare all’installazione Prada Marfa del duo Elmgreen & Dragset e alla fondazione Donald Judd presente in città), dove Myles soggiorna frequentemente. Soloway e Gubbins comprendono subito il potenziale di Marfa, un’eterotopia illusoriamente credibile immersa nel deserto, dove ogni gesto assume un valore al di là della sua contingenza, un luogo dell’immaginario attraverso cui poter disinnescare lo stereotipo mascolino del cowboy e in cui il femminile, qui da intendersi come «forma trasversale di ogni sesso, di ogni potere, come forma segreta e virulenta dell’a-sessualità»1717Jean Baudrillard, Della seduzione, SE, Milano, 1997. Originariamente pubblicato da Éditions Galilée (Paris) 1979.
, possa infine rivelarsi.

Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

FEMALE GAZE. O di quello sguardo che rovesciandosi sovverte

La serie tv I Love Dick non ricalca fedelmente il libro. Oltre al mutato scenario in cui si svolgono gli eventi, la serie dà voce a tutta una serie di personaggi queer secondari, come Devon e Toby, mancanti nel libro, che destabilizzano Chris e tutta Marfa, e ridefinisce i pesi e le misure che regolano il triangolo amoroso che si instaura, almeno a parole, tra Chris, Sylvère e Dick. Ad ogni modo Chris rimane immersa, sia nel libro che nel film, in una dinamica maschio-maschio che la elide di continuo. Ma ella è in grado, con ostinata determinazione, di elidere a sua volta ogni occasione atta a emarginarla. Appare fin da subito chiaro che il dick che compare nel titolo non corrisponde al soggetto del testo ma funge solo da emblema, “fallo” per le allodole posto lì per attirare l’attenzione. Il vero centro nevralgico risiede nel vivere stesso della protagonista, nel divenire delle sue scelte e azioni artistiche. Myles paragona l’intera storia a una performance in cui l’autrice e protagonista medesima si fa in corso d’opera.

«La conquista più grande di Chris è filosofica. Ha rovesciato l’abiezione femminile e l’ha rivolta a un uomo. Come se la sua esperienza decennale fosse sia un quadro che un’arma. Come se lei, in quanto megera, ebrea, poetessa, regista fallita, ex ballerina di go-go, intellettuale e moglie, avesse il diritto di arrivare fino alla fine del libro e vivere avendo sentito tutto questo»1818Kraus, cit. 1998, p. 15. Traduzione di chi scrive. [Chris’ ultimate achievement is philosophical. She’s turned female abjection inside out and aimed it at a man. As if her decades of experience were both a painting and a weapon. As if she, a hag, a kike, a poet, a failed filmmaker, a former go-go dancer – an intellectual, a wife, as if she had the right to go right up to the end of the book and live having felt all that].
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Attraverso l’uso di lettere, conversazioni telefoniche trascritte e scambi fugaci tra Chris e suo marito, secondo Hawkins I Love Dick «decostruisce il classico triangolo amoroso eterosessuale e mette a nudo il modo in cui – anche nei circoli più illuminati – le donne continuano a funzionare come oggetto di scambio»1919Ibid., p. 269. Traduzione di chi scrive. [It deconstucts the classic heterosexual love triangle and lays bare the degree to which – even in the most enlinghtened circles – women continue to function as an object of exchange].
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La serie, attraverso alcuni espedienti capaci di risemantizzare posture e simboli della tradizione occidentale tanto diffusi da risultare aproblematici, indaga il portato culturale di alcune peculiari simbologie per rinegoziare equilibri identitari e questioni relazionali: dal travestimento, in quanto appropriazione dei segni dell’altro sesso, al sangue mestruale, in rapporto alla femminilità, fino allo specchio, dispositivo narcisistico di conoscenza e di morte. Al cuore di questo esercizio audiovisivo sembra esserci il desiderio di ripensare, a livello lessicale ed esperienziale, il rapporto, tutt’altro che stabile, tra identità e alterità, stressando i labili confini del binarismo maschile-femminile sul quale si erigono, culturalmente e storicamente, la nostra sessualità e identità di genere.

Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

Per far questo Soloway e Gubbins lavorano finemente e dettagliatamente sullo sguardo che regola la visione e che informa lo spettatore. Per poter cogliere appieno le scelte adottate dai quattro diversi registi che si avvicendano negli otto episodi della serie è bene introdurre il concetto di “Female Gaze” e la reinterpretazione che ne dà Soloway in una Masterclass nel 20162020Jill Soloway, Female Gaze, TIFF Master Class, 2016 [11 settembre].
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Il termine nasce in risposta al celebre saggio del ’75 della critica femminista e teorica cinematografica Laure Mulvey2121Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, «Screen», Vol. 16, Issue 3, 1975, pp. 6-18.
. La studiosa britannica utilizza la psicoanalisi per dimostrare come a dare struttura alla forma cinematografica sia l’inconscio della società patriarcale, un inconscio sessuale che si struttura come visione.

«Questo articolo intende utilizzare la psicoanalisi per scoprire dove e come il fascino del film è rafforzato da dei modelli di fascinazione preesistenti già in funzione nel soggetto individuale e nelle configurazioni sociali che lo hanno plasmato. Questo studio prende come punto di partenza il modo in cui il film riflette, rivela e persino gioca sull’interpretazione diretta e socialmente stabilita della differenza sessuale che controlla le immagini, i modelli erotici che regolano lo sguardo e lo spettacolo»2222Ibid., p. 6. Traduzione di chi scrive. [This paper intends to use psychoanalysis to discover where and how the fascination of film is reinforced by pre-existing patterns of fascination already at work within the individual subject and the social formations that have molded him. It takes as a starting point the way film reflects, reveals, and even plays on the straight, socially established interpretation of sexual difference which controls images, erotic ways of looking, and spectacle].
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La sfida di Mulvey consiste nel riconoscere questo inconscio androcentrico strutturato come linguaggio (“Male Gaze”), con il fine di liberare ogni soggetto discriminato dall’oppressione e dalla frustrazione di essere semplicemente un significante – che autonomamente non significa – per il desiderio maschile. Ogni soggetto altro in questa struttura fallocentrica sembra infatti esistere solo in rapporto alla castrazione che simboleggia.

«Il paradosso del fallocentrismo in tutte le sue manifestazioni è che dipende dall’immagine della donna castrata per dare ordine e significato al suo mondo. Un’idea di donna fa da perno al sistema: è la sua mancanza che produce il fallo come presenza simbolica»2323Ibid. Traduzione di chi scrive. [The paradox of phallocentrism in all its manifestations is that it depends on the image of the castrated woman to give order and meaning to its world. An idea of woman stands as lynch pin to the system: it is her lack that produces the phallus as a symbolic presence].
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Mulvey sostiene che alla base dello sguardo voyeuristico che nutre il cinema, e più in particolare nel suo studio il Male Gaze, ci sia una triangolazione fondamentale di tre sguardi: registico, spettatoriale e attoriale. Affinché non si stabilisca una distanza critica tra lo spettatore e l’immagine sullo schermo, il cinema secondo Mulvey sospende ogni altro sguardo che non sia quello in cui lo spettatore può finalmente proiettarsi, quello in scena. In questo modo si può ottenere quel principio di immedesimazione che contraddistingue ogni esperienza scopofiliaca, dove il soggetto spettatoriale incarna il proprio sguardo nei personaggi che agiscono sullo schermo e, quindi, inconsapevolmente, in quello della camera che dà forma all’intera messa-in-scena.

Un’analisi di impronta femminista, oltre a considerare lo spettatore come una componente indispensabile per riflettere sul regime scopico e sul dispositivo cinematografico, tenta di rivelare i rapporti di potere in gioco, le modalità di costruzione delle soggettività e le ideologie che nutrono queste immagini. Infatti, ben prima di essere visto, un film si dà a vedere, si rivolge a qualcuno“…ben prima di essere visto, un film si dà a vedere, si rivolge a qualcuno” e in tal senso è dunque centrale comprendere il ruolo che gioca, attivamente e passivamente, lo spettatore in questa giostra di proiezioni e sguardi.

«Questo tu che si costituisce con il costituirsi stesso del discorso filmico è infatti come prigioniero di una doppia gabbia. Da un lato esso non si confonde con il semplice rappresentato: ne è piuttosto uno dei principi d’ordine […], una delle misure della rappresentazione. E nondimeno questo tu tende a ogni passo a far parte di quanto dovrebbe invece dominare»2424Francesco Casetti, Dentro lo sguardo, Bompiani, Milano, 1986, p. 142.
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L’11 settembre 2016, in occasione di una TIFF Talk per lanciare la 3a stagione di Transparent, Joey Soloway – che all’epoca si chiamava ancora Jill, il nuovo nome verrà reso pubblico solo nel 2020, con post su Instagram, per meglio rappresentare la sua identità non binaria – ripristina il concetto di Female Gaze a partire dal seminale studio sul Male Gaze di Mulvey. Attraverso un monologo che per lunghi tratti riprende alcuni stilemi tipici della stand up comedy, Soloway propone una riattualizzazione del Female Gaze mobilitando, come Mulvey, una triangolazione di sguardi. Il primo, che identifica con l’espressione “feeling seeing”, è uno sguardo registico che privilegia il recupero della sensazione corporea, attraverso un uso in soggettiva della camera, che tenta di trasmettere l’emozione del protagonista per comunicare un Sentire piuttosto che una Visione.

Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

Il secondo sguardo che Soloway convoca è il “gazed gaze”, che si pone il compito, tanto politico quanto strutturale, di mostrare allo spettatore cosa implichi essere un oggetto di piacere per l’Altro. Il “gazed gaze” tenta quindi di rendere trasparente il meccanismo opaco che lega l’attore alla camera, svelando cosa significhi essere continuamente sondati, oggetti di uno sguardo senza volto. Il terzo e ultimo sguardo, “the gaze on the gazers”, intende porsi come rovesciamento finale dell’economia voyeuristica. Esso trasforma l’oggetto di visione in soggetto, provocando un’inversione dei ruoli: ora è il soggetto in scena che “vede” e rivolge il suo sguardo allo spettatore, colui che solitamente, e aproblematicamente (soprattutto se maschio, bianco, etero e cisgender), gode di una visione costruita sul suo inconscio patriarcale.
Il Female Gaze rielaborato da Soloway si presenta dunque come un’arma politica e un concetto operativo per riflettere sulla costruzione culturale della visione e disinnescare un fallocentrismo tossico ed essenzialista. Tanto in Transparent, quanto, in modo ancora più condensato, in I Love Dick, il Female Gaze è utilizzato per provocare nuova consapevolezza nello spettatore, attraverso un esercizio di regia plurale, in cui profili genderqueer, femminili e maschili (Joey Soloway, Kimberly Peirce, Andrea Arnold e Jim Frohna), compartecipano alla creazione di un nuovo sguardo.

Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

THE RITUAL. O di come I Love Dick sfidi il senso

Per otto episodi di circa 25 minuti ciascuno si assiste ai vari e più o meno fortunati stratagemmi attraverso cui Chris imbastisce la propria trama di seduzione per attrarre a sé Dick2525Alcune questioni centrali di questo e del prossimo capitolo riprendono un più esteso lavoro ermeneutico sulla serie condotto all’interno della tesi magistrale In soggettiva. I Love Dick nello sguardo di Narciso e Pigmalione, difesa dall’autore all’Università Iuav di Venezia nel marzo 2019.
. In meno di un minuto, verso la conclusione della serie, un violento strappo rompe l’incantesimo e svela un ribaltamento chiave nel rapporto Chris-Dick e nei due singoli soggetti, una lacerazione che non si esplicita con disprezzo o collera, bensì in veste di sangue mestruale. Sangue che da un verso lega i due corpi nel contatto più intimo, dall’altro divide le due soggettività e ristabilisce le distanze temporaneamente colmate dal desiderio. Attraverso il sangue, Dick passa dallo statuto dell’immaginario a quello del reale e il contatto trova la sua massima espressione nella penetrazione attuata dalle dita all’interno della vagina di Chris. Un contatto che infrange l’immagine che nutriva quel corpo rivelandolo per quello che è, un simulacro di un soggetto disperso. Tale capovolgimento avviene al termine dell’ottavo capitolo della serie, intitolato Cowboys and Nomads, e si rivela pienamente proprio quando Chris sussurra a Dick “touch my pussy”. L’episodio è diretto da Andrea Arnold, regista alla quale Soloway delega la regia – così come avviene nell’episodio 3, 4 e 7 e in altrettanti casi in Transparent. Nell’ordinare a Dick, durante un abbraccio commisto a intensi baci sulle labbra, di scendere con la mano verso la sua vagina, Chris dà inconsapevolmente il via a una catena di microeventi che infine la fanno uscire di scena vestita da cowboy, col sangue mestruale lungo la gamba.

Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

Se il sangue segna indelebilmente la fine del rapporto tra Chris e Dick, va evidenziato il modo attraverso cui questo avviene. Dick appena scorge il liquido viscoso frapporsi tra lui e Chris raggiunge la toilette per lavarsi le mani. Chris allora inizia a chiamarlo, invano. Dal momento in cui Dick entra in toilette appare prima attraverso le mani che deterge e poi soltanto attraverso lo specchio che rifrange la sua immagine. Chris, lasciata sola, si guarda intorno e si coglie fuori-luogo. Si riveste, indossa dei pantaloncini, gli stivali texani e, infine, prima di chiudere la porta di casa dietro di sé, prende il cappello da cowboy di Dick e completa il travestimento.

Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

Chris deve farsi Dick per recuperare sé stessa. Ella, dall’inizio alla fine, si dà a Dick (simbolico o reale che sia): il suo è un atto d’amore; si lascia avvolgere da questo delirio desiderante in modo incondizionato e, grazie a questa uscita da sé, al suo ritorno – quando ormai l’idea-Dick non è più in grado di rinnovare il desiderio – può ritrovare una Chris finalmente emancipata. Nel suo viaggio al di fuori di sé, Chris dimentica l’autoreferenzialità e si allontana simbolicamente da sé medesima: solo attraverso un’immersione nella sfera maschile è capace di riappropriarsi pienamente della sua natura. L’appropriazione dei segni di Dick come tappa necessaria all’autodeterminazione è un punto chiave della metamorfosi identitaria di Chris. Sin dall’antichità classica il travestimento, dal maschile al femminile e viceversa, ha sempre agito come dispositivo chiave e come rito iniziatico in un contesto in cui la questione identitaria risulta portante. Chris sembra transitare nel maschile per iniziarsi al femminile. Non è più come nell’antichità un giovine o una giovinetta al centro della trasformazione, bensì una donna sulla quarantina, una regista indipendente che si smarca dal marito e dall’amante. Ella esce di scena finalmente disillusa, conscia infine che tutto il percorso che l’ha condotta verso Dick non è stato altro che un cammino di autoconsapevolezza, un sentiero fatto di vergogna, entusiasmo, umiliazione, desiderio, abiezione, violenza e piacere, necessario per abbracciare la propria natura complessa. La marca del proprio sesso torna a scorrere in lei mentre si allontana nel deserto manifestandosi sotto forma di sangue mestruale“…La marca del proprio sesso torna a scorrere in lei mentre si allontana nel deserto manifestandosi sotto forma di sangue mestruale” che cola dall’inguine fino alla coscia, macchia di distinzione che squarcia l’immagine di Chris-cowboy che aveva assunto poco prima. Il sangue mestruale ha sempre suscitato preoccupazione e inquietudine, rimanendo per lungo tempo un tabù. È legato ai simboli viscerali della caduta e della carne, è in relazione con il ciclo lunare e l’acqua nera; rientra pienamente «nell’argomento della femminilità terribile»2626Gilbert Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo, Bari, 2009, p. 124. Originariamente pubblicato da P.U.F. (Paris) 1960.
. Acqua, luna, mestruo: Chris attraversa tutte le simbologie connesse a queste tre grandi congiunzioni della femminilità prima di potersi liberare. Prima di camminare lontano col sangue mestruale che le cola fin sopra gli stivali da cowboy, Chris s’immerge nell’acqua della piscina di Dick per avvicinarsi a lui e per definitamente allontanare un aborto passato che la tormentava, e insieme a Dick guarda il cielo stellato riconoscendo la costellazione di Orione, il cacciatore notturno, prima di cedere al desiderio di baciarsi. La trasformazione di cui è oggetto Chris la ricompone in forma nuova, la rende cosciente del percorso compiuto e determinata a reperire i segni per leggere il futuro, dove sarà lei a scegliere come porsi, cowboy o nomade, in cerca di «nuove strutture di pensiero, nuove immagini e nuovi modi di pensare»2727Rosi Braidotti, Nuovi Soggetti Nomadi, Luca Sossella Editore, Roma, 2002, p. 9.
. Il titolo Cowboys and Nomads sembra così fungere da bivio: mantenere lo statuto del cowboy – impersonificazione del maschio monolitico, coraggioso, rude, protettivo, laconico, icona di controllo e violenza in un mondo androcentrico con donne da salvare o proteggere – o «superare la strettoia rappresentata dall’impalcatura concettuale del dualismo e le abitudini mentali perversamente monologiche del fallologocentrismo»2828Ivi.
. Secondo Braidotti il “nuovo soggetto nomade” deve prima di ogni cosa riflettere sul rapporto che lega la sua soggettività al corpo, dove quest’ultimo rifiuta qualsiasi forma di essenzialismo. Il soggetto non appare già fissato e immutabile ma si fa «luogo di un insieme di esperienze molteplici, complesse e potenzialmente contraddittorie, un luogo definito dalla sovrapposizione di variabili»2929Ibid, p. 13.
che continuamente trasmutano e divengono, modificando lo stesso concetto di soggettività. La figurazione del soggetto nomade «ha a che fare con quel tipo di coscienza critica che si sottrae, non aderisce a formule del pensiero e del comportamento socialmente codificate»3030Ibid, p. 14.
e contribuisce a sviluppare una cartografia dell’attualità che non si configura definendo un centro nevralgico e un’identità autentica, bensì si frammenta in fluide direzioni che non trovano né inizio né fine ma solo divenire che favorisce collegamenti inediti e percorsi insondati. Chris avrà dunque questo compito, di matrice post-strutturalista e femminista: performare sé stessa in un contesto trans -linguistico, -territoriale, -identitario, facendo attenzione a respingere l’impulso alla creazione di modelli paradigmatici, dandosi empaticamente e generosamente all’esperienza, in un gesto in cui il corpo si fa veicolo di una sensibilità diffusa, assecondando quello che Soloway definisce il “feeling seeing” del Female Gaze. Un “feeling seeing” che non coglie infine solo Chris ma l’intera comunità di Marfa attraverso la forma di un rituale, di una danza liberatoria, sovrasoggettiva e sovrasensuale, in cui la seduzione si propone come principio di incertezza e di erosione di ogni struttura binaria, verso una fluttuazione trans-identitaria e -sessuale.

Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

Il desiderio sconvolge Marfa e scuote tutta una serie di personalità altrimenti aride. Il desiderio di Chris esce ben presto dal monogamico e diviene opera collettiva divenendo ispirazione immediata di iniziative e attività esterne a lei. Quella direttamente colpita dal turbine generativo è Devon, giovane ragazza queer cresciuta proprio lì, in Texas, dal carattere ispido e solitario, artista-in-esilio in un camper parcheggiato adiacente al giardino della residenza di Sylvère e Chris. Devon – è lei tra l’altro a promuovere il rituale iniziatico attraverso cui le soggettività (a partire dai maschi!) si liberano simbolicamente, alla fine della serie, dalla tirannia del fallo – lavora come tuttofare alla fondazione Chinati, ma non appena legge delle lettere di Chris riscopre una pulsione creativa che aveva temporaneamente sepolto a causa di una rottura amorosa più dolorosa del previsto. Devon raggruppa altri artisti in residenza e amici vari e inizia a mettere in scena una lettura performativa delle lettere di Chris. Questa azione le permette di conoscere Toby, artista in residenza al pari di Sylvère, giovane storica dell’arte impegnata a indagare la pornografia come linguaggio. Il desiderio di Chris per Dick genera indirettamente l’attrazione di Devon per Toby; ma non solo. A sua volta Toby si avvicina a Sylvère, dal quale però si distacca prematuramente a causa della scarsa sensibilità che egli dimostra nel giudicare lei e la sua pratica; successivamente va a letto con un giovane operaio di un pozzo petrolifero, la cui condizione di vita e alloggio la ispira per girare un video in diretta streaming spogliandosi davanti alla camera. La tempesta pulsionale coglie anche Paula, la curatrice della Fondazione, vera organizzatrice e direttrice del polo, che dopo anni di sudditanza psicologica rompe con Dick, sua ossessione fin da giovane. L’episodio 5, l’unico nel quale è Soloway a firmare direttamente la regia – e che dà forma a un altro tassello del Female Gaze, il “the gaze on the gazers” –, si divide in quattro parti, quattro sguardi in cui prende forma la vita di Chris, Paula, Devon e Toby, e le loro relazioni con il loro personale dick.

Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios. Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

In questo episodio Soloway mostra la prospettiva di donne disilluse conscie di aver vissuto per lungo tempo all’ombra di uno sguardo più forte, più penetrante, più oscurante, il cui vedere è il Vedere, in cui ricoprono un mero ruolo passivo, oggettuale. Sono il corpo cinto in abbraccio, mai il braccio che stringe, sempre il corpo stretto; mai a decidere la prospettiva, ma sempre a subirla. Il percorso che tutte intraprendono nel tempo, ognuna in modo differente nelle vicissitudini e nelle modalità di espressione, è quello di emancipare la propria percezione, di non ridurla a specchio o proiezione di quella di qualcun altro. Ognuna illustra la propria silente fascinazione subita dal maschio-Dick, che accompagna Devon fin dall’adolescenza, Toby nella carriera artistica, Paula in quella professionale e Chris in quella amorosa. Ma nessuno di questi ambiti esclude l’altro, l’artistico si mischia al professionale che si mischia a sua volta all’amoroso: Dick si fa ologramma olistico che racchiude sicurezza, carisma, fascino, esperienza, retorica, bellezza, erotismo“…Dick si fa ologramma olistico che racchiude sicurezza, carisma, fascino, esperienza, retorica, bellezza, erotismo”. Sia che Dick possieda sembianze reali, come nella serie, sia che appaia quasi totalmente come opera immaginaria di Chris (e in parte di Sylvère) nel libro, egli si costituisce in quanto proiezione di qualcun altro. Lo esplicita chiaramente lə stessə Soloway:

«In un certo senso Eileen era il mio Dick e Transparent il mio I Love Dick. Molte persone della mia vita le ho trasformate in storie. Immagino di aver avuto gli stessi tipi di conversazione che la Chris letteraria ha avuto con il Dick immaginario: “Questo non riguarda te. Oh, so che c’è il tuo nome. Ma non si tratta di te. Si tratta di me”»3131Traduzione di chi scrive. [In some ways, Eileen was my Dick. And Transparent was my I Love Dick. Many people in my life were synthesized into stories. I had to have the same kinds of conversations the fictional Chris had with the fictional Dick: This is not about you. Oh, I know your name is in it. It’s not about you. It’s about me]. Si veda qui.
.

Più si parla di Dick, più si parla di Chris. Ella arriva a scrivere nelle numerosissime lettere che gli invia: «Caro Dick […], in un certo senso ti ho ucciso. Sei diventato caro diario […]. Da quando ti ho iniziato a scrivere, Dick, ho iniziato a scrivere lettere d’amore. Quello che non sapevo era che scrivendo lettere d’amore stavo scrivendo lettere all’amore…»3232Kraus, cit. 1998. Traduzione di chi scrive. [Dear Dick… I guess in a sense I’ve killed you. You’ve become Dear Diary… Since I was writing to you, Dick, I was writing love letters. What I didn’t know was that by writing love letters I was writing letters to love].
.

Se nel testo Dick si fa essenzialmente in assenza di presenza, nella serie invece si ricostruisce attraverso singoli frame e posture estetiche, dettagli che ne definiscono i tratti ideali sui quali poi si evolve il desiderio di Chris, un desiderio che crea movimento, che mette in moto un’intera comunità, «il desiderio non è mancanza, è energia in eccesso – una sensazione di claustrofobia dentro la tua pelle»3333Ibid., p. 239. Traduzione di chi scrive. [Desire isn’t lack, it’s surplus energy – a claustrophobia inside your skin].
. Più volte Chris durante gli episodi cede all’immaginario e visualizza Dick in atti simbolici dal profondo valore iniziatico e seduttivo; in altrettante occasioni inquadra Dick concentrandosi su singole porzioni, le mani per esempio, mentre compiono azioni quotidiane come rollare una sigaretta: l’atto assume per Chris una carica erotica tale da escludere ogni voce, suono, parola o sguardo che non abbia al suo centro quelle dita, quel gesto. Tale pulsione avviene attraverso un meccanismo estatico in cui Chris percettivamente si distacca dal suo corpo per fondersi nel gesto, trasferendo il proprio baricentro nella frazione di spazio che circonda l’azione ammaliante. La mano riveste un ruolo simbolico in questo rapporto con l’immagine-Dick. Per sottolineare gli attimi più carichi di passione, non importa che essa sia espressione di frustrazione o eccitazione, durante la serie viene utilizzata una tecnica che frammenta la proiezione continua del video, bloccando tre, quattro singoli frame e intervallandoli l’uno dall’altro con un istante di fermo immagine. Si spezza il flusso e il ritmo regolare della visione con immagini fisse, fotografie che più significativamente rendono idea del momento topico a cui si sta assistendo. Quegli attimi fermati, isolati, sono penetrati ancor più voyeuristicamente dallo spettatore che in essi cerca di raccogliere il senso del tutto. Una visione, quella della mano, che è più opportuno considerare come un toccare, gesto carico di erotismo e controllo, un desiderio di farsi carne al tatto.

In questo slancio estetico-contemplativo il corpo di Chris perde di consistenza e si recupera, una volta spezzata la proiezione, senza interrogarsi logicamente. Dick invece è continuamente scrutato, si sente un oggetto come solo una donna è abituata a esserlo. E questo lo imbarazza, lo mette a disagio, poiché in questo modo assume una diversa consapevolezza della propria esistenza. Qui giace l’ultimo sguardo del Female Gaze, il “gazed gaze”. L’ascetismo apparentemente ricco di fascino di Dick si rivela essere, sotto lo sguardo di Chris, un semplice ripiego a un mondo troppo complesso da affrontare.

Dick assume i tratti di un fantasma, personifica un amore sovrapersonale, sovrumano forse, tanto che il paragone con Gesù prende forma, un Gesù che si fa femminile a causa della sua bellezza: «Si amano i santi per quello che fanno […]. Ma Gesù è come una ragazza. Non deve fare niente. Lo si ama perché è bellissimo»3434Ibid., p. 113. Traduzione di chi scrive. [You love the saints for what they do… But Jesus is like a girl. He doesn’t have to do anything. You love him ’cause he’s beautiful].
. Dick come Gesù, un Gesù-femmina che non deve far altro che mostrarsi per essere desiderato, amato, venerato. Posto su un piedistallo, la sua posizione significa per lui, tanto che il suo corpo potrebbe divenire statua senza che questo pregiudichi alcun sentimento. Dick si erge in quanto immagine inconsapevole di specchiare chi la guarda. Chris scopre di esserci solo grazie al delirio-Dick, che la scuote e la riforma. Non sorprende che a infrangere un così complesso delirio sia il semplice contatto: l’immagine illude, il simulacro perturba ma perché questo avvenga è necessario che l’intero gioco si strutturi a distanza. La distanza tra il soggetto e l’oggetto di proiezione è fondamentale per permettere l’operazione. Finché è Chris a dirigere la narrazione, tutto scorre, tutto prosegue; Dick può sedurla, sfiorarla, incantarla. Ma egli non può iniziare un tracciato personale, non ne è provvisto; e quando il sangue lacera la tela, quando palesa questa mancanza costitutiva, tutto si smembra, tutto si fa corpo, corpo che Dick non è.

Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

L’immagine del cowboy-artista chiama in causa un immaginario così carico semioticamente da disincentivare ogni ulteriore ricerca che miri a valicare tale visione. Alla fine dell’episodio pilota, all’alba di un nuovo giorno, Dick, dopo aver conosciuto Chris e Sylvère, raggiunge il bacino d’acqua vicino a casa e si spoglia, si sfila gli stivali, il cappello da cowboy, i jeans attillati, e si addentra nell’acqua fino alla testa, poi tutto, sprofondando completamente. A bordo vasca rimane solo l’attributo che lo definisce in quanto tale: il suo abbigliamento da cowboy – la sua maschera. L’acqua introduce Dick e lo specchio lo conclude. Come già evidenziato, la serie termina con Dick che si riflette allo specchio della sua toilette. La piscina di Dick risalta come dispositivo di contrasto: attorno a essa c’è solo deserto, aridità e nuda pietra. Immergendosi, Dick scompare per farsi proiezione di Chris la quale, al contrario – compiendo la stessa azione nell’ultimo episodio della serie – nell’acqua si disoggettualizza, abbandonando ciò che era per riappropriarsi di sé in forma nuova. Dick, grazie all’architettura proiettiva elaborata da Chris, ritrova vita propria, una vita che aveva abbandonato da tempo, nascondendosi nel suo angolo di mondo, in esilio volontario, nel deserto del Texas. Egli è stato strattonato da Chris troppo a lungo per non destarsi e comprendere che il caos non è là fuori, ma dentro la sua testa. Deciso a rimettersi in gioco, nel suo nuovo ruolo attivo – relazionale – egli si ritrova impacciato e impaziente, non è in grado di gestire il tempo di conversazione. Quando finalmente è pronto a donare, e non esclusivamente a ricevere, cucina una pasta al sugo a Chris e le chiede come trova la sua ultima opera – a questa rinascita corrisponde anche una ripresa dell’attività artistica – ma la voglia di comunicare è troppa e subito dopo glielo dichiara: ha lasciato la fondazione. Motivando sbrigativamente che è giunta l’ora di prendere qualche rischio, va a mettere su un vinile. Dick è un pessimo ballerino e accenna solo qualche passo fuori tempo mentre Chris si lascia andare, conosce troppo bene i “New York Dolls” per stare ferma. Al che lui rilancia: «Che ne dici se ci ubriachiamo e facciamo un falò?».

Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

Nel quinto episodio diretto da Soloway tutti i soggetti femminili in campo si svelano, in una sorta di confessionale aperto, guardando in camera e raccontando del loro rapporto con il simbolo fallo-dick. Ogni storia include Dick in modo diverso ma tutte le versioni concorrono a formare un ideale di atavico machismo che le condiziona nel profondo, le influenza nelle scelte e nel performare la loro identità femminile. È da notare come Dick, interpretato e vissuto immediatamente come Esempio, non appartenga al piano reale di svolgimento della scena, ma fluisca parallelamente: le sue parole si fanno monumenti, il suo passo sessuale, le sue opere falli. Dick gode di una agognata solitudine, di un’elisione continua dal piano degli scambi reali; ciò gli permette di relazionarsi al mondo da una posizione privilegiata, a distanza, in quanto cowboy destituito, senza più lazo né pistola, senza più funzione effettiva se non brillare. Ogni sua parola assume lungo la serie un valore paradigmatico e le sue affermazioni appaiono come dei monoliti invalicabili: è un soggetto a cui non si può controbattere nulla. Nell’episodio pilota si alza da tavola asserendo convinto che non legge un libro da dieci anni, giustificandosi attraverso una criptica e veloce risposta «Sono post idea»; nel secondo episodio, quando Chris gli presenta un suo lavoro di videoarte che Dick nemmeno perde tempo a vedere, ella si scaglia contro una sua opera iconica: un mattone posto in verticale, su di un piedistallo; al che Dick risponde concisamente: «Amo le linee rette. La linea retta è la perfezione». Nel quarto, data l’insistenza con la quale Chris dimostra di non demordere nel volerlo, lui le dice: «Non ti trovo interessante, né ora, né mai», andandosene subito dopo. Nel settimo episodio, dopo aver barattato con Sylvère il corpo di Chris, entrando nella sua camera d’hotel, mentre lei è coperta solo da un asciugamano, Dick sussurra: «Sono qui per darti quello che vuoi», e ancora «credo che tu non voglia sapere un cazzo di me». Dick illude l’Altro attraverso l’immagine, attira a sé soggetti desiderosi di essere allevati, protetti e nutriti (come un buon pastore protegge l’agnello che porta sulle spalle, come nell’iconica scena dell’episodio 4), ma conserva un rapporto con l’esterno solo se questo si presenta nella forma maschio-maschio: il femminile gli è alieno. Egli affascina alterità deboli che cercano in lui l’Identità che egli stesso è il primo a bramare. Dick, al contrario di Chris, non fa di nessuno il suo oggetto di proiezione, il suo narcisismo non necessita di fissarsi in una specifica forma: si fa mondo tutto, lo accompagna in ogni sua sortita. Egli sente continuamente l’esigenza di vedersi attraverso gli occhi di un altro-identico; infatti nomina Paula come sua stretta collaboratrice, che per lui altro non è che una forma di specchio autocelebrativo. Così Dick non si allontana mai da sé ma reitera esperienze e comportamenti che quietano la sua sete di autostima e controllo. Circondandosi di arida pietra crede di sfuggire al confronto con l’Altro, ma la cosa, infine, non gli riesce. Quando infine si specchia in bagno mentre è occupato a tergersi le mani dal sangue di Chris, sembra riconoscersi, un Narciso che troppo a lungo ha creduto che quell’immagine fosse mondo, ora, consapevole dell’illusione, non è più capace di uscire da quel cerchio dell’identico, che lo consumerà fino all’inaridimento. La sua è ormai una postura esistenziale.

Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

MARFA. O di quel luogo dell’immaginario che è ovunque e in nessun posto

Per poter configurare adeguatamente tali questioni, la serie prende forma in spazi altri rispetto a quelli presenti nello scritto di autofinzione di Kraus. Occorre dunque, prima di concludere questa esplorazione, approfondire velocemente la costruzione dell’immaginario-Marfa, soffermandosi sulla specificità del luogo, sulla meta-temporalità che esso convoca e sul ruolo che svolge nella topologia dell’inconscio occidentale. L’impalcatura che sorregge I Love Dick delinea infatti soggetti metamorfici in spazi illusoriamente credibili. La tensione costitutiva che sorregge lo stare-al-mondo dei personaggi sembra conformare anche il loro immaginario topologico: il contesto d’azione diviene esso stesso parte del processo di ricerca identitaria che investe l’intero storytelling. Affinché le complesse forme di soggettivazione che animano la scena si dispieghino all’interno di uno scenario di senso che consenta loro di assumere un valore contro-paradigmatico, Soloway e Gubbins lavorano profondamente per risemantizzare Marfa e l’ambientazione che delinea.

Per esaminare il contesto in cui prendono forma le pulsioni di Chris, Sylvère, Devon, Tobi e Dick si considera Marfa e, per metonimia, gli Stati Uniti tutti, come una scena – la scena in cui «buona parte dell’umanità […] ha proiettato e continua a proiettare i sogni, i desideri, le speranze, se non le utopie, ma anche le ossessioni, gli incubi, le paure, i fantasmi di ogni sorta»3535Hubert Damisch, Skyline. La città Narciso, Costa & Nolan, Genova-Milano, 1998, p. 103. Originariamente pubblicato da Seuil (Paris) 1996.
. Una scena che funziona come “inconscio incarnato” di un’Europa che si sorprende a fare i conti con il peso del proprio passato, in un gioco di resistenze e rimozioni. L’America si offre all’immaginario occidentale come terra senza passato, paese senza memoria, prefigurazione dell’avvenire, luogo dove la tradizione si crea attraverso la nozione di novità. È qui che il nuovo mondo mostra le proprie sembianze, dove la sua modernità progettuale prende forma e il soggetto si riconfigura. La città «è sempre stata il luogo per eccellenza, ma in forme costantemente rinnovate, degli interrogativi sullo stato del soggetto e sui segni di cui si dispone, nell’ambiente in cui si evolve, per individuarsi in quanto tale»3636Ibid., p. 32.
. Un luogo dove trova emersione e articolazione il problema del soggetto in termini di relazione-con-l’altro. In I Love Dick, la città (New York in primis) va in esilio, come i suoi protagonisti, e trova dimora nel deserto texano. La serie rivela una Marfa fatta di vagoni merce, cani randagi e famiglie di ispanici e latinos che si contrappongono alla piccola e stravagante comunità artistica radunatasi per il programma della Fondazione Chinati dove Dick insegna. Egli, inglobato a suo modo nel tessuto e nei costumi locali, rimane il collante apparente tra i due ecosistemi. Ma in realtà colei che meglio interpreta questo ruolo interstiziale risulta Devon, che, nata e cresciuta a Marfa, è resiliente ad adattarsi completamente alle consuetudini locali: il suo è un carattere rivoltoso – che non si piega e non rivoluziona, ma continuamente smuove.

La traccia della cantautrice Lhasa de Sela che apre il primo episodio della serie (e si intitola, non a caso, El Desierto) introduce il deserto come tema portante della serie. Il deserto assume fin dall’inizio un significato a cui opporsi: è inconciliabile con la vita. Massima alterità e creatore di illusione, esso diviene presto un luogo adatto alle stravaganze, lì dove nulla esiste, tutto si fa possibile.
Marfa si erge in quanto spazio-limite ai confini del mondo, dove il miraggio non appartiene alle architetture di lucente artificio che si stagliano all’orizzonte, ma al fluire dinamico delle soggettività che lo abitano. Marfa non ha alcuna pretesa di competere con Las Vegas“…Marfa non ha alcuna pretesa di competere con Las Vegas”, la “capitale del peccato del mondo occidentale”, il suo profilo è basso e umile, la sua funzione appare poco rilevante. Eppure è qui che Donald Judd si ritira e costruisce nel 1986 la sua fondazione e il celebre duo Elmgreen & Dragset installa Prada Marfa (2005), una replica più che verosimile di un tipico negozio Prada, con l’unica differenza che questo nasce per essere chiuso e sorgere in mezzo al deserto. Lo store-simulacro diviene vetrina di provocazione: la collezione disposta all’interno non può essere né toccata né acquistata – e difficilmente raggiunta. Situata a 60 km dal centro abitato, l’opera si fa copia che riflette sulla funzione del suo originale. Così come l’installazione di Elmgreen & Dragset, la stessa Marfa si fa luogo che mette in questione la realtà dello stereotipo western che la qualifica.

I Love Dick dona nuova linfa a uno scenario ambientale e identitario altrimenti esausto

Il territorio appare ontologicamente sospeso tra reale e immaginario. È qui che George Stevens gira Il Gigante nel 1956 con Jean Dean, subito prima di morire. È qui che Joel e Ethan Coen3939Joel e Ethan Coen (directors), No Country for Old Men [Film], Miramax Films, Scott Rudin Productions, Mike Zoss Productions, 2007.
, Paul Thomas Anderson4040Paul Thomas Anderson (director), There Will Be Blood [Film], Paramount Vantage, Ghoulardi Film Company, Scott Rudin Productions, 2007.
vengono per dar corpo alle immagini dell’America più aspra, e Larry Clark4141Larry Clark (director), Marfa Girl [Film], Adam Sherman, 2012. Larry Clark (director), Marfa Girl 2 [Film], Win Craft, Adam Sherman, 2018.
registra giovani forme di cruda sessualità. Marfa si fa paese senza luogo costituito da storie senza cronologia: «Probabilmente queste città […] sono nate nella testa degli uomini […], nello spessore dei loro racconti […], nel luogo senza luogo dei loro sogni»4242Michel Foucault, Utopie, Eterotopie [trascrizione di due conferenze radiofoniche del 1966], Cronopio, Napoli, 2006.
. L’immaginario prodotto da Marfa risulta così profondamente familiare da ergersi più nel regime del pensiero fantasmatico che nello spazio reale localizzato; eppure questa dimensione non perde di credibilità: ogni azione che prende forma in questo contesto assume un’auraticità assoluta. Il superfluo sembra lasciar posto all’essenziale; nel deserto acuisce la percezione del corpo, delle proprie pulsioni.

Jill Soloway, Sarah Gubbins, “I Love Dick”. Courtesy of Amazon Studios.

Per la sua natura isolata e primordiale Marfa richiama inoltre atmosfere da Selvaggio West. E il western sembra essere un tema che tocchi il soggetto occidentale atavicamente, nel profondo. Non è un caso che Michael Crichton, nel pensare il suo avveniristico parco a tema, destini al Far West una delle ambientazioni principali, e che Westworld, serie di Jonathan Nolan e Lisa Joy (2016-in corso), stia riscuotendo tanto interesse. Il selvaggio West si presenta come contro-spazio dove ogni morale viene sospesa, ogni istintualità esaudita. Sarà forse un caso, ma va esplicitato, anche solo per sottolineare la coincidenza, che colei che libera gli androidi dalla violenza umana in Westworld, come colei che recupera il desiderio in quanto Alterità in I Love Dick, è denominata Dolores (Devon non è che un’epiclesi) –, nome affatto casuale che porta con sé numerosi rimandi letterari significativi4343Tra i tanti, vengono in mente Lolita di Vladimir Nabokov e Cavalleria Rusticana di Giovanni Verga.
. Marfa, come Westworld, sembra possedere quelle marche particolari che la rendono terreno fertile per divenire proiezione dello stadio originario e selvaggio in cui regna la legge del più forte. Ma nella Marfa di I Love Dick l’eterotopia western scompare, viene ammutolita con indifferenza e un filo di ironia. Il cowboy si scopre artista, il ranch lascia il posto alla fondazione, il negozio si trasforma in opera d’arte e il panorama si riempie di sculture ambientali e di camioncini di cucina tex-mex. Rimane, tuttavia, uno spazio privilegiato che gode di un tempo privilegiato in cui le azioni di Sylvère, Dick e Chris risuonano con altro clamore rispetto a quello che le accompagnerebbe se performassero nel mondo metropolitano.

Marfa delinea un orizzonte che è in grado, in un certo qual modo, di abolire quel confine che relega le personalità nei propri corpi, e permette di fuggire lontano e scrutare la realtà senza la responsabilità di abitare una forma, passando da una prospettiva a un’altra, senza vincoli. Marfa diviene cornice creativa – spazio che neutralizza e contrasta tutti gli altri spazi – all’interno della quale accedere alla soggettività in maniera traslata ed espansa. Essa diventa un luogo contro-rivelatore in cui un’artista-cowboy si scopre debole alla vista del sangue, in cui anche le opere d’arte possono cadere in frantumi, in cui il desiderio si emancipa e il maschile si espone, ormai disperso, a un rito della bellezza. I Love Dick dona nuova linfa a uno scenario ambientale e identitario altrimenti esausto. In questo modo, anche il west più spietato può divenire teatro di un percorso di autoconsapevolezza femminile, in cui nessuno vince e ognuno si metamorfizza, dove il deserto non cela alcuna oasi ma dipinge solo panorami da esplorare. A connotare questo mondo non c’è più il sangue violento di una resa dei conti, bensì un sangue identitario: fluido biologico, ormonale, che, al contrario del primo – sintomo di morte – si fa esperienza simbolica che condensa in sé dolore e rigenerazione, vita.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Simone Rossi
  • Simone Rossi (1993) è dottorando presso l’Università Iuav di Venezia in co-tutela di tesi con la Universidade de São Paulo (FAUUSP). I suoi interessi di ricerca privilegiano uno studio trasversale alle discipline del progetto, per un’indagine delle dinamiche sottese all’immagine contemporanea tra editoria e cultura visuale. Dal 2015 collabora con CACTUS, studio creativo con sede a Milano, di cui co-cura il semestrale cartaceo e la piattaforma digitale PANORAMA.
Bibliography

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